Il filo di lana

Questo ragionamento parte da un mezzo per arrivare a un contenuto.
Per molti anni, diciamo dagli anni Novanta, ogni mattina – ogni santa mattina – le prime due telefonate che ho ricevuto sono state quelle di due persone: mio padre e il mio amico Francesco.
Sempre.
Mio padre per via della sua ormai celebre invadenza affettiva si sincerava che fossi sopravvissuto a impegni/bagordi/fatiche della sera prima (ho vissuto prevalentemente di notte per un bel po’ di vita) e al contempo si portava avanti nella soddisfazione della sua atavica curiosità chiedendomi come buttava la giornata sul fronte della cronaca. Francesco cazzeggiava a 360 gradi su presente/passato/futuro di una vita che condivideva con me – per via del nostro lavoro – ancor più che con la sua famiglia: allora al giornale marciavamo per 12 ore al giorno.
In entrambi i casi c’era sempre una risata a fare da sfondo, anzi un sorriso. Il sorriso di essere comunque in una comfort zone, di aver un sentimento come scudo contro le rotture di coglioni del mondo.

Il mezzo era il telefono (il mio primo cellulare risale al 1992), il contenuto era qualcosa che ancora oggi mi viene difficile da spiegare. Perché non era solo affetto, non era solo attenzione, non era solo routine. Era un po’ di tutto questo, sì. Ma era anche quello che chiamo “effetto filo di lana”. Un filo di lana è leggero, è piacevole al tatto, anche se insignificante preso da solo. Ma se lo intrecci, se riesci a farlo transitare dallo stato matassa allo stato maglione diventa ben altro. Diventa calore, abbraccio, sicurezza ordinaria.
Il nostro problema – ammesso che statisticamente almeno un paio tra voi possano condividere questo ragionamento – è che non è impossibile trovare fili di lana, ma è molto difficile indossare nuovi maglioni che ci stiano bene.
Assodato (assodato davvero?) che per fare un bel maglione servono impegno, materiali di qualità, buona volontà, è evidente che siamo troppo frettolosi nel liquidare le cose di questo genere come effetti collaterali della nuova socialità liquida, mentre la narrazione è un’altra: il rapporto tra mezzo e contenuto è sopravvalutato.
È un alibi e basta.
E l’alibi non ci darà mai calore, abbraccio, sicurezza ordinaria.

L’invadenza affettiva

Ci sono argomenti che possono avere agganci di cronaca, ma anche no. Che stazionano in un limbo di occasioni: sono urgenti o no? Ma che di certo ci riguardano perché le cose cambiano ed è meglio non farsi trovare impreparati.
Uno di questi è rappresentato dalla cruciale domanda: come aiutare qualcuno in difficoltà (laddove per “qualcuno” s’intende una persona cara, un parente, un vero amico, eccetera)?
Conosco due scuole di pensiero: la prima, che è la mia, consiste nel proporsi in maniera discreta, senza forzare, con la piena coscienza che rispettare la persona nei guai significhi rispettare il suo atto di altruismo nel non voler imporre agli altri il suo dolore; la seconda, che è quella di persone come mio padre (un attivissimo ottantenne) si basa su un concetto affascinante che identifico come invadenza affettiva. Ne abbiamo già parlato qui, ma vale la pena di spiegare.
Stare al proprio posto nell’attesa di aiutare qualcuno è probabilmente la scelta più saggia. E più comoda, diciamolo. I problemi altrui, passata la prima botta, diventano una rottura di scatole anche nei casi più drammatici. È il segreto motore del mondo: non si vive di commemorazioni ma di scavalcamenti. Si passa sopra tutto, soprattutto quanto tutto sono i fatti degli altri. Tutto si supera, se in corsia di sorpasso ci siamo noi e non gli altri.
La strategia dell’invadenza affettiva è invece più difficile. Prevede un pressing costante e motivato (altrimenti non sarebbe affettiva…), indifferente ai dati di cronaca. C’è un primato di presenza rispetto all’impalpabile pensiero (“non ti chiamo/non vengo perché non voglio disturbare) che segna la vittoria dell’esserci sul pensare di volerci essere. L’invadenza affettiva è una sorta di rimedio della nonna contro tutte le malattie, un placebo al quale magari è bello cedere una volta tanto, illudendosi che le soluzioni migliori non stiano dentro di noi, dentro quel magma indefinibile di cervello e cuore, ma altrove. Altrove dove?
Nella cura che gli altri manifestano nei nostri confronti, nella fiducia che accordiamo loro, nel meraviglioso meccanismo arcaico del sollievo fisico di una carezza che può essere gesto o parola, ma che comunque è affetto. Invadente ma vero.