La crisi dell’Italia ha, secondo me, un riferimento preciso nell’abolizione per decreto del rapporto causa-effetto. Se un’azienda va male si cambia l’amministratore delegato, se un giornale va male si cambia il direttore, se un partito perde voti si cambia il segretario.
Invece no. Non accade così, dalle nostre parti, quasi esclusivamente ai livelli dirigenziali più alti. In altre parole, ci si accanisce con la base per ignorare colpevolmente i vertici.
C’è una sola spiegazione a questo fenomeno tutto italiano, e la si deve cercare/trovare nel sistema di garanzie trasversali che la nostra politica ha messo in atto per neutralizzare gli effetti immediati delle sue nefandezze: il capro espiatorio, nella versione italica, non ha durata limitata ma è addirittura riciclabile. Altrove un Minzolini che lascia precipitare nel baratro il telegiornale più seguito del Paese scomparirebbe dalla scena durante la pausa pubblicitaria. Invece – scommettiamo? – ce lo ritroveremo tra qualche tempo a capo di un’authority, su uno scaffale della nomenklatura della Rai o, chissà, in parlamento.
Nel resto del mondo i servi sciocchi sono la merce più sacrificabile, da noi vengono valorizzati dai fallimenti.
In un Paese di macerie, anche il fango diventa pilastro.
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Tutto pagato
Domanda del giorno, forse dell’anno.
Perché le sbrodolate contro legge di Berlusconi dobbiamo pagarle noi?
Perché lo sapete che le paghiamo noi…
Il potere degli schiavi
Presidente, lei ha appena compiuto una lunga trasferta nel continente americano, com’è andata?
Inizia così l’intervista a Silvio Berlusconi trasmessa ieri al Tg1 delle 20.
Vecchia regola giornalistica insegna che ci sono domande che non si possono porre ai politici, per deontologia, per dignità o, se volete, per assioma.
Sono le cosiddette domande da divano: “Com’è andata?”; Qual è il suo programma?”; “Cosa farete?”; e via inchinandosi.
Dare la possibilità a un altissimo esponente politico, rappresentante del popolo e lautamente retribuito dal popolo stesso, di rispondere su un argomento a piacere è per la stampa molto più di un’occasione perduta. E’ un grave indizio di colpevolezza, specie in un Paese che ha più ladri che guardie, e nel quale ogni passo del governo mira alla sistematica abolizione delle regole senza le quali quel governo crollerebbe sotto il peso di pesanti responsabilità penali e morali.
C’è in Italia una classe giornalistica cresciuta all’ombra di un vacuo risorgimento nel quale contano tutte le parti del corpo fuorché la faccia.
Nel mio minuscolo, conosco alcuni di questi signori che si inchinano al potente di turno, che hanno la memoria labile, che promettono mentendo e che mantengono senza aver promesso. Sono giornalisti di ogni livello: alto (in senso gerarchico), medio, infimo. Fanno parte di un parterre che applaude privo di intimo compiacimento, rinfrancato solo dai venti del momento. Mercenari che, drogati dal clima di incolumità istituzionale, ridacchiano con sufficienza quando capiscono che si parla di loro in toni non benevoli, e che invece dovrebbero temere più la loro biografia che la fedina penale.
Paradosso della storia: il marcio di quest’Italia non si sconfiggerà abbattendo il tiranno, ma estirpando uno per uno i suoi schiavi.
Il tg del dottor Moreau
Soda Caustica
di L’Avvelenata
Un elefante compie sessant’anni e qualcuno gli consegna una torta.
Una tigre bianca fa capolino tra quelle classiche, color arancione, mentre un inserviente scollacciato e villoso e un pagliaccio col nasone spiegano che è (addirittura?) un miracolo genetico.
Tra Salgari e Jules Verne. Le fiabe, si sa, accendono i sogni.
Ma qui ad accendere ero io. Con il telecomando. La tv. Rai Tre. Tgr Sicilia. Un’isola – ma non quella del dottor Moreau – dove elefanti e tigri non sono esattamente un’emergenza (e di emergenze vere, chi più ne ha, più si diletti ad aggiungerne). Eppure in un solo weekend vanno in onda sulla rete pubblica ben due servizi dedicati a scampoli di circhi fuori stagione, nell’ordine Orfei e Togni. Più che una fiaba, un paradosso.
Mi domando che succede. C’è forse, nella Rai nostrana, voglia di Studio Aperto, tutto tette-animali e lacrime? O una virata pseudo-pieroangelistica per venderci come frutto di esperimenti della famiglia Togni una tigre che esiste già in natura ed è semplicemente albina? O ci troviamo di fronte a un’improvvisa sterzata verso una “Vita in diretta” versione animalier, dove si celebra un Dumbo attempato, sì, ma che un record non è, dato che l’elefante vive in media 75 anni? O, ancora, è una compassionevole stretta di mano ai circhi, sempre più impopolari?
Va bene, digeriamo anche questa. Ma ora, per favore, torniamo alle cose serie.
Blogger e giornalisti
La sovrapposizione è quasi completa. Blogger e giornalisti hanno, nel campo dell’informazione, pari peso. E anzi l’anzianità di una testata spesso non dà sufficiente garanzia di qualità quanto l’indipendenza del testimone che racconta. In altre parole: ci sono casi in cui si tende a dar più fiducia a un piccolo blog, libero e responsabile, che a un giornale (o telegiornale) grande e condizionabile.
Il potere di una forma di comunicazione di massa forte e penetrante come quella della tv sembrava eterno fino a qualche anno fa. L’evento, qualsiasi e di qualsiasi entità, non esisteva se non veniva legittimato dalla televisione. Oggi ci sono altri equilibri e gli angoli bui del mondo – quelli giornalisticamente più stimolanti – sono illuminati dalle candele di non-giornalisti che attraverso le loro pagine web raccontano storie di cui altrimenti nessuno saprebbe nulla. Il caso più eclatante riguarda le cronache dell’Iran, ai giorni nostri.
Il monopolio dei giornali è stato demolito da una manciata di byte. Ed è una fortuna.
Faccio un esempio classico. Prima se un artista organizzava una presentazione delle sue opere (libri, dischi, dipinti, sculture, navi in bottiglia) doveva singhiozzare presso il quotidiano della sua città per ottenere tre righe di annuncio. E queste non sempre arrivavano e non sempre, se arrivavano, erano corrette. Adesso basta far circolare la notizia tra blog, social network e semplici e-mail per raggiungere lo stesso bacino di pubblico senza dover per forza andare a inginocchiarsi davanti a un giornalista panzuto che da dietro una scrivania ti guarda con l’aria di chi pensa che l’arte sia l’alibi dei perditempo.
E’ tutto più semplice. Ma fino a un certo punto. Perchè se la circolazione delle notizie si è moltiplicata, lo stesso fenomeno si è verificato con i giudizi. Insomma, se prima rischiavi una stroncatura su carta (che durava un giorno, il tempo di permanenza del quotidiano nelle mani dei lettori), adesso rischi cento stroncature telematiche (che sono perenni, legate al tuo nome, da qualsiasi motore di ricerca ci si arrivi).
Come nei giornali, anche nel web c’è molta improvvisazione, ne abbiamo parlato. Quindi non è scientificamente dimostrato che questo new deal di “informazione allargata” sia conveniente sotto il profilo della qualità. Però c’è un vantaggio certo: poca sabbia per nascondere.
I giornali hanno molto da imparare dagli scribacchini del web: per rapidità d’esecuzione, per ramificazione di fonti, per varietà di significati, per originalità. Devono solo ammettere uno stato di minorità, armarsi di una buona dose di umiltà e chiedere a un brufoloso blogger di Teheran: scusa, ci spieghi la strategia di Ahmadinejad?
Schiaccia la notizia
Di Minzolini abbiamo già parlato. Temo che il direttore del Tg1 diventerà un nostro affezionato cliente…