C’è questa foto, finita ieri su tutti i giornali, che è la storia semplificata di un finale ignoto. È cioè la storia stessa prima ancora della sua conclusione. Non c’è bisogno di commentarla, né di fantasticare sulla quota di dolore e di disillusione che ci sta dietro.
Questa foto però mi dà lo spunto per ricordare che molti anni fa, diciamo decenni, anch’io feci una cosa del genere dopo che una mia fidanzata mi aveva lasciato per un biforcuto di due metri (che poi tradì per il figlio bonsai di un imprenditore affetto da gigantiasi economica: era una dallo spiccato senso pratico…). Buttai tutto, foto, lettere d’amore, fiori secchi con cui mi aveva infestato la stanza, persino un disco di Steve Wonder che mi piaceva un sacco ma che recava, impresso come un tatuaggio del male, una sua firma sgangherata, tipo con le stelline e i cuori. Sbagliai, eccezion fatta per i fiori pestilenziali (certo anche le stelline…). Perché credo che chiunque abbia condiviso con noi anche una minima parte del cammino, abbia diritto alla sua sopravvivenza in effige. Certo, non sul comodino né in salotto, ma magari nel buio di una cantina o nella tranquillità di un album sullo scaffale più alto dello sgabuzzino.
Quelle foto non ci servono più fisicamente perché non vanno guardate con nostalgia, anzi non vanno guardate e basta, né devono essere usate per rinnovare disprezzo, tipo rito voodoo. Ma devono continuare a esistere indipendentemente da noi poiché testimoniano, senza la necessità di essere consultate, che la felicità è un sentimento con grande potenza retroattiva. Ci dicono che eravamo belli anche quando ci sentivamo brutti, che era divertentissimo annoiarsi magari con le compagnie sbagliate, che quei vestiti orribili ci facevano fighi, che siamo così, nel bene e nel male, perché c’è stato un momento in cui di cosa saremmo diventati non ce ne fregava un tubo.
Insomma il cassonetto non allontana l’infelicità, né restituisce la felicità perduta. È un modo per chiudere una storia senza saper trovare un finale adeguato.