Ogni tanto, leggendo libri e giornali, mi capita di imbattermi in cortocircuiti logici. È una sensazione piacevole giacché mi dà due certezze: la prima è quella che c’è sempre qualcosa da imparare anche quando non si studia; la seconda è che sono ancora vivo, che con certi chiari di luna non è cosa da poco.
Qualche tempo fa mi chiedevo perché minuscole minoranze come i tassisti o come gli operatori balneari hanno così potere in Italia (poi se lo sono chiesti pure qui con riflessioni assolutamente aderenti alle mie). Immagino che alcuni di voi si siano fatta la stessa domanda: com’è possibile che un gruppo sparuto di cittadini possa mettere sotto scacco un governo? Le risposte ovviamente sono diverse, a seconda della categoria coinvolta. È chiaro che, ad esempio, dieci magistrati che protestano contano molto di più di dieci fruttivendoli incazzati. Ed è altrettanto chiaro che il potere di ricatto di un gruppo con addentellati in politica ha un peso diverso rispetto a un manipolo di lavoratori indipendenti e senza santi in paradiso.
C’è una teoria messa nero su bianco nei primi anni Sessanta dall’economista statunitense Mancur Lloyd Olson che spiega in modo uniforme questo fenomeno. In soldoni Olson dice questo: più piccolo è un gruppo di interesse, maggiore è la probabilità che questo gruppo raggiunga i suoi obiettivi.
Nel suo libro “La logica dell’azione collettiva”, Olson nota ad esempio che mentre i gruppi più grandi avranno costi organizzativi relativamente elevati, i costi dei gruppi più piccoli saranno bassi. “Inoltre, il guadagno pro-capite derivante da un’azione collettiva di successo è relativamente minore nei gruppi più grandi, rispetto a quelli più piccoli. Per tutti questi motivi, l’incentivo all’azione di gruppo decresce con l’aumento delle dimensioni del gruppo: i gruppi più grandi sono meno capaci di agire nel proprio interesse comune rispetto a quelli più piccoli”.
E sin qui tutto bene.
Poi mi sono imbattuto nell’ ”effetto Massie”, cioè in quello strano fenomeno per cui le persone che sostengono una causa giusta spesso sono convinte di essere una minoranza. È un’espressione coniata dal saggista statunitense Seth Godin dal nome di Miranda Massie, che si è occupata del fenomeno e che ha fondato il “Climate museum”, il primo museo negli Stati Uniti dedicato ai cambiamenti climatici. Il direttore di “Internazionale” Giovanni De Mauro l’ha citata a proposito di uno studio dell’università di Princeton, pubblicato dalla rivista “Nature Communications”, secondo il quale “le persone tendono a sottostimare quanto gli altri siano favorevoli alle politiche per il clima. Quasi l’80 per cento degli statunitensi pensa sia necessario intervenire per combattere la crisi climatica e al tempo stesso pensa che solo il 37 per cento di tutti gli statunitensi sia d’accordo su questo”.
Ecco il cortocircuito. Da un lato il potere inconsapevole di una minoranza, dall’altro la debolezza immaginaria di una maggioranza. Tra maggioranze che si credono minoranze e viceversa il succo che ne ho tratto è che l’unica maniera per rompere gli specchi deformanti della realtà sociale e politica è informarsi, esercitare curiosità, parlare, succhiare la sapienza altrui.
Più scuola, più libri, più internet (che non è il demonio), più arte, più dibattito, più scontro di idee. Sembrano slogan, invece sono un’ancora di salvezza. L’unica.