Va’ pensiero (unico)

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

In un’incredibile moltiplicazione di verità pacchiane in cui ognuno dice la sua infischiandosene delle leggi, della scienza e della mai troppo rimpianta realtà dei fatti, a fine mese si svolgerà a Palazzo dei Normanni un convegno di liberi pensatori il più moderato dei quali paragona il green pass ai tatuaggi dei lager. Quindi, ripetiamo, ci sarà un convegno nella sede dell’Ars di gente che identifica il periodo più drammatico della nostra storia recente – con morti, durissimi lockdown, crisi economiche e incertezze ancora all’orizzonte – con una deriva della dittatura (sanitaria, politica, economica e via cannoneggiando). Già basterebbe questo per indicare la grossolana indecenza di una discussione pubblica, in uno spazio che dovrebbe essere simbolicamente inaccostabile a simili iniziative, su un argomento così pericoloso sul fronte sociale e sanitario. Il green pass è uno strumento imperfetto e persino odioso, ma esiste perché esistono cittadini che confondono la libertà con l’egoismo, l’intelligenza con la violenza, il senso civico col senso del ridicolo. Coi vaccini bisogna andare avanti senza cedimenti. Un convegno che alimenti le indecisioni non è un convegno, è una follia. Quando uno degli organizzatori dichiara che l’obiettivo è stigmatizzare “il pensiero unico su questi temi” involontariamente, come capita a molte arche di scienza, dice una verità inconfutabile: sulle conquiste della medicina che ci tirano fuori dalla melma e che salvano vite c’è un pensiero unico. Ci deve essere, proprio per difendere la realtà dagli abbordaggi di negazionisti e convegnisti no-tutto.

Resta da capire che tipo di saluto istituzionale andrà a porgere l’assessore Lagalla a un consesso che delle istituzioni e delle loro regole se ne frega. 

100%

Venti mesi tra buio fitto e penombra. Venti mesi duri, durissimi. Oggi finalmente la luce. Quando ho saputo che da lunedì i teatri italiani potranno ritornare al 100 per cento della capienza, quei venti mesi mi sono passati davanti agli occhi come un film, e perdonate la scontatezza: in fondo c’è sempre qualcosa che ci scorre davanti come un film… Eppure davvero di film si trattava e non solo per trita metafora. Perché questo arco di tempo infinito – venti mesi di emergenza pandemica possono essere atroci come venti anni o due secoli – sono stati per me un film, un film vero, da rivedere, magari da correggere, comunque su cui riflettere, di cui inorgoglirsi, per il quale commuoversi.

Il film del Teatro Massimo di Palermo lo avete visto in tanti: sui vostri smartphone, sui computer, sulle smart tv, sulle reti televisive ufficiali. Per più di un anno questo film è stato l’unico mezzo di collegamento tra un teatro e il suo pubblico sparso per il mondo, recluso contronatura in ogni landa del pianeta, eppure unito nel godere quasi clandestinamente di un’arte che sembrava diventata un frutto proibito.

La natura che impone la dittatura del contronatura.

Non abbiamo mai chiuso neanche quando eravamo chiusi. Abbiamo sudato nelle nostre mascherine per togliere la maschera a una visione ipocrita della cultura che vorrebbe piegare l’arte alle piccole (!) contingenze dell’umano. Ci dicevano, dicevano e scrivevano: meglio fermare tutto e aspettare la fine dell’emergenza. Invece noi tiravamo dritto con la stessa follia con la quale, molto prima degli altri (perdonatemi uno sbuffo di immodestia), aprivamo una finestra nel web dalla quale godere dello spettacolo di cui allora godevano in pochi. Ci siamo detti: facciamo musica, creiamo, mettiamo su spettacoli anche a teatro chiuso. E lo abbiamo fatto subito.
Subito.
In piena pandemia.
In piena confusione istituzionale.
In pieno vuoto di potere culturale.
Abbiamo, ognuno per la sua parte (così mi rifaccio dell’immodestia di cui sopra), messo su una stagione esclusivamente per il web con opere pensate esclusivamente per il web.

Non potendo governare il futuro, di cui vi ho parlato da queste parti, lo abbiamo inseguito con l’illusione di poter affrontare almeno qualche curva insieme senza respirare la polvere di chi aspetta che siano gli altri a fare strada.  

E lo abbiamo fatto senza renderci conto che quei passi nel buio sarebbero stati determinanti nelle nostre vite professionali e non solo. Oggi se guardo indietro trovo i migliori spunti per ciò che farò domani. Un Teatro chiuso e buio trasformato in un grande set cinematografico per tutto questo tempo è la migliore metafora per il Teatro che da dopodomani tornerà a essere il vecchio caro Teatro Massimo con 1.200 e passa posti disponibili, il più grande d’Italia e il terzo in Europa.

Nasciamo tutti al buio, il resto è rivoluzione.

L’estinzione della società civile

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

L’abbiamo invocata a gran voce quando mancava un appiglio politico, benedetta quando tutto intorno era buio e paura, citata alla cieca quando serviva un’entità positiva di riferimento. Non l’abbiamo rimpianta quando è scomparsa perché la sua fine è stata talmente lenta da rendere invisibile il suo stesso dissolversi.
La società civile in Sicilia non c’è più e non ce ne rendiamo ancora conto.
Se n’è andata coi suoi lenzuoli candidi, con le sue mobilitazioni spontanee che non hanno mai conosciuto la droga dei social, col suo essere ago preciso di bilance usate da mani distratte.
Nessuno l’ha uccisa, nessuno l’ha rapita. Si è estinta a causa di quel cataclisma sociale che ci ha portato a essere tutti (forzatamente) presenti pur non essendoci: partecipanti in contumacia, movimentisti da polpastrello. Anche l’humus sul quale era nata e cresciuta è cambiato. L’urgenza drammatica dell’aggressione mafiosa ha lasciato spazio ad altre urgenze: dai rifiuti dietro la porta, all’odio dietro lo schermo. Le emergenze fanno il loro lavoro che è quello di sommare problemi a problemi senza sommergerli, e in tal modo ci ingannano: in fondo non cambia nulla a eccezione del nostro modo di reagire.
In questa delocalizzazione dell’attenzione il corteo resta civile e la società resta a casa. Perché essa non è titillata dalla globalizzazione, anzi nasce nell’hyperlocal e si mobilita per la sua salvaguardia.
La mafia non è mai finita, ma non è più tra i trend topic. Anzi non lo è mai stata diciamo per mission aziendale.
Come in ogni estinzione che si rispetti la specie scomparsa farà sentire la sua assenza dopo molto tempo. Per capire com’è andata col dinosauro della società civile, bisognerà scavare. Ma prima bisognerà trovare il coraggio di farlo.

La sindrome della soddisfazione istantanea

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Ci sono due storie, fresche fresche, per spiegare l’evoluzione del concetto di rapporto di socialità che noi spesso, sbagliando, intendiamo limitato al recinto dei social network. La comunicazione con l’altro, intesa come scambio di informazioni ed emozioni, risente giorno dopo giorno degli effetti aberranti di una sindrome che chiameremo della “soddisfazione istantanea”. Insomma è normale sentirsi apprezzati, non lo è aver necessità di esserlo ogni secondo, tramite lo scrolling di una timeline. La prima storia è quella dello spacciatore dello Zen 2 che esulta su TikTok per essere finito ai domiciliari anziché in galera e, preso dalla nota sindrome, si dimentica che anche le forze dell’ordine possono essere tra i suoi spettatori. Finisce che tra tanti like ci scappano le manette. Ecco l’aberrazione: lo scollamento del rapporto causa-effetto è più forte dell’istinto di autoconservazione. Lui sa di fare una cosa che lo danneggerà, non osa per coraggio (su TikTok abbonda tutt’al più l’incoscienza) ma per un godimento rarefatto, un cuoricino di byte, una macchiolina di pixel. L’altra storia è quella del cantante neo-melodico, categoria usata nelle nostre lande spesso (non sempre) per dare un ruolo pseudo-artistico a personaggi borderline, che presta la sua arte a invettive contro i pentiti di mafia e a elogi alla malavita. Qui però l’istinto di autoconservazione resiste, seppur in penombra. Intervistato da Repubblica, il cantore delle gesta di tale “spara spara” (rapinatore) nega di conoscere la mafia perché nato nel 1995: tutti sanno infatti che la mafia era estinta proprio in quegli anni, tipo dinosauri. E soprattutto assicura che potrebbe scrivere una canzone per Falcone e Borsellino, gli manca solo l’ispirazione.
L’arte ha i suoi tempi. Bui.       

Giovani vandali, vecchie questioni

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C’è qualcosa che andrebbe detto senza troppi giri di parole ai quattro ragazzini che hanno imbrattato le colonne del Teatro Massimo di Palermo e che sono stati identificati dai carabinieri. Innanzitutto che la loro bravata è molto stupida e che è giusto che paghino per l’errore commesso. Tutti siamo stati giovani e tutti conosciamo l’ebrezza dell’imprudenza. Ma non c’è sbaglio senza rimedio, almeno tentato, e crescere non significa solo allungare radici e mettere nuovi rami, bensì perdere le foglie e resistere al vento che spettina i pensieri. Ora il rischio per questi ragazzi è che si ecceda in colpevolismo o in senso opposto. Viviamo in un’epoca in cui ti mettono alla gogna per una foto con l’orologio sbagliato ma ti osannano se lo rubi in diretta Facebook. Serve una linea tracciata chiaramente tra reale e non. Qualcuno, ad esempio i loro genitori, potrebbe impegnarsi per spiegare (o far spiegar) loro che il fatto di trascorrere la maggior parte delle nostre vite davanti a uno schermo ci ha tolto la tridimensionalità delle cose: è quella che Hagi Kenaan definisce “estetica dell’appiattimento”. Il pennarello sulla colonna di marmo prezioso è frutto di un declassamento di pudore e prudenza a nuovi filtri di Instagram.   

Infine pare che i ragazzi in questione non sapessero nulla del Teatro Massimo e di ciò che rappresenta, in generale, un teatro in una comunità (qui c’è un compendio di quel che rappresenta per me,per chi ha tempo da perdere). Per questo c’è un rimedio antico: studiare, imparare. Rendersi conto che il palcoscenico dell’arte non è solo quello racchiuso nei luoghi dove quell’arte si espande, ma è ovunque ci sia curiosità. Ecco, una lezione potrebbe proprio avere a che fare con una verità che dimentichiamo spesso: a volte è solo uscendo di scena che si può capire quale ruolo si è svolto.

Te la do io la privacy

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La buona notizia è che l’esordio del green pass a Palermo è andato abbastanza liscio. A conferma che mostrare un QR code non è la fine del mondo se il sistema telematico che deve leggerlo funziona: e pare che la app del ministero almeno stavolta non si sia impallata. La cattiva notizia è che in alcuni c’è ancora una resistenza simil-ideologica a mostrare il documento di identità che è indispensabile per incrociare i dati sulla persona. È un fenomeno ben radicato nelle misteriose lande di alcuni difensori della privacy, alfieri della tutela dei dati personali che la mattina nascondono la carta di identità come se ci fosse la rivelazione di un quarto segreto di Fatima, e la sera postano sui social la foto che li ritrae nudi sul divano del salotto buono.

In un mondo in cui la verità e la falsità palese sono del tutto ininfluenti in termini, ad esempio, di successo politico, la tentazione è quella di tirare il freno a mano del treno della storia. Il green pass in una terra come quella di Sicilia che non ha mai primeggiato per rispetto delle regole è l’occasione per dimostrare di aver imparato la più dura delle lezioni sociali che questa pandemia ci ha imposto: e cioè l’ineluttabile importanza della limitazione di alcune libertà personali e di nuovi modelli di controllo. Il fatto che sempre più persone rifiutano i fatti perché essi minacciano l’identità che si sono costruite intorno alla loro visione del mondo, non deve distrarci dall’unico vero esempio di democrazia che il rispetto delle regole – anche al ristorante, al bar o in palestra – ci propone: tutto sarebbe perduto senza la partecipazione della gente comune. Ecco perché il green pass è un lasciapassare per la civiltà in un’Isola che necessariamente deve essere migliore.

Se la mafia querela per diffamazione

Lui non lo sa, ma con quella filippica grugnita in un palermitano strascicato in cui ammonisce una sua amica dal mandare la figlioletta alla manifestazione per Falcone e Borsellino, sta facendo un pessimo servizio alla sua consorteria criminale. Il mafioso Maurizio Di Fede ribatte a una madre che si giustifica “ma in fondo è solo una cosa scolastica”: “Noi non ci immischiamo coi carabinieri, non ci immischiamo con Falcone e Borsellino”. Persino la donna appare incredula alla grossolana intransigenza del mafioso e ci ride su. Non ci ridono sui quegli stessi carabinieri coi quale Di Fede non si vuole immischiare: che infatti lo arrestano senza batter ciglio e consegnano l’audio delle sue esternazioni al pubblico giudizio. Soprattutto quello dei mafiosi, che sanno bene purtroppo come la sommersione, il basso profilo possa essere utile alla lunga. Quante volte l’antimafia è stata usata dalla mafia per travestirsi, per infiltrarsi? Molte, troppe.
Fabrizio Miccoli a parte, le offese a Falcone fanno parte di un copione trito che tende a rendere macchiette, a inscrivere una strategia criminale in un momento storico senza tempo, come se dalla strage di Ciaculli alla mafia cibernetica fosse un attimo. Ecco perché il sedicente capo che sfoggia il suo potere su una donna che manda ordinariamente la figlia alle attività della scuola è un errore blu nell’ortografia sbilenca di Cosa Nostra. Perché abbassa la soglia del ridicolo, attira la risata nascosta di chi gli sta vicino, rende visibile il disagio mentale di uno che crede ancora che vietare un corteo a una ragazzina sia un buon modo di seminare sani principi criminali. Senza nasconderci – e diciamolo – che molti bambini non sanno un tubo di Falcone e Borsellino: illuminante un’intervista di ieri al Tg3 Regione in cui alla domanda “sai chi era Falcone”, un bambino ha risposto: “Uno famoso…”.
Insomma alla fine forse ci dobbiamo arrendere che, a parte i crimini di cui è accusato, questo Di Fede è pure un diffamatore di Cosa Nostra.
Fossi Messina Denaro lo querelerei.     

Il destino degli uomini-sedia

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Diciamoci la verità, il blitz contro gli assenteisti del Comune ci sorprende poco, dato che da sempre ville e palazzi comunali a Palermo sono popolati da queste creature-sedia spaparanzate al fresco di un albero o nel comodo di un atrio: proliferano solitamente a gruppi, ma anche i solitari fanno la loro figura. Per carità, ci sono alcuni loro colleghi che lavorano ma si tratta perlopiù di eccezioni che servono a mantenere in vita una regola. La cronaca ci dice che per molti di questi signori far finta di combinare qualcosa diventa tedioso: non lavorare stanca. E allora tutti al supermercato, o a casa, o a fare jogging dopo aver timbrato il cartellino. È così che saltano i numeri, che pianificare diventa impossibile, che la macchina si inceppa. Tanto più che quella che ha portato ieri a ventotto misure cautelari è un’inchiesta dell’estate del 2018. Tre anni fa. Tre anni in cui una giustizia lenta (è un’indagine blindata con telecamere nascoste e fatti ben documentati dalla Guardia di Finanza) ha involontariamente spalmato nel tempo gli effetti deleteri di condotte indecenti. Non è ozioso pensare che tempi più brevi nella chiusura del cerchio avrebbero potuto giovare non solo alla comunità, ma agli stessi colleghi onesti di quelli beccati con le mani nel sacco (o nel badge altrui). Infine una curiosità. Tra il personale coinvolto nell’operazione ci sono molti operai della Reset, la società che si occupa di manutenzione e cura del verde. La stessa società che qualche giorno fa ha costretto il Comune a impedire i matrimoni nel pomeriggio a Villa Trabia (e sposarsi lì di giorno significa infilarsi in una fornace) dato che il personale non basta per tirare fuori le sedie necessarie alla cerimonia: una nemesi per le creature-sedia.

Delitto di assistenzialismo

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Il caso dei lavoratori che non si trovano in Sicilia in quest’estate di agognata ripartenza è da manuale. E ci spiega, se mai ne avvertissimo il bisogno, il fallimento di antiche politiche assistenzialiste e di recenti provvedimenti come il reddito di cittadinanza. Accade che albergatori, ristoratori e manager siano alla disperata ricerca di qualcuno che accetti di lavorare per la stagione estiva. Ma molti disoccupati scelgono di restare tali perché, facendo i calcoli, ritengono più conveniente continuare a campare coi soldi che lo Stato gli elargisce per restare spaparanzati sul divano e integrare con qualche lavoretto in nero. Un caso da manuale, dicevamo, che certifica il fallimento di un provvedimento come il reddito di cittadinanza che era nato come “misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà”, e si è rivelato invece un freno per quel treno che avrebbe dovuto portare migliaia di disoccupati fuori dalle gallerie dell’incertezza. Ora che la frittata è fatta, e nell’attesa che si rivedano i meccanismi del sostegno economico separando in modo netto gli strumenti di lotta alla povertà rispetto ai sostegni al reddito in mancanza di occupazione, qualche bruciacchiatura resta anche nelle mani di alcuni di quegli imprenditori che oggi protestano e che ieri magari erano i primi a incentivare il lavoro in nero. La Sicilia e la sua economia hanno affondato le radici in questa furbizia di rimbalzo, dove la “messa in regola” è ancora vista come la kriptonite da generazioni di disoccupati che vogliono restare tali. E non è ottenere il massimo col minimo sforzo. No, è semplice scelta (in)culturale. È inchino a quell’assistenzialismo che ha finto di allevare il Sud Italia e invece lo ha affamato. Di sapere, di specializzazione, di dignità.

Palermo è in difficoltà

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Il vecchio gioco non regge più. Il refrain della “città bella nonostante tutto” che attrae turisti e consola i più ottimisti tra i palermitani è solo l’eco lontana di una giustificazione che piaceva, ci piaceva. Palermo “bella nonostante tutto” era bella sin quando quel “nonostante tutto” non è diventato invadente, grottesco. Oggi la città soffre talmente da non opporre quasi più resistenza: e sappiamo bene che dalle nostre parti la rassegnazione è, nel migliore dei casi, una pericolosa forma di difesa, quella che più facilmente cede alle scorciatoie del qualunquismo, alle tentazioni del rimpianto nei confronti di chi non merita rimpianto. Al di là del traffico, dell’immondizia, delle bare senza sepoltura, la vera crisi di Palermo è nella visione di chi la amministra. Una visione novecentesca che procede (quando procede) per compartimenti stagni. Invece no, la città del futuro, come una grande azienda o come un consesso di teste pensanti, deve superare questa logica di guerra tra uffici, di barricate in consiglio comunale che rimandano più a un film dei Monty Phyton che a un dibattito politico o a un suo surrogato. La distanza della politica rispetto alle persone può essere accorciata soltanto se, ad esempio, la politica la smette di usare delibere (che sono atti importanti per la vita di una comunità) come strumento di guerra e capisce che la paralisi amministrativa non è più, come un tempo, uno stratagemma per gestire potere, ma un’offesa alla cittadinanza. Insomma una nuova visione, realistica e lungimirante, deve tener conto dei tempi che non sono più quelli del “nonostante tutto”. Niente più ardite scommesse, servono scelte consapevoli. Niente più politica dei piccoli passi, servono falcate.