La vicenda dell’assoluzione di Ignazio Marino per la cosiddetta inchiesta degli scontrini mi ha fatto venire in mente un tipico corto-circuito del nostro meccanismo relazionale. Quando scoppiò il caso dell’allora sindaco di Roma, il Movimento 5 Stelle organizzò un linciaggio mediatico che al confronto una crocifissione sarebbe passata per un buffetto. Oggi, col senno di poi, sappiamo che la giunta Raggi ha problemi ben peggiori di quelli che ispirarono gli slogan grotteschi di “onestah onestah” e che con un sorprendente garantismo i grillini danno fiducia al loro sindaco nonostante la sua palese inadeguatezza (riconosciuta dai media di mezzo mondo).
Ma questo era l’aggancio di cronaca e non voglio buttarla in politica.
Il focus è molto più universale. Ed è legato al rapporto tra dubbi e certezze (di cui ho parlato anche qui). In parole povere, quando organizziamo un tribunale, anche casalingo, per processare qualcuno dobbiamo tenere a mente che il destino gioca sempre con carte truccate. Fottendosene del calcolo delle probabilità ci proporrà, più prima che poi, un contrappasso dalla crudeltà medioevale. Così, per il semplice gusto di divertirsi alle nostre spalle. O chissà, per ricordarci che la cenere dalla quale veniamo ci sta poco a diventare fango, bastano due gocce sfuggite al nostro ombrello: e in nessun mondo, neanche in quello illuminato dalla fede più cieca, esiste ombrello grande come il cielo.
Se si è tentati di condannare qualcuno perché evidentemente colpevole, prima di emanare la sentenza è bene riflettere su due parole: evidentemente e colpevole. La seconda è quella che abbaglia, la prima è quella che trama. L’evidenza infatti nasconde la trappola, che è quella di non saper calibrare la pena. Quante volte ci è capitato di giudicare a caldo in modo tranciante?
A me molto spesso, ma col tempo e con una buona cura del mio sistema operativo biologico ho cercato di correre ai ripari. Però oggi ricordo con rammarico le volte in cui sono stato oggetto di tale giudizio. Una persona, giustamente, vi condanna per un errore ma poi sbaglia tragicamente nel non saper calibrare la pena. Cosicché dopo avervi crocifisso in sala mensa, ignudo e umiliato, finirà per ritrovarsi vittima della crudeltà del destino quando commetterà un errore ben più grave di quello che aveva giudicato con drammatica intransigenza (la pagliuzza nell’occhio altrui e altre menate…) e si perderà nel buio di una ragione con la quale mai potrà riconciliarsi se non mediante un harakiri della sua fallace presunzione.
Ci sono due modi per salvarsi la vita quando c’è da esprimere un giudizio severo e legittimo. Il primo è quello complesso: calibrare, prendere fiato, pensare che può succedere a molti persino a noi, guardarsi dentro e poi, molto poi, deliberare. L’altro, più semplice, è giudicare a cazzo e scegliere di vivere di fotogrammi che non raccontano una storia: che siano scontrini o lettere d’amore sarà il destino a deciderlo. Con le sue carte truccate.