Il mago dei soldi (in un podcast)

Nell’estate del 1990 a Palermo non c’è solo la febbre dei Mondiali di calcio allo stadio della Favorita con i gol dell’eroe di casa, Totò Schillaci. In quell’estate c’è un miracolo, il miracolo dell’affare della vita, quello che potrebbe cambiare tutto in un batter d’occhio. Gira voce che c’è un tale, un ragioniere dalle mani d’oro che moltiplica i soldi. Tipo che gli dai un milione, lui nel giro di poche settimane te ne da due. E non fa niente se quel ragioniere si fa chiamare avvocato anche se avvocato non è. L’importante è che il miracolo si compia.
Lui è Giovanni Sucato da Villabate. Ha 26 anni e si è inventato un futuro in un modo tanto miracoloso quanto improvvido. Raccoglie soldi e come ricevuta scrive due righe su pezzi di carta: sono e saranno sempre queste il suo unico documento ufficiale, la sua unica garanzia. Due righe e una firma. E il bello è che lui dopo paga davvero.
È così che diventa il mago dei soldi.

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Rosso, sangue o vergogna?

C’è un problema che affrontiamo ogni giorno senza sapere di affrontare quel problema ogni giorno. E cioè: tutti abbiamo i cazzi nostri e tutti li abbiamo più o meno ogni giorno, solo che ci sono problemi che si esauriscono in quel giorno, problemi che si ripercuotono in più giorni, e problemi che rischiano di far venire giù le piastrelle di una stanza della nostra epoca. Uno dei più sottovalutati, e al contempo dei più perniciosi, è quello legato al codice comune. Che non è lingua né sistema criptato, ma sistema basilare di discussione, mattone per edificare un muro o sfondare una vetrina (sempre mattone è), unità di misura o arma da duello.

Ci sono due casi di cronaca da prendere come spunto. L’intervista di Elly Schlein  su Vogue, che tutti citano e molto meno di tutti leggono, e il passaggio di Caterina Chinnici dal Pd a Forza Italia, che è facile da citare e inutile da leggere.
Il codice comune serve a decrittare in modo univoco un fatto, pur lasciando integre le sfumature che fanno la differenza nella sensazione di quel fatto.  La sensazione è fondamentale nel nostro sistema di discernimento giacché toglie alla matematica il governo di ogni opinione.

Su Schlein gran parte della stampa italiana si è esercitata prendendo un brandello (diciamo il più insignificante) della sua intervista, quello sulla armocromia, e ignorando tutto il resto. Resto che è tanto, eh: da Obama alla Meloni, dalle famiglie arcobaleno ai movimenti ecologisti, dall’accoglienza per gli immigrati alle tasse per le multinazionali, dalle serie tv alla musica, dallo sciovinismo ai Radiohead, dalla pandemia all’outing, da Greta Thunberg al Festival di Locarno. Roba che Salvini manco in una vita…
Insomma leggetevela, questa benedetta intervista (vi ridò il link che magari vi siete distratti).

Su Chinnici al contrario si è teso a espandere un concetto piccolo piccolo: l’occasione di vetrina pubblica di una esponente politica atavicamente stitica di argomenti, una che in fondo ha sempre perso senza mai combattere realmente, un’onestissima professionista onestissimamente sopravvalutata. La sopravvalutazione è un peccato che non coinvolge il soggetto, quindi Chinnici è in tal senso incolpevole: voleva fare la solista, suona l’organetto in playback alla decima fila.

Il codice.

Se si fosse usato lo stesso codice per Schlein e Chinnici non ci sarebbe stato scandalo in un caso (Schlein) e meraviglia nell’altro (Chinnici). Perché il codice ci dà il conforto dell’uniformità col contesto: il cambiamento non è un petardo nella stanza da letto né una bestemmia in chiesa, ma capire perché un petardo è esploso nella stanza da letto e come si è arrivati a una bestemmia in chiesa. So che non è un concetto facile, ma so anche che voi siete più avanti di me in tal senso.  


Quando nel 1998 la Nasa lanciò la sonda Mars Climate Orbiter per studiare la superficie di Marte nessuno poteva immaginare che, dopo quasi dieci mesi di viaggio nello spazio e mentre stava per entrare nell’orbita di Marte, quella costosissima ferraglia sarebbe esplosa.

Perché accadde questo incidente che – tanto per ricordarlo – costò 328 milioni di dollari di allora? Perché, si scoprì in seguito che – come si legge su Internazionale – il team che si occupava delle operazioni di navigazione del Jet Propulsion Laboratory aveva usato nei suoi calcoli il sistema metrico decimale, mentre la Lockheed Martin Astronautics, che aveva progettato e costruito la sonda, aveva fornito i suoi dati usando il sistema dei pollici, dei piedi e delle libbre.
Si erano scontrati due codici, capite?
E nessuno se ne accorse sino all’esplosione.

Oggi, abusando delle metafore che altri tempi ci elargiscono, sappiamo che usare gli stessi sistemi di misura, adottare linguaggi uniformi, o se preferite non cambiare le regole del gioco a partita in corso, è il migliore degli investimenti.
E fare il contrario – cioè fare come si continua a fare – è  l’unico gioco in cui nessuno vince e tutti perdono.
Se tutti perdono i casi sono due: o il gioco è inutile, o inutili lo diventiamo tutti noi.

La vecchiaia e la teoria della frittata

Ha fatto scalpore la foto di Bill Clinton e Tony Blair che si sono incontrati la settimana scorsa per commemorare un trattato contro le violenze tra indipendentisti e unionisti nordirlandesi. Il motivo non è nella sostanza, cioè nella storia che sta dietro quell’accordo o nella biografia dei personaggi o ancora nei retroscena di quell’incontro o di altri del genere, ma nella forma più esteriore che ci possa essere: le loro facce, le loro facce in quella foto.
In molti, nella ribollita insipida dei social e non solo, si sono chiesti se quei volti fossero stati invecchiati artificialmente da un filtro o se addirittura l’immagine fosse frutto di un’intelligenza artificiale. Come se invecchiare fosse una controindicazione o il complicato risultato di un filtro ottico.
Da qui lo stupore dinanzi alla cruda realtà: no, quei due oggi sono realmente così.
Buuu!

Eppure il segno degli anni è antico come il loro inizio. Siamo nati con la promessa che saremmo finiti, finiti lentamente. E in questo percorso era tacito che ci saremmo rotti i coglioni – a chi fa piacere svegliarsi ogni giorno con una ruga e un acciacco in più? – ma non che ci saremmo meravigliati.
Il vero cambiamento si è verificato negli ultimi dieci anni, forse anche meno (la pandemia ci ha dato un colpetto niente male). Con lo sbocciare dei social network e con la conseguente impollinazione di filtri e illusioni tangibili, l’invecchiamento è diventato la goccia di saliva che sfugge in un’amabile discussione dinanzi a una tavola imbandita: qualcosa di cui vergognarsi e per la quale chiedere scusa.
Perché è impossibile che il tempo passi infischiandosene delle timelines, è inaccettabile che il/la  follower che ti tampina su Instagram non ti riconosca se ti becca in ascensore, è disdicevole non porgersi fisicamente come l’altro si aspetta che tu ti porga. È vitale stupire a senso unico, cioè contro la fisiologia, la biologia e altre scienze superate da FaceApp.
Chiarisco. Non sono tra gli estimatori della sciatteria, pur non avendo certo la puzza sotto il naso: insomma sono sempre uno che per almeno un mese all’anno vive tra sentieri e monti con uno zaino in spalla… Per dirla in modo più esplicito non sono un cultore di feticismi abbrutenti (peli, odori, segni di abbandono rimediabili, eccetera). Una persona curata mi attira infinitamente di più di una persona trasandata (con le ovvie eccezioni di modo e luogo). Ho una mia idea di come una donna di una certa età (mi piacciono le donne, ma voi traslate il concetto nel genere che meglio vi aggrada) possa essere sempre attraente senza dover ricorrere ad acrobazie o giochi di prestigio: la buona creanza e l’autostima sono i migliori copri-rughe al mondo. Né, d’altro canto, mi faccio incantare da quelli che esaltano le macerie del proprio corpo, orgogliosi dei canyon sulle guance e raggianti per un avambraccio cadente. No, la vecchiaia fa cagare tutti quelli che ci incappano e chi non è d’accordo è un bugiardo, nel migliore dei casi.

Il risultato è contro ogni pronostico dei nostri account, contro ogni conquista scientifica, contro ogni indagine sociologica. Nonostante l’aspettativa di vita sia cresciuta fantascientificamente (in Italia la media è intorno agli 84 anni, ed è ancora più alta per le donne), l’autostima per l’involucro di quella stessa vita è andato a farsi fottere. Perché ogni volta che usiamo un filtro per i nostri selfie dovremmo tenere conto della legge della frittata.
La nostra vita è come una frittata: per farla bene bisogna romperle, le uova. Altrimenti è solo una schifezza buona solo per gli onanisti del virtuale che, com’è noto, non invecchiano perché sono già morti prima ancora di godersela.        

Cammino, un pretesto di felicità/2

La seconda parte del podcast sul Cammino (del Nord) come pretesto per una storia di emozioni in salita e fantasie in discesa. O viceversa, se preferite.

La prima parte del podcast la trovate qui.

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Cammino, un pretesto di felicità/1

Non è una frase a effetto, ma per scrivere questo podcast ci ho messo anni. Anni di passi (molti dei quali falsi), di fatica (e quella fisica è la meno importante), di stupore (il vero motore di ogni felice intuizione). Il pretesto è il Cammino del Nord, 830 chilometri con uno zaino in spalla e nient’altro, ma la realtà sono molti altri cammini ed esplorazioni fatte nel tempo e nei tempi.
Questa non è una guida, ma un racconto, una storia di emozioni in salita e fantasie in discesa, una (a volte pericolosa) concatenazione di pensieri: pensieri che ci prendono quando ci rendiamo conto che non c’è limite di età per imparare davvero a sbagliare da soli. Soprattutto per afferrare finalmente la consapevolezza che non è mai troppo tardi per mollare tutto ed essere felici.

Il podcast è diviso in due parti. Questa è la prima. La seconda la trovate qui.

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Cortocircuito

Ogni tanto, leggendo libri e giornali, mi capita di imbattermi in cortocircuiti logici. È una sensazione piacevole giacché mi dà due certezze: la prima è quella che c’è sempre qualcosa da imparare anche quando non si studia; la seconda è che sono ancora vivo, che con certi chiari di luna non è cosa da poco.

Qualche tempo fa mi chiedevo perché minuscole minoranze come i tassisti o come gli operatori balneari hanno così potere in Italia (poi se lo sono chiesti pure qui con riflessioni assolutamente aderenti alle mie). Immagino che alcuni di voi si siano fatta la stessa domanda: com’è possibile che un gruppo sparuto di cittadini possa mettere sotto scacco un governo? Le risposte ovviamente sono diverse, a seconda della categoria coinvolta. È chiaro che, ad esempio, dieci magistrati che protestano contano molto di più di dieci fruttivendoli incazzati. Ed è altrettanto chiaro che il potere di ricatto di un gruppo con addentellati in politica ha un peso diverso rispetto a un manipolo di lavoratori indipendenti e senza santi in paradiso.

C’è una teoria messa nero su bianco nei primi anni Sessanta dall’economista statunitense Mancur Lloyd Olson che spiega in modo uniforme questo fenomeno. In soldoni Olson dice questo: più piccolo è un gruppo di interesse, maggiore è la probabilità che questo gruppo raggiunga i suoi obiettivi.
Nel suo libro “La logica dell’azione collettiva”, Olson nota ad esempio che mentre i gruppi più grandi avranno costi organizzativi relativamente elevati, i costi dei gruppi più piccoli saranno bassi. “Inoltre, il guadagno pro-capite derivante da un’azione collettiva di successo è relativamente minore nei gruppi più grandi, rispetto a quelli più piccoli. Per tutti questi motivi, l’incentivo all’azione di gruppo decresce con l’aumento delle dimensioni del gruppo: i gruppi più grandi sono meno capaci di agire nel proprio interesse comune rispetto a quelli più piccoli”.

E sin qui tutto bene.

Poi mi sono imbattuto nell’ ”effetto Massie”, cioè in quello strano fenomeno per cui le persone che sostengono una causa giusta spesso sono convinte di essere una minoranza. È un’espressione coniata dal saggista statunitense Seth Godin dal nome di Miranda Massie, che si è occupata del fenomeno e che ha fondato il “Climate museum”, il primo museo negli Stati Uniti dedicato ai cambiamenti climatici. Il direttore di “Internazionale” Giovanni De Mauro l’ha citata a proposito di  uno studio dell’università di Princeton, pubblicato dalla rivista “Nature Communications”, secondo il quale “le persone tendono a sottostimare quanto gli altri siano favorevoli alle politiche per il clima. Quasi l’80 per cento degli statunitensi pensa sia necessario intervenire per combattere la crisi climatica e al tempo stesso pensa che solo il 37 per cento di tutti gli statunitensi sia d’accordo su questo”.

Ecco il cortocircuito. Da un lato il potere inconsapevole di una minoranza, dall’altro la debolezza immaginaria di una maggioranza. Tra maggioranze che si credono minoranze e viceversa il succo che ne ho tratto è che l’unica maniera per rompere gli specchi deformanti della realtà sociale e politica è informarsi, esercitare curiosità, parlare, succhiare la sapienza altrui.
Più scuola, più libri, più internet (che non è il demonio), più arte, più dibattito, più scontro di idee. Sembrano slogan, invece sono un’ancora di salvezza. L’unica.

Ci diga ci diga

Poco meno di quarant’anni fa uno sfasciacarrozze aveva comprato i resti del DC9 precipitato in mare a pochi metri dall’aeroporto di Palermo, che allora si chiamava Aeroporto Punta Raisi. Nella televisione privata in cui lavoravo (TGS) si decise di mandare un cronista a intervistare il titolare dell’impresa di autodemolizione per capire che attrattiva potesse esercitare quel relitto.
Il cronista in questione era alle prime armi e – va detto – i suoi margini di miglioramento erano molto risicati (ovviamente finì professionista e per giunta di lungo corso).
Microfono in mano, partì con una sfilza di domande.

“Ci diga ci diga… chi è interessato all’aereo?”
E l’altro: “Mah, professionisti, curiosi…”.
“Ci diga ci diga, cosa comprano?”
“Mah, pezzi di strumentazione soprattutto…”
“Ci diga ci diga, pensa di guadagnarci?”
E qui un sospetto in noi, in sala di montaggio, si concretizzava.
“Mah, certo l’ho comprato per questo”
L’intervista evolveva pericolosamente verso il peggiore degli esiti. Che noi quasi stringendoci dietro i monitor ci dicevamo: “non glielo chiede, non glielo chiede, tranquilli non glielo può chiedere…”.
E invece glielo chiese.
“Ci diga ci diga, pensate di comprate altri?”
Risposta: “Mah, se cadono…”.

La storia, verissima, serve a ricordarci che c’è un enorme errore collettivo nel quale annegano responsabilità e visioni strategiche. E cioè che la crisi dei giornali sia frutto di una modernissima ignoranza, di un rigurgito di qualunquismo che viene su dalla gola dei social.
Non è così.
Se i giornali chiudono, se i lettori sono sempre più orgogliosamente ignoranti, la colpa è principalmente di chi doveva gestire i contenuti, di chi doveva dirigere il traffico di un barlume di sapienza, di chi non ha capito che per incatenare due parole hanno più muscoli due neuroni che due polpastrelli.
I giornali muoiono perché i giornalisti sono scarsi o perché si arrendono a quelli più scarsi di loro (che è peggio).
Fine della discussione.

Tra giudizio e godimento

Se dovessi stilare una classifica dell’imbarazzo, oggi ora subito, metterei al primo posto quella del giudicare. Che detta così sembra una prudenza di facciata, una dichiarazione ecumenica. Invece no, è una sensazione molto attuale, abbastanza imbarazzante e poco condivisa.

Probabilmente si tratta di una conseguenza del periodo di scioccante incertezza nel quale ci troviamo, figlio di un periodo in cui l’incertezza era addirittura tragica. O magari è un semplice rigurgito prudenziale: la prudenza, se si accumulasse, sarebbe la mia risorsa segreta dato che poco o mai l’ho usata. O ancora mi trovo dinanzi a un fisiologico reflusso di disillusione: si cresce a strappi, e negli strappi si perde sempre qualcosa che ha a che fare con la fiducia.
Fatto sta che soffro sempre più quando sono costretto ad arrivare a conclusioni che non siano spontanee, quindi a comando: (anche) per questo scrivo meno sui giornali e più qui.
Il vero rimedio a questo imbarazzo lo trovo rifugiandomi nelle opere dell’ingegno altrui, nelle opere d’arte a qualsiasi livello (dobbiamo smetterla con questa menata dell’arte di serie A e di serie B).
Un’opera d’arte, che sia teatro o musica, cinema o pittura, può lasciarci sospesi in uno spazio di contemplazione di una realtà sociale senza costringerci ad arrivare a una conclusione. A differenza di un’ordinaria chiamata all’azione ci può consentire di goderci tutto il tempo che vogliamo prima del “quindi” finale. Probabilmente tutto ciò è conseguenza della polarizzazione dei nostri rapporti, polarizzazione incrementata dagli algoritmi e dalle politiche estremiste egemoni in questo momento storico. E mentre scrivo queste righe mi rendo conto che il mio imbarazzo in fondo ha figliato negli anni opere che pur aggrappandosi alla cronaca se ne sono discostate nel giudizio, consegnando lo spettatore a quella che più volte ho descritto come la verità del dubbio.

Insomma l’arte può rappresentare una landa di pensiero, magari strano e indeterminato, in cui per una volta le antiteticità si placano. In cui per una volta gli ultras di chi ha torto e di chi ha ragione si mescolano senza doversi costringere al gioco umiliante della resa dei conti.
Mettiamola così: godere per capire e viceversa.     

Il filo di lana

Questo ragionamento parte da un mezzo per arrivare a un contenuto.
Per molti anni, diciamo dagli anni Novanta, ogni mattina – ogni santa mattina – le prime due telefonate che ho ricevuto sono state quelle di due persone: mio padre e il mio amico Francesco.
Sempre.
Mio padre per via della sua ormai celebre invadenza affettiva si sincerava che fossi sopravvissuto a impegni/bagordi/fatiche della sera prima (ho vissuto prevalentemente di notte per un bel po’ di vita) e al contempo si portava avanti nella soddisfazione della sua atavica curiosità chiedendomi come buttava la giornata sul fronte della cronaca. Francesco cazzeggiava a 360 gradi su presente/passato/futuro di una vita che condivideva con me – per via del nostro lavoro – ancor più che con la sua famiglia: allora al giornale marciavamo per 12 ore al giorno.
In entrambi i casi c’era sempre una risata a fare da sfondo, anzi un sorriso. Il sorriso di essere comunque in una comfort zone, di aver un sentimento come scudo contro le rotture di coglioni del mondo.

Il mezzo era il telefono (il mio primo cellulare risale al 1992), il contenuto era qualcosa che ancora oggi mi viene difficile da spiegare. Perché non era solo affetto, non era solo attenzione, non era solo routine. Era un po’ di tutto questo, sì. Ma era anche quello che chiamo “effetto filo di lana”. Un filo di lana è leggero, è piacevole al tatto, anche se insignificante preso da solo. Ma se lo intrecci, se riesci a farlo transitare dallo stato matassa allo stato maglione diventa ben altro. Diventa calore, abbraccio, sicurezza ordinaria.
Il nostro problema – ammesso che statisticamente almeno un paio tra voi possano condividere questo ragionamento – è che non è impossibile trovare fili di lana, ma è molto difficile indossare nuovi maglioni che ci stiano bene.
Assodato (assodato davvero?) che per fare un bel maglione servono impegno, materiali di qualità, buona volontà, è evidente che siamo troppo frettolosi nel liquidare le cose di questo genere come effetti collaterali della nuova socialità liquida, mentre la narrazione è un’altra: il rapporto tra mezzo e contenuto è sopravvalutato.
È un alibi e basta.
E l’alibi non ci darà mai calore, abbraccio, sicurezza ordinaria.

Le fatiche di Salvini

Nelle ultime ventiquattro ore il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini ha twittato sulla morte della moglie di Lino Banfi (“una preghiera”), sul sindaco leghista di Cinisello Balsamo che ha sgomberato un edificio occupato da un collettivo (“bene”), su Mario Giordano che replica a Fedez (“applausi”), sul collega Valditara che ha attaccato una preside per la sua lettera antifascista (“avanti tutta”), sulla Fornero – una sua ossessione – che vuole tassare i ricchi (“marziana o marxiana?” ), su una ragazzina iraniana picchiata perché non indossava correttamente il velo (“vergogna”), sulla sentenza per la tragedia di Rigopiano (“vergogna”).

Poi si è preso una pausa dal lavoro.