C’è chi dice no

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Nell’aprile del 1991, quattro mesi prima di essere ammazzato da Cosa Nostra, Libero Grassi spiegò meglio di tanti Soloni dell’Antimafia che la lotta alla criminalità partiva dalle competizioni elettorali. “Ciò che davvero conta è la qualità del consenso, la formazione del consenso”, disse. “A una cattiva raccolta di voti corrisponde una cattiva democrazia”. Ne avevo parlato già qui.

L’universalità di quel concetto, solida come la moralità di chi lo espresse, e non è mai stata messa in dubbio dallo scorrere del tempo, dal cambiamento degli scenari politici, sociali, criminali. L’ultimo allarme sulle estorsioni a Palermo e in Sicilia proprio in coincidenza con le elezioni prossime venture è un’occasione utile per riannodare il filo di un ragionamento che ormai sembra interessare solo i sopravvissuti della cosiddetta società civile e gli addetti ai lavori (ivi compresi i mafiosi). Il commerciante che si rivolge al boss non perché ha subito una minaccia, ma perché vuole farsi aiutare a sbrigare una “pratica” è il paradigma di un sistema storto. Un sistema in cui la mafia è sempre ceto dominante e in quanto tale dispone di soldi, di mezzi, di inserimenti nell’amministrazione. E di voti. La politica, che il consenso lo coltiva per poi nutrirsene, ha in ogni tornata elettorale la preziosa occasione di scardinare questo sistema. Non servono sindaci sceriffi, ne convegnisti compulsivi. Servono buoni esempi di ordinaria amministrazione, servono squadre blindate sui programmi, serve soprattutto una nuova cultura di muri. Proprio così, muri: contro il qualunquismo, contro il negazionismo, contro le scorciatoie sociali.
Un consenso di qualità è fatto anche di no.    

L’estinzione della società civile

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

L’abbiamo invocata a gran voce quando mancava un appiglio politico, benedetta quando tutto intorno era buio e paura, citata alla cieca quando serviva un’entità positiva di riferimento. Non l’abbiamo rimpianta quando è scomparsa perché la sua fine è stata talmente lenta da rendere invisibile il suo stesso dissolversi.
La società civile in Sicilia non c’è più e non ce ne rendiamo ancora conto.
Se n’è andata coi suoi lenzuoli candidi, con le sue mobilitazioni spontanee che non hanno mai conosciuto la droga dei social, col suo essere ago preciso di bilance usate da mani distratte.
Nessuno l’ha uccisa, nessuno l’ha rapita. Si è estinta a causa di quel cataclisma sociale che ci ha portato a essere tutti (forzatamente) presenti pur non essendoci: partecipanti in contumacia, movimentisti da polpastrello. Anche l’humus sul quale era nata e cresciuta è cambiato. L’urgenza drammatica dell’aggressione mafiosa ha lasciato spazio ad altre urgenze: dai rifiuti dietro la porta, all’odio dietro lo schermo. Le emergenze fanno il loro lavoro che è quello di sommare problemi a problemi senza sommergerli, e in tal modo ci ingannano: in fondo non cambia nulla a eccezione del nostro modo di reagire.
In questa delocalizzazione dell’attenzione il corteo resta civile e la società resta a casa. Perché essa non è titillata dalla globalizzazione, anzi nasce nell’hyperlocal e si mobilita per la sua salvaguardia.
La mafia non è mai finita, ma non è più tra i trend topic. Anzi non lo è mai stata diciamo per mission aziendale.
Come in ogni estinzione che si rispetti la specie scomparsa farà sentire la sua assenza dopo molto tempo. Per capire com’è andata col dinosauro della società civile, bisognerà scavare. Ma prima bisognerà trovare il coraggio di farlo.