Uno degli episodi più curiosi che mi piace ricordare quando parlo di ghostwriting e scrittura creativa è legato a una letterina d’amore. Ne parlavo proprio oggi con un mio caro amico poiché la vicenda riguarda suo figlio. Qualche anno fa il ragazzo aveva comprato un regalo alla sua fidanzata e voleva accoppiarlo a un foglietto che spiegasse le ragioni intime alla base di quella scelta. Solo che lui (sbagliando) non si reputava idoneo a mettere nero su bianco quel che aveva dentro: capita soprattutto agli animi sensibili, che si sentono nudi davanti alla forza del sentimento. In realtà il ragazzo aveva le idee chiarissime su ciò che voleva scrivere, solo che temeva di perdere qualcosa nel passaggio dal cuore alla carta o di non trovare le parole cruciali.
Con un pretesto passò da casa mia e mi sottopose la segretissima questione (ancora oggi sto bene attento a preservare la sua identità, come etica di ghostwriter impone). Io trovai la cosa bellissima per due motivi. Il primo: detesto ricevere regali senza una parola scritta di accompagnamento quindi trovare in un giovane quest’affinità di pensiero mi piacque molto. Secondo: il fatto che un millennial si desse tormento per una cosa così analogica come una lettera d’amore contribuì a dare una mazzata alla mia abominevole diffidenza dei confronti delle nuove generazioni (oggi sono molto più ottimista).
Finì con lui che spiegava cosa voleva dire e io che scrivevo le sue stesse parole, genuine, fresche e cariche dell’inebriante illusione di vivere qualcosa di definitivo. Insomma fui solo una sorta di dattilografo perché spesso scrivere per conto terzi significa fornire l’alibi decisivo: felicità è illudersi di aver saputo chiedere aiuto e non sapere mai che non ce ne era alcun bisogno.
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Ego
Prima scrivevano: giornalista. Poi: giornalista e scrittore. Poi: ghost-writer. Poi: blogger. Poi: giornalista e blogger.
Chi fa il mio mestiere, anche se un po’ indefinito (sono un po’ di tutto, e non ben amalgamato), ha il terrore di rispondere alla domanda: che lavoro fai?
Perché, quando si tratta di questioni personali, è complicato conciliare l’egocentrismo di chi campa scrivendo con l’attendibilità: si rischia sempre di sbagliare, per difetto o per eccesso.
Mi sono chiesto quale sarebbe la definizione di me che più mi piacerebbe. E l’ho trovata: raccontatore di storie (vere o presunte). Però non avrei mai il coraggio di comunicarla all’impiegato dell’anagrafe, anche perché non sta in nessun elenco.
Quindi va bene: giornalista. Oppure: giornalista e scrittore. Blogger e ghost-writer, no: niente parole straniere sulla carta d’identità.
P.S.
Sulla questione delle parole straniere ricordatemi di raccontarvi una cosa…