Un vestito nuovo

Da oggi questo blog si presenta con una grafica innovativa e con una veste più elegante. Solo che se uno pensa a un abito elegante magari se lo immagina anche scomodo. Invece qui si è cercato di conciliare la classe con la praticità.
I testi, come vedete, sono ancora più leggibili (li ho sperimentati personalmente, da buon presbite astigmatico e ipermetrope). La navigazione è più veloce. Gli orpelli sono stati eliminati. La finestra su Twitter è stata aperta alla banda dello staff di diPalermo.
Mancano ancora un paio di cose, ma nei prossimi giorni si rimedierà.
Ovviamente il merito di tutto ciò non è mio, ma di Giuseppe Giglio che ha coordinato il restyling e di Dario Mentesana e Gianluigi Cusimano che hanno smanettato tra codici e template.
Grazie a loro e grazie a tutti voi per l’intransigente attenzione che ogni giorno mi riservate.

Una (modesta) proposta per il Palermo Pride 2013

Titti de Simone, presidente del Coordinamento Palermo Pride 2013, mi accusa garbatamente di essere vittima di “antichi pregiudizi sempre vivi” per questo articolo sul dorso siciliano di Repubblica. Il succo del mio ragionamento – per farla breve – è questo: non mi piace che le giuste istanze e le importanti questioni poste dal movimento lgbtq finiscano annacquate nella malinconica e scontata parata coi carri, i parrucconi e gli ancheggiamenti vari.
Lo dico, e lo ribadisco, non perché sono un bacchettone o un parrinaro della prima ora, ma perché ho talmente a cuore la tutela delle diversità – tutte, non solo quelle basate sui gusti sessuali – che ritengo il ricorso alla provocazione un mezzo preistorico.
La rivendicazione di un orgoglio non trova, a mio modesto parere, la sua massima realizzazione nell’esasperazione delle pulsioni e nella teatralità dei gesti. Non più, almeno. Alla cara Titti de Simone vorrei ricordare – anche se non ce n’è bisogno – che di esteriorità e di ostentazione la nostra vita politica è stata intossicata. Siamo sopravvissuti, per non dire scampati, a stagioni in cui la dimostrazione era scollata dai fatti: esibizione di muscoli elettorali, finto spirito di gruppo, cultura del mostrare e dell’apparire, tendenza all’agitare le acque.
Io dal Palermo Pride 2013 voglio una dimostrazione di modernità. Voglio ascoltare le storie degli ultimi che dovrebbero essere i primi, voglio tifare per chi sta finalmente rimontando dopo un’ingiusta sconfitta, voglio essere assimilato nella mia differenza. Leggere che “essere orgoglioso significa assumere la propria identità di oppresso come identità non naturale, ma politica” non mi dà la migliore delle sensazioni. Perché da voi e da te, cara Titti de Simone, io mi aspetto il volo della genialità, mi aspetto la vera riscossa dopo anni di oscurantismo clericale, mi aspetto tutto tranne che la pantomima dei carri che sfilano tra le risatine degli ignoranti e il broncio dei gretti. I tempi sono maturi perché l’oppresso non usi più l’allegoria per alzare la testa di nascosto, non racconti più la verità attraverso una maschera. Oggi si parla chiaro. E il parlare chiaro premia gli onesti, come ben sappiamo.
“Paillettes, lustrini, piume di struzzo e tette al vento, quando ci sono, insieme a quel tanto altro che sono le nostre vite, in realtà sono la messa in scena di un’ipocrisia gigantesca”, scrivi tu. Imitare o scimmiottare quest’ipocrisia è un modo antico di combattere il pregiudizio. La modernità, perdonami, è un’altra cosa (e ho 50 anni porca miseria, non sono un giovane). La modernità è mettere in discussione i riti più scontati (e quindi comodi), è farsi venire un’idea, è il non trincerarsi dietro il noto (che ha dato i frutti che ha dato), ma tentare strade nuove.
Vi lancio una proposta, dal mio angusto abbaino.
La sfilata dei carri non si fa neanche più a Carnevale. Bene, con un gesto di coraggio lasciamola ai ricordi, come i braccialetti di cuoio e le collane con le perline.
Cambiamo/cambiate  tutto, magari ammettendo di essere caduti in qualche ingenuità, di certo a fin di bene.
Facciamo una grande festa, insieme, senza costumi che segnino le differenze, senza i rancori che leggo ancora in certi commenti su internet. Brindiamo, balliamo, cantiamo. Tutti uguali, come è giusto che sia. Del resto l’abito non fa il monaco per un semplice motivo: perché spesso il monaco quando non fa il monaco l’abito se lo toglie.

Chi cerca il pelo nel Grillo

C’è una gara – nel web, nei giornali, nei tinelli – a chi gode di più nel tentare di cogliere in fallo i parlamentari del Movimento 5 stelle o Beppe Grillo. E’ – lo scrivevo ieri in un tweet – una moda tipicamente italiana quella di puntare alla decostruzione di qualcosa che si è appena, democraticamente, costruito. Non intendo tirare la volata a quelli del M5S (tra l’altro ne ho scritto anche criticamente talvolta qui e sulla carta stampata) però mi piacerebbe vivere in un Paese in cui, dopo le elezioni, ci si concentra tutti sul risultato e sui frutti che quel risultato può dare. Il che non intaccherebbe lo spirito critico, ma almeno darebbe l’impressione di essere popolo, comunità, nazione, e non una gigantesca macchina a gettoni che si tira fuori a ogni consultazione elettorale.
Mi piacerebbe che un giorno qualcuno, di qualsiasi partito, coniasse uno slogan di questo tenore: noi lavoriamo per voi, voi abbiate la pazienza di restare uniti.

Grillo, il trionfo e le risposte che servono

Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

Da ieri pomeriggio se uno dice “rivoluzione civile” è più intuitivo pensare al “Movimento 5 stelle” che al partito di Antonio Ingroia, che pure quelle parole se le era messe nel simbolo. E ciò perché alla luce dei fatti (e dei misfatti) elettorali i candidati di Beppe Grillo sono i protagonisti di un mutamento epocale che introduce una sorta di nuovo modello di rappresentanza sociale.
Se in passato si è parlato della Sicilia come di un laboratorio politico – un modo spesso elegante per ammantare nefandezze e tradimenti di una veste pittoresca e un po’ naif – oggi è il caso di identificarla come un palcoscenico: niente esperimenti, ma esibizioni, niente soluzioni scientifiche, ma doppi salti mortali.
Il movimento di Beppe Grillo ha riempito le piazze e i cuori di molti disillusi dalla politica, pur non riuscendo a influire sensibilmente, come invece da più parti ci si aspettava, sui refrattari al voto, ed ha saputo approfittare del vento contrario della politica per accelerare l’andatura: i velisti la chiamano bolina, tutti gli altri furbizia. All’Ars con la restituzione di parte dei compensi dei deputati e con l’opposizione al Muos e alle trivelle nel Belice ha dato una sua efficace interpretazione della “politica del fare”. Un buon punto di partenza, certo, ma tra l’atto dimostrativo, figlio legittimo dell’entusiasmo e della novità, e una coerente strategia amministrativa c’è differenza: una cosa sono i numeri in cui esibirsi, un’altra sono quelli da far quadrare.
L’esito delle elezioni politiche è quindi per il “Movimento 5 stelle” l’occasione per tendere i muscoli e spiccare il grande salto. Il vero ostacolo da superare è la coesistenza con gli altri, partiti e soprattutto elettori. L’ambizione dei grillini di rappresentare la vera Italia si schianta con i risultati elettorali che ci raccontano di tante piccole Italie, e soprattutto di tante piccole Sicilie che votano da un lato guardando dall’altro. Sinora Grillo ha scelto di non rispondere delle sue scelte riscuotendo una fiducia degna di un mahatma. Tra i suoi seguaci ha mostrato le migliori casalinghe, ha esibito i disoccupati più valorosi, ha schierato i laureati più incompresi. Si è persino scelto i giornalisti che dovevano interagire con lui (tagliandone fuori la maggior parte). (…)

La moda dell’onestà

Grillo promette: “L’onestà diverrà di moda”. E’ una bella prospettiva che non può avere oppositori: trovereste qualcuno che promette il contrario? Vabbè, forse sì… ma per praticità escludiamo i lestofanti.
Comunque il problema è questo: basta l’onesta per governare un Paese?
Ovviamente no. Però l’Italia si trova in una posizione più scomoda, in cui chiede non già di essere governata, bensì implora una ricostruzione. Che è una cosa diversa.
Per amministrare servono competenze e furbizia. Per scavare tra le macerie servono braccia forti, magari giovani, e abnegata onestà. Perché tra governi politici e tecnici, tra ministri esperti e creativi, tra figli di papà e figli di puttana, abbiamo consegnato la nostra nazione a gente che quanto a capacità distruttiva considera gli Unni poco meno che pivelli.
La moda dell’onestà, con tutte le scintille qualunquiste che può suscitare, è quindi più che auspicabile, chiunque la proponga.
Il modello di governo che l’Italia degli onesti si aspetta è semplice e di un’intransigenza ferrea: lavorare a testa bassa per tirare su tutto ciò che è venuto giù. Senza fronzoli, senza privilegi, senza odiosi orpelli.
Altrimenti le prossime elezioni, se le faremo, le faremo nelle caserme.

Un buon esempio di sindacalismo

Con un’iniziativa senza precedenti oggi il cdr del Corriere della sera respinge il selvaggio piano editoriale presentato dall’amministratore delegato di Rcs Mediagoup e promette mini-inchieste quotidiane per raccontare gli errori di gestione del gruppo.
È il miglior modo conosciuto di fare sindacato, senza arroccarsi su posizioni di privilegio e senza tacere una virgola. Il lavoro si difende col lavoro, non coi cortei violenti o con sterili slogan. Se si attaccano violentemente un’istituzione del giornalismo e un gruppo editoriale prestigioso, occorre dimostrare che il prestigio è ancora nelle mani dei lavoratori che hanno reso grande quell’azienda.
Quindi, parafrasando (molto alla larga) Gesualdo Bufalino, scrivere per difendere i diritti, scrivere per tagliare la linea di fuoco dei licenziamenti selvaggi, scrivere per salvare la libera scrittura. Scrivere.

Buon lavoro, Enrico

Il nuovo capo della redazione palermitana di Repubblica è Enrico Del Mercato ed è un giornalista che conosco abbastanza bene. Ne scrivo, brevemente, solo per testimoniare che non poteva esserci scelta più adeguata, anche simbolicamente.
Enrico è uno di quei palermitani d’adozione che sanno di Palermo più di chi in questa città c’è (magari inutilmente) nato.
Curioso e appassionato, è un cronista che non conosce partiti presi. Nel suo spiccato senso dell’ironia c’è sempre spazio per l’autocritica: è una di quelle poche persone coscienti del disvalore dell’infallibilità.
Una sera d’estate di molti anni fa, ci trovammo ospiti di un importante imprenditore vinicolo e la discussione virò improvvisamente sulla politica e sulla classe imprenditoriale siciliana. Lui ravvisò gli estremi di una imperdibile polemica post-prandiale (noialtri invece eravamo svaccati e vacanzieri) e si imbarcò in una filippica che lo portò a criticare aspramente il padrone di casa e i suoi amici. A fine serata, quando rimanemmo soli, ridemmo a crepapelle per l’invettiva di inaudita passione. Lo prendemmo anche in giro dicendo che quell’imprenditore, che faceva un buon vino, non ci avrebbe mai più invitato a casa sua.
Sbagliavamo.
Poco tempo dopo ci arrivarono delle bottiglie a casa con un biglietto di ringraziamento.
Ecco, questo minimo episodio spiega come la guida di Enrico Del Mercato non potrà che fare bene a una redazione come quella di Repubblica Palermo.
Testa alta, divieto di pregiudizio, guizzo polemico e passione al cubo.
Buon lavoro, Enrico.

Uso adeguato di Twitter

Al di là degli impegni mantenuti o meno, delle promesse dell’amministrazione e delle speranze del cittadino, questo rapporto tra domanda e risposta mi pare ideale. Speriamo che non sia un’eccezione.

Quello che mi convince di Beppe Grillo

A parte le frasi folkloristiche sui missili e sulla morte dei politici, due o tre di cose che ho ascoltato di Beppe Grillo nel suo comizio di Parma sono più che giuste, talmente scontate da sembrare banali.
Ad esempio nessuno ha pensato di mettere realmente mano alla semplificazione delle leggi, nonostante ci sia una sorta di ministero ad hoc. Grillo, da buon affabulatore, spiega che se una legge non si capisce, ha in sé un trucco. E ha ragione: basti pensare al groviglio di norme fiscali o ai capitoli di una finanziaria. Perché nessuno ha mai pensato di togliere le astrusità dai codici e scrivere in buon italiano?
Altro argomento sono i costi della politica. Tutta roba già detta, già sentita. Ma Grillo può vantare il successo dell’esperimento siciliano, in cui i suoi deputati hanno girato alla Regione la stragrande parte del loro compenso. Chi lo aveva mai fatto prima?
Infine i controlli fiscali con la presunzione di colpevolezza del contribuente. Vi ricordate quando ci dissero che “pagare le tasse è bello”? Ora ci vogliono convincere che non solo è meraviglioso dissanguarsi, ma è eccitante essere trattati da evasori sino a prova contraria. No, tuona Grillo (a ragione): non è lo Stato che deve chiedere al cittadino come spende i suoi soldi, ma esattamente il contrario.
Come vedete sono tutti temi elementari, che potrebbero stare alla base di ogni programma di ogni partito. Chi si sognerebbe di dire che le leggi devono essere scritte in modo incomprensibile o che è bene che i partiti costino milioni e milioni di euro?
Grillo ha dalla sua parte la linearità, anche violenta, dei ragionamenti: se rubi sei un criminale e non puoi stare al governo; se sei giovane, sei più forte di un vecchio; se un movimento a costo zero diventa una forza politica, vuol dire che la politica può essere fatta a costo zero.
Al momento, pur avendo in passato mosso critiche a Beppe Grillo, non ho sentito proposte più convincenti.

Insegnanti, leggete questo ai vostri alunni

Oggi l’Amaca di Michele Serra è di una semplicità e di un rigore disarmanti. E dovrebbe essere letta nelle scuole.