Amo cucinare. Eppure non mangio carne e pesce (tranne il “pesce non a forma di pesce” ma con tante di quelle eccezioni che riguardano più la psichiatria che la culinaria). Mentre gran parte degli uomini impazzisce per i motori e per il calcio, io sbavo per pentole antiaderenti e coltelli giapponesi. Il mio account Amazon gronda di oli aromatici, creme al tartufo, formaggi di fossa, farine, vini, paste, impastatrici, grattugie elettroniche e altri attrezzi di godimento. Ho una mamma che mi ha instillato la sensibilità cruciale di intuire a naso, o meglio a palato, dove ci va l’aglio, dove la cipolla e dove ci vanno tutt’e due: lei è una cuoca naturale, anni e anni di intuito applicato a soffritti e fornelli. Io invece sconto la pena del mio Doc con una eccessiva precisione dei tagli e delle cotture, una sorta di sterile effettismo che cozza con la fantasia e il brio dell’improvvisatore. Perché, diciamolo, sino a qualche anno fa non improvvisavo nulla tra i fornelli, ma oggi in vista di una anzianità cucinocentrica – causa virus, causa lavoro, causa cazzi miei – sono riuscito a liberarmi dal giogo della regola fissa. È accaduto per caso, del resto tutte le rivoluzioni accadono per caso: un vaso che trabocca, un proiettile più o meno vagante, un alzarsi col piede sbagliato. Molte volte ho pensato ai grandi stravolgimenti della storia come a conseguenze di piccoli fatti insignificanti. Lo statista che ha digerito male e che cambia i destini di un popolo dopo una notte insonne di gastrite. Il dittatore che sfoga la frustrazione di un amplesso fallimentare in un atto di guerra. Il ribelle che s’inventa la riscossa dopo aver subito l’ennesima umiliazione per il suo conto in banca. Il populista che muove il suo movimento dopo una cazziata domestica.
Affidarsi alla casualità non è mai una resa, ma una umana razionalizzazione.
Così è accaduto a me. Nella mia modestissima rivoluzione in cucina.
Un giorno mi sono ritrovato a corto di un paio di ingredienti cruciali che vedevano la convergenza di manuali come il sommo Artusi e l’immortale Cucchiaio di argento. E anziché cambiare rotta, ergo cambiare menu, ho scelto la via più complicata per un ossessivo compulsivo consapevole e non rassegnato: rompere gli schemi, uscire dal rito.
Così guardato l’orizzonte e ho cominciato a nuotare in mare aperto.
Passo dopo passo, anzi piatto dopo piatto, ho assaporato un nuovo gusto, quello dell’ispirazione. Ho osato accostamenti per me impensabili (odio l’agrodolce, ma il dolce più il salato non è per forza agrodolce); ho centellinato i lieviti; ho studiato senza pregiudizi la magica interazione tra uova farina e burro; ho bevuto vino rosso col pesce; ho perfezionato la mia ricetta di pasta frolla (la fornisco in privato solo su richiesta motivata); ho scoperto il riso; ho santificato l’unione tra finocchio e salsa di senape; e ho riabilitato il pomodoro crudo.
Sono uno che cucina a orecchio però sono uno che cucina sempre: quando sono allegro, o triste, o rilassato, o incasinato. Non c’è mai un motivo per non mettersi ai fornelli. In alcuni periodi difficili della mia vita, la cucina (come la musica) mi ha salvato la vita. Da solo o in compagnia, un soffritto è sempre stato l’inizio di un nuovo inizio. E un buon soffritto è la base.
Del resto nella vita, con gran dispendio di metafora, ci sono primi e secondi che si annunciavano sontuosi e che poi la storia ha certificato come insignificanti. E semplici pietanze nate come contorni che invece risulteranno indimenticabili.
Potenza del soffritto?
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