La vita è una crostata

C’è una metafora che uso spesso, con me stesso e raramente con gli altri giacché io mi parlo molto soprattutto quando sono sereno, per indicare la cura che si dovrebbe mettere nel fare le cose. Che siano lavoro, svago, occasione o routine. È la metafora della pasta frolla. Io, da modesto appassionato di cucina, la mia la faccio così:

280 grammi di farina 00
170 grammi di burro
135 grammi di zucchero
3 tuorli
1 uovo intero
Scorza di limone grattugiata

È una ricetta che ho perfezionato nel tempo, più di vent’anni, togliendo e mettendo, preferendo una pasta friabile a una più solida, cedendo al gusto di un prodotto languidamente cedevole rispetto all’austerità di uno lievitato. E qui siamo al primo accenno di metafora: le cose si fanno col tempo e si modificano nel tempo; non c’è mai un solo modo per farle.
Poi il cuore del ragionamento.
La pasta frolla è facile da far male, come le cose che si fanno tanto per farle. Ci vuole la scienza della pasticceria, dove i grammi contano, e ci vuole l’ispirazione del momento, dove il tocco soffuso di un pensiero cambia un destino.
La pasta frolla, quella che mi piace, quella che faccio io, quella non industriale, quella non cementificata in teglie di alluminio, è scomoda. Se la tratti male ti si ritorce contro, se la assecondi non sarà mai accondiscendente. Ma alla fine, solo alla fine, ti darà la gioia del risultato.
La vita in fondo è una crostata. E provatemi il contrario.    

Il coefficiente soffritto

Amo cucinare. Eppure non mangio carne e pesce (tranne il “pesce non a forma di pesce” ma con tante di quelle eccezioni che riguardano più la psichiatria che la culinaria). Mentre gran parte degli uomini impazzisce per i motori e per il calcio, io sbavo per pentole antiaderenti e coltelli giapponesi. Il mio account Amazon gronda di oli aromatici, creme al tartufo, formaggi di fossa, farine, vini, paste, impastatrici, grattugie elettroniche e altri attrezzi di godimento. Ho una mamma che mi ha instillato la sensibilità cruciale di intuire a naso, o meglio a palato, dove ci va l’aglio, dove la cipolla e dove ci vanno tutt’e due: lei è una cuoca naturale, anni e anni di intuito applicato a soffritti e fornelli. Io invece sconto la pena del mio Doc con una eccessiva precisione dei tagli e delle cotture, una sorta di sterile effettismo che cozza con la fantasia e il brio dell’improvvisatore. Perché, diciamolo, sino a qualche anno fa non improvvisavo nulla tra i fornelli, ma oggi in vista di una anzianità cucinocentrica – causa virus, causa lavoro, causa cazzi miei – sono riuscito a liberarmi dal giogo della regola fissa. È accaduto per caso, del resto tutte le rivoluzioni accadono per caso: un vaso che trabocca, un proiettile più o meno vagante, un alzarsi col piede sbagliato. Molte volte ho pensato ai grandi stravolgimenti della storia come a conseguenze di piccoli fatti insignificanti. Lo statista che ha digerito male e che cambia i destini di un popolo dopo una notte insonne di gastrite. Il dittatore che sfoga la frustrazione di un amplesso fallimentare in un atto di guerra. Il ribelle che s’inventa la riscossa dopo aver subito l’ennesima umiliazione per il suo conto in banca. Il populista che muove il suo movimento dopo una cazziata domestica.
Affidarsi alla casualità non è mai una resa, ma una umana razionalizzazione.
Così è accaduto a me. Nella mia modestissima rivoluzione in cucina.
Un giorno mi sono ritrovato a corto di un paio di ingredienti cruciali che vedevano la convergenza di manuali come il sommo Artusi e l’immortale Cucchiaio di argento. E anziché cambiare rotta, ergo cambiare menu, ho scelto la via più complicata per un ossessivo compulsivo consapevole e non rassegnato: rompere gli schemi, uscire dal rito.
Così guardato l’orizzonte e ho cominciato a nuotare in mare aperto.
Passo dopo passo, anzi piatto dopo piatto, ho assaporato un nuovo gusto, quello dell’ispirazione. Ho osato accostamenti per me impensabili (odio l’agrodolce, ma il dolce più il salato non è per forza agrodolce); ho centellinato i lieviti; ho studiato senza pregiudizi la magica interazione tra uova farina e burro; ho bevuto vino rosso col pesce; ho perfezionato la mia ricetta di pasta frolla (la fornisco in privato solo su richiesta motivata); ho scoperto il riso; ho santificato l’unione tra finocchio e salsa di senape; e ho riabilitato il pomodoro crudo.
Sono uno che cucina a orecchio però sono uno che cucina sempre: quando sono allegro, o triste, o rilassato, o incasinato. Non c’è mai un motivo per non mettersi ai fornelli. In alcuni periodi difficili della mia vita, la cucina (come la musica) mi ha salvato la vita. Da solo o in compagnia, un soffritto è sempre stato l’inizio di un nuovo inizio. E un buon soffritto è la base.
Del resto nella vita, con gran dispendio di metafora, ci sono primi e secondi che si annunciavano sontuosi e che poi la storia ha certificato come insignificanti. E semplici pietanze nate come contorni che invece risulteranno indimenticabili.
Potenza del soffritto?

The sound of lasagna

Visto grazie a Mauro Caruso. A cui ho pure rubato il titolo.

Viaggio in America – il cibo

Cibo americanoNon vogliamo rivelare nulla, solo contribuire alla narrazione di una civiltà, di una cultura. La nostra esperienza americana sul fronte gastronomico si sostanzia di alcuni punti fondamentali.
La qualità del cibo non si discute, gli americani sono molto attenti a regole e tabelle. Difficilmente vi capiterà di mandare indietro un piatto per ragioni oggettive, cioè legate a difetti di freschezza del prodotto. Tuttavia è noto che per fare un buon piatto non basta avere buone materie prime.
La principale differenza tra il nostro cibo e il cibo americano è principalmente musicale. Sí, avete capito bene: musicale.
Prendiamo due ingredienti a caso, tipo pasta e salmone. La nostra cucina si preoccupa di garantire una giusta armonia tra i sapori, nello specifico userebbe il salmone come condimento per la pasta. Negli Usa non esiste il bilanciamento: se hanno una fetta di salmone e cento grammi di pasta, li impiattano l’una sull’altra, la fetta intera su un letto di pasta. E pur essendo sempre gli stessi ingredienti, cambia tutto. Perché non c’è il magico accordo, ma solo un insieme di note messe lì senza una scelta. Ecco la musica. Gli americani in cucina accatastano scelte monotonali senza accorgersi che un buon piatto è essenzialmente composizione e orchestrazione, anche nelle ricette più semplici. Lo si nota anche nell’uso e nel bilanciamento dei sapori dolci e salati. Negli Usa il contrasto è netto, se ti propongono un’insalata con bacon e salsa di mele, avrai un pastone che sa di marmellata perché loro le mele le trattano come mele e basta, al contrario di quanto accade in Italia e nella cucina orientale dove il frutto viene dosato e cucinato in modo da far risaltare gli altri sapori. Pensate al nostro agrodolce e immaginate quanti anni luce separi questi modi di cucinare. In generale laddove noi centelliniamo, loro abbondano. Se noi guarniamo, loro impastano. Se noi condiamo, loro annegano. Sono fortissimi con la carne perché hanno un’ottima materia prima che è (quasi) incorruttibile, nonostante i milioni di salse e salsette con cui ti stordiscono quando devi ordinare un semplice hamburger.
La verità è che qui in America tutto è plausibile, per la maniera con cui te lo propongono, per l’allegra sconsideratezza dei loro menù, per l’ingenua curiosità che riescono a suscitarti. Io ieri sera ho mangiato una cosa che se me la avessero proposta a Palermo, avrei allertato i Nas o mi sarei guardato intorno alla ricerca di una telecamera di “Scherzi a parte”: calamari fritti col formaggio. Un piatto che si giudica il giorno dopo.

5 – continua

Masterchef a casa mia

Cucina
Dani all’annuale workshop (francese) di cucina della nostra amica Mara

Quando, diversi anni fa, mia moglie che non era ancora mia moglie si avvicinò ai fornelli nella cucina di una casa che non era ancora la nostra casa, chiese se nell’acqua delle uova che aveva messo a bollire ci andava il sale oppure no.
Oggi lei cucina tre pietanze in contemporanea, sforna dolci complicati, si documenta, studia, va a consulto da mia madre cuoca di indiscussa fama familiare, adora il turismo enogastronomico e, soprattutto, quando ci sono io ai fornelli mi ronza intorno col ditino teso. E’, insomma, la dimostrazione che una passione quando ti prende, fa miracoli.
Non è sempre così, ovviamente.
Ci sono passioni che se ti saltano addosso, ti azzoppano. Esempio personale: giochi di palla. Quando sono con i miei amici, mi piace prendere a calci un Super Santos, ma finisce sempre che il gioco si interrompe per colpa mia perché ho mandato il pallone a mare, su un albero, dietro una cancellata o comunque in un posto che è drammaticamente lontano dal terreno di gioco. Perché a calcio sono scarso, tutto qui (lo stesso discorso vale per pallavolo, basket, eccetera).
Tornando alla passione di mia moglie per i fornelli, credo che il segreto dei suoi progressi sia tutto nella sapiente miscela tra amore e spirito di competizione, due forze che teoricamente dovrebbero essere vettorialmente opposte. In realtà, chi ama compete con maggior passione se l’obiettivo è vincere una gara in cui l’avversario è un suo alleato: in una famiglia, se si cucina in due, si mangia meglio.
Niente a che vedere col calcio. Lì il mio spirito di competizione si miscela con un altro sentimento: l’odio dei miei amici che per colpa mia non riescono a concludere mai una partita.
Quindi cucino benino, ma dribblo malissimo. Inutile dirvi che mia moglie ha un controllo di palla migliore del mio. Ora che ci penso: dovrò mica sospettare di qualche amico?

Ai confini della realtà

Nel lungo elenco di fenomeni inspiegabili e/o soprannaturali sui quali si interrogano fior di scienziati dovrebbe occupare un posto di riguardo il comportamento che mia moglie adotta, due volte alla settimana, la sera prima che venga la nostra collaboratrice domestica.
Dopo cena infatti, a casa scatta l’allarme pulizia. Tutto deve essere lindo, soprattutto in cucina. Io inutilmente cerco di spiegare che certo non mi sognerei di lasciare i piatti sporchi, ma almeno la lucidata dei fornelli ce la potremmo risparmiare. Lei niente, tira dritto con severa determinazione. Olio di gomito e Smac Brillacciaio.
Risultato, l’indomani mattina la signora delle pulizie arriva e trova parte della casa come l’aveva lasciata. Forse per questo ci vuole molto bene.

Quel porco di Natale

La vignetta è di Gianni Allegra

di Raffaella Catalano

Il mio Natale è un gran maiale.
Non nel senso che per la vigilia mi si presenta a casa un Babbo con la solita barba bianca ma che invece del vestito rosso ha un impermeabile da aprire davanti ai miei ospiti per esibire le sue pudenda, costringendomi a gridargli che è un porco.
No. Parlo di maiale nel senso di suino.
Il “porco di Natale” è una mia ricetta, che un tempo definivo più amabilmente “maiale al latte”. Prima di detestarla.
Sono secoli che a casa mia, in vista delle feste, si fa una specie di riunione per decidere il menù del 24 sera. Siamo in tanti e bisogna coordinarsi se non si vuol finire per mangiare solo antipasti o solo dessert. Capitò una volta – non so dire quando, dato che il ricordo ormai si perde in un passato paleolitico – che, mannaggia a me, mi offrii di cucinare il maiale al latte.
Il consenso fu unanime. Tutti ricordavano che in un ieri ancora più remoto lo preparava ogni tanto mio nonno quando eravamo bambini. Poi mia madre. Era buonissimo. Indimenticabile.
Da allora, quel suino mi pesa come se lo portassi sul groppone. Fu un successo di tali proporzioni – oggi direi una sciagura – che non c’è stato più scampo: non è Natale se non mi si costringe a rifarlo, rifarlo, rifarlo. E io, da un anno all’altro, ogni notte ho incubi a base di fiumi di latte, distese di burro, piogge di chiodi di garofano e, nel mezzo, come una sadica vedette, lui, il maledettissimo porco.
Quest’anno avevo sperato in una svolta. La diossina! Il suino avvelenato! Che bello, ce lo vietano, avevo pensato, immaginandolo bandito almeno una volta dalla nostra tavola.
E invece no. Condannata a cucinarlo ancora.
Chi vuole la ricetta me la chieda. A suo rischio e pericolo.