Il sigaro di Bill e la cenere di Sangiuliano

Quando la scorsa settimana l’ex ministro Gennaro Sangiuliano ha cercato di mettere una pezza al disastro combinato con la presunta consulente Maria Rosaria Boccia rilasciando una lunga (c’è chi dice troppo) intervista al Tg1, sono bastati un paio di post su Instagram per annientarlo politicamente e umiliarlo umanamente. Di fatto c’erano un ministro e la cosiddetta rete ammiraglia della televisione pubblica da un lato (senza tener conto del prime time e dell’intervistatore, il direttore del Tg1) e una privata cittadina col suo account di un social network dall’altro. È noto a tutti chi ha vinto il braccio di ferro, ma è noto non a tutti da dove proviene la forza dei nuovi media, il loro carico di rischio, gli equivoci che si ingenerano quando li si invoca come simbolo di libertà.

È una storia che parte da lontano, infatti questo articolo fa parte della categoria long form, quindi mettetevi comodi e se possibile dedicatevi anche ai link (tanto è gratis).

La sera del 17 gennaio 1998 su un sito americano di news e gossip, il “Drudge Report” di Matt Drudge, viene pubblicata una soffiata: “Il ‘Newsweek’ ha bloccato una storia destinata a scuotere Washington dalle fondamenta: una stagista della Casa Bianca ha avuto una relazione sessuale con il presidente degli Stati Uniti!”. Il sito si riferisce a un articolo del giornalista Michael Isikoff, non pubblicato in attesa di ulteriori verifiche. Ma il web in quel momento è davvero un’altra cosa e se ne frega di ogni controllo (molto più di oggi). È l’inizio del famoso scandalo Clinton-Lewinsky. Qualcuno tra i commentatori del tempo storce il muso e saluta la nuova era con diffidenza: così si abbassano gli standard del giornalismo, è l’accusa (piuttosto fondata). Eppure i giornali, assorbito il colpo, si fiondano sulla notizia che entra nelle case di tutti i lettori del mondo non più solo attraverso la porta principale dei media tradizionali (quotidiani, radio e tv), ma anche da quella dei computer con connessioni traballanti, modem a carbone e immagini sgranate. La vera svolta, fondamentale per la nostra storia, arriva qualche mese dopo, l’11 settembre del 1998 quando il Congresso americano pubblica per la prima volta sul web il report redatto dal grande accusatore di Bill Clinton, il procuratore Kenneth Starr. Ricordo quella sera al Giornale di Sicilia, davanti al mio computer con una connessione quasi clandestina. Era – va detto –  il giornale in cui il caporedattore centrale proprio in quei giorni aveva pronunciato una frase ormai famosa: “Propongo di non scrivere la parola internet sui giornali perché è una cosa che tra qualche mese finisce”. Quella sera tutti si riunirono attorno alla mia postazione per ammirare la magia di una notizia – e che notizia – che arrivava nientemeno che dal web, cioè da un non luogo di perditempo e segaioli (così eravamo considerati noi testardi che ci ostinavamo a vedere in internet una risorsa inaudita). E lì accaddero due prodigi.
Il primo fu la materializzazione del report in tempo reale sul monitor, proprio qualche secondo dopo il suo rilascio.
Il secondo, ancora più incredibile, fu quando attivai la funzione “cerca” nel documento e digitai le due parole chiave che tutto il mondo in quel momento sussurava: “cigar” cioè sigaro e “blowjob” cioè pompino (se lo fate anche voi ora, vi rendete conto del perché). La storia si svelò subito, senza inutili perdite di tempo nel vagare tra pagine e pagine, nei suoi aspetti più grottescamente piccanti e politicamente detonanti.

Il caso Clinton Lewinsky – e non lo scandalo di Berlusconi con le sue “cene eleganti” – è il riferimento ideale per cercare di capire il rapporto tra cronaca e nuovi media. E di conseguenza tra cronaca e social network.
Il problema dei problemi è oggi quello legato alla libertà di espressione che è una questione di valutazioni, di norme sociali e di equilibri legali. “La libertà di espressione non è un diritto assoluto – scrive Alan Rusbridger, ex direttore del Guardian – se non nella mente di libertari come Elon Musk. Perfino lui dev’essere consapevole del fatto che è meglio non urlare “Al fuoco!” dentro un cinema. Eppure, durante le violenze seguite ai fatti di Southport, quando ad agosto in tutto il Regno Unito sono scoppiate proteste contro l’immigrazione organizzate da gruppi di estrema destra, non ha fatto altro che gettare benzina sul fuoco con le sue dichiarazioni. Musk è convinto che la libertà d’espressione coincida con la verità, come se conoscesse il Saggio sulla libertà del 1859 di John Stuart Mill, in cui il filosofo scriveva: ‘Le opinioni e le pratiche erronee cedono gradualmente ai fatti e agli argomenti’.”

Ecco il punto: il più grande errore che, rispetto ai social, si possa commettere è confondere la libertà di parola con la verità rivelata. Come se tutto ciò che si dice, e si scrive, fosse lo specchio del vero.
Le statistiche ci dicono che in Italia, ogni cento persone il 2,22 per cento fa o aspira a fare l’influencer. Un utente medio di X ha settecento follower. Elon Musk ne ha 196 milioni, quindi la sua voce è 280mila volte più potente. “L’imprenditore però – continua Rusbridger –  ha insistito perché la sua piattaforma fosse riprogettata per amplificare le sue opinioni. Ora esercita un dominio intergalattico sul dibattito pubblico. Nel momento in cui twitta informazioni false mentre delle bande si aggirano per le strade cercando di dare fuoco agli alberghi che ospitano i richiedenti asilo, si comporta come Donald Trump quando ha alimentato l’insurrezione del 6 gennaio 2021”.  
È chiara – anche senza Musk – la pericolosità della presunta “parola libera” non solo a seconda di chi la pronuncia, ma anche a seconda dell’ambito in cui si propaga.

E siamo di nuovo al caso Sangiuliano-Boccia. Di cui Michele Serra, nella newsletter del Post Ok Boomer, ha stigmatizzato “la sua decrepitezza, la sua scontatezza. Miliardesimo remake di un film vecchio almeno tre o quattromila anni. Il maschio di potere che usa il suo ruolo per sedurre (o illudersi di sedurre) la dama ambiziosa che lo corrisponde per farsi strada in società. Non stiamo parlando di Luigi XV e della du Barry, non stiamo parlando di Versailles ma della provincia campana e della sua piccola borghesia, tutto è in scala minima, le grandi cortigiane erano colte e ingegnose, usavano l’eros come chiave per schiudere le porte del Palazzo ma una volta dentro sapevano essere artefici, o tra gli artefici, della politica e della cultura. Se du Barry avesse avuto un account Instagram, sarebbe stato in tre lingue, raffinatissimo, e fotoscioppato (ante litteram) dai più prestigiosi truccatori, parrucchieri, sarti, decoratori e tappezzieri di Francia”.
Qui, al di là del distacco morale giustamente ostentato da Serra, va sottolineata la forza di impatto dei social sui media tradizionali. Non conta l’attendibilità della notizia, quanto la sua istantaneità, la falsa unicità del rapporto autore-utente. Boccia scrive in diretta su Instagram, di notte, a ciascuno di noi. Non è filtrata da una telecamera, non è introdotta da un mezzobusto, non deve convincerci. Digita ergo c’è, sul pezzo, con la sua verità che non viene messa in dubbio per un semplice motivo: non interessa. Importa solo che lei ci sia, reale eppure impalpabile, che dia il suo contributo alla Grande Illusione che ci fa credere di essere tutti Davide contro Golia, uno smartphone come una spada, un’ideuzza come un proclama.

Ecco, nella scomparsa dei fatti, lungo le finte praterie dei social galoppano bufale senza padrone: conta l’effetto non l’attendibilità. È un fenomeno di cui abbiamo parlato più volte, qui e altrove, in cui l’antica credulità popolare si è fatta mainstream, in cui l’odio non è più solo un sentimento ma un condimento con cui insaporire il piatto scialbo di una realtà che cambia a nostro piacimento. E che se fosse soltanto virtuale almeno si potrebbe spegnere con un clic.

L’immagine di questo post è generata con intelligenza artificiale.

La vecchiaia e la teoria della frittata

Ha fatto scalpore la foto di Bill Clinton e Tony Blair che si sono incontrati la settimana scorsa per commemorare un trattato contro le violenze tra indipendentisti e unionisti nordirlandesi. Il motivo non è nella sostanza, cioè nella storia che sta dietro quell’accordo o nella biografia dei personaggi o ancora nei retroscena di quell’incontro o di altri del genere, ma nella forma più esteriore che ci possa essere: le loro facce, le loro facce in quella foto.
In molti, nella ribollita insipida dei social e non solo, si sono chiesti se quei volti fossero stati invecchiati artificialmente da un filtro o se addirittura l’immagine fosse frutto di un’intelligenza artificiale. Come se invecchiare fosse una controindicazione o il complicato risultato di un filtro ottico.
Da qui lo stupore dinanzi alla cruda realtà: no, quei due oggi sono realmente così.
Buuu!

Eppure il segno degli anni è antico come il loro inizio. Siamo nati con la promessa che saremmo finiti, finiti lentamente. E in questo percorso era tacito che ci saremmo rotti i coglioni – a chi fa piacere svegliarsi ogni giorno con una ruga e un acciacco in più? – ma non che ci saremmo meravigliati.
Il vero cambiamento si è verificato negli ultimi dieci anni, forse anche meno (la pandemia ci ha dato un colpetto niente male). Con lo sbocciare dei social network e con la conseguente impollinazione di filtri e illusioni tangibili, l’invecchiamento è diventato la goccia di saliva che sfugge in un’amabile discussione dinanzi a una tavola imbandita: qualcosa di cui vergognarsi e per la quale chiedere scusa.
Perché è impossibile che il tempo passi infischiandosene delle timelines, è inaccettabile che il/la  follower che ti tampina su Instagram non ti riconosca se ti becca in ascensore, è disdicevole non porgersi fisicamente come l’altro si aspetta che tu ti porga. È vitale stupire a senso unico, cioè contro la fisiologia, la biologia e altre scienze superate da FaceApp.
Chiarisco. Non sono tra gli estimatori della sciatteria, pur non avendo certo la puzza sotto il naso: insomma sono sempre uno che per almeno un mese all’anno vive tra sentieri e monti con uno zaino in spalla… Per dirla in modo più esplicito non sono un cultore di feticismi abbrutenti (peli, odori, segni di abbandono rimediabili, eccetera). Una persona curata mi attira infinitamente di più di una persona trasandata (con le ovvie eccezioni di modo e luogo). Ho una mia idea di come una donna di una certa età (mi piacciono le donne, ma voi traslate il concetto nel genere che meglio vi aggrada) possa essere sempre attraente senza dover ricorrere ad acrobazie o giochi di prestigio: la buona creanza e l’autostima sono i migliori copri-rughe al mondo. Né, d’altro canto, mi faccio incantare da quelli che esaltano le macerie del proprio corpo, orgogliosi dei canyon sulle guance e raggianti per un avambraccio cadente. No, la vecchiaia fa cagare tutti quelli che ci incappano e chi non è d’accordo è un bugiardo, nel migliore dei casi.

Il risultato è contro ogni pronostico dei nostri account, contro ogni conquista scientifica, contro ogni indagine sociologica. Nonostante l’aspettativa di vita sia cresciuta fantascientificamente (in Italia la media è intorno agli 84 anni, ed è ancora più alta per le donne), l’autostima per l’involucro di quella stessa vita è andato a farsi fottere. Perché ogni volta che usiamo un filtro per i nostri selfie dovremmo tenere conto della legge della frittata.
La nostra vita è come una frittata: per farla bene bisogna romperle, le uova. Altrimenti è solo una schifezza buona solo per gli onanisti del virtuale che, com’è noto, non invecchiano perché sono già morti prima ancora di godersela.