Il buio e il pericolo del Raggismo

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C’è un pericolo all’orizzonte. Ed è un pericolo reale perché mina le fondamenta della nostra ultima felicità, che ritenevamo inscalfibile.
Il pericolo dell’assalto al bello.
Guardate quello che sta accadendo a Roma, dove il Raggismo – che non è il Grillismo, ma un’insopportabile pozione a base di incultura, presunzione e cattivo gusto – sta producendo brutto assoluto con l’alibi del risparmio. L’esempio lampante è l’albero di Natale di piazza Venezia a Roma, un obbrobrio che c’entra con la sobrietà come i cavoli a merenda. L’esempio meno evidente, ma a mio parere altrettanto significativo, è il video della giunta notturna in stile Famiglia Addams dove tutti sono fintamente seri con un indecente sprezzo del ridicolo.
Attenzione. Il mio non è un giudizio politico su Virginia Raggi, per quello ci sarà tempo, ma è molto peggio: è un giudizio culturale che invoca contromisure serie e immediate.
L’assalto al bello da parte dei seguaci del Raggismo rischia di produrre un disastro, come una reazione a catena in cui sindaci e amministratori vari, fulminati dal buio di un’illuminazione nefasta, ritengono che la bellezza abbia un costo e che quindi può essere gestita con operazioni al ribasso. Non è così. E chi lo pensa è un pericoloso incompetente (nel migliore dei casi).

In cammino da dieci anni

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Oggi questo blog compie 10 anni. E già questo basterebbe per dire: miii! Nell’era dell’ultravelocità, della compressione temporale, dell’istantaneità di Snapchat, dell’invecchiamento subitaneo dei concetti, un blog che dura da 3.650 giorni, con 3.480 post pubblicati e 18.630 commenti, va in qualche modo celebrato (che sia il mio o quello di qualcun altro).
E allora partiamo con la parte più semplice, quella che compone la short version di questo pezzo.
Come siamo cambiati?
Politicamente siamo avanzati di pochi passi, quello che serve per poter tornare indietro senza fatica non appena se ne presenta l’occasione.
Tecnologicamente siamo extraterrestri rispetto a dieci anni fa, basti pensare alla rivoluzione degli smartphone che ha influenzato i nostri costumi.
Sul fronte del web lo tsunami dei social ha cambiato l’orografia dei luoghi digitali. Un esempio per tutti, tra quelli che mi riguardano direttamente in questa occasione: il trasferimento dei commenti dal blog a Facebook, cioè dal luogo primigenio dell’idea, a quello in cui l’idea è semplicemente messa in vetrina. Ci ho messo del tempo per adattarmi a questo circolo innaturale dell’opinione: io scrivo sul blog, posto il link sul social, la gente dal link del social va a leggere il blog, quindi torna indietro, e poi va di nuovo in avanti, al social, dove commenta qualcosa che lì non c’è, perché il testo originale è nel blog. In principio credevo di trovarmi di fronte a una sorta di schizofrenia, poi però ci ho fatto l’abitudine: del resto anche il cilicio col tempo diventa meno straziante.
C’è stato un momento, lo scorso anno, in cui ho avuto la tentazione di mollare. Gli impegni personali, l’invadenza dei social network, la mancanza di grandi stimoli di cronaca mi avevano fiaccato. Ma proprio mentre stavo per vergare la mia letterina di addio mi è capitato di rileggere alcune di queste pagine e di rivivere l’emozione di un tempo, quando scrivevo qui per missione, per vendetta, per esigenza vitale. All’improvviso mi sono imbattuto in un commento di una persona che poi, proprio grazie al blog, è diventata amica: mi faceva il complimento più bello.

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Ecco che cosa cerchiamo noi che viviamo di parole scritte. Cerchiamo altre parole scritte che ci sostengano, perché noi non siamo cemento, ma mattoni. E i mattoni da soli non servono a niente se non c’è qualcosa che li tenga su, impilati e solidi.
Questo penso al traguardo di questi dieci anni. E per questo vi ringrazio. Per essere stati cemento, tutti voi.

 Fine della short version.

 

Per chi ha ancora voglia e pazienza di leggere c’è poi il capitolo personale.

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A futura memoria (politica)

 

dimissioni renziAd averceli primi ministri che si dimettono così, con classe e stile moderno. A meno che non preferiate i fuggitivi o i poltronisti.

Dare del demente a chi non lo è (o chissà)

Gasparri Twitter Il problema non è Gasparri che mi dà del demente (stare agli antipodi intellettuali di uno come lui è un traguardo umano e professionale), ma Gasparri che si fa la ricerchina su Twitter per vedere cosa si dice di lui e delle sue gesta. Vale la pena di ricordare che questo signore è vicepresidente del Senato e che la sua concezione di politica sembra essere modellata sul sistema dialettico dei social: caricare, mirare, fuoco. Fuoco in tv quando sputazza sentenze nelle tribune politiche nelle quali tende a spadroneggiare come un boss di paese, fuoco sui social quando si inventa (lui o chi per lui) passati remoti che non esistono, fuoco di passione insana quando c’è da aggredire, mordere, divorare. Insomma l’uomo giusto per il ringhio giusto. Perfetto per la nuova coalizione virtuale venuta fuori dal referendum: ai nuovi barbari serviva proprio uno spalatore di melma di esperienza.

La verità prima di tutto

facceCi ho pensato su. Ero tentato di lasciar perdere, ma poi mi sono detto: perché buttare alle ortiche la mia (seppur modesta) esperienza di trent’anni e passa di professione? Quindi ho deciso: da oggi cercherò di difendere le notizie vere con ogni mezzo a mia disposizione, web, carta, radio. Ricorrerò al classico fact checking, vi chiederò di collaborare inviandomi le vostre segnalazioni via mail, e opererò sul campo dei social per identificare con nomi e cognomi i portatori di notizie false. Diciamo che è una sorta di campagna anti-contraffazione applicata alle notizie. Perché se uno vende una borsa Gucci falsa può essere denunciato e chi spaccia bufale per verità se la deve passare liscia? Anche perché, alla luce di quello che sta accadendo nel mondo (Brexit, Trump, situazione politica italiana) i danni delle scempiaggini propalate nel web sono maggiori di quelli causati da una cinta dal marchio falsificato.
Quindi non guarderò in faccia nessuno, non mi interessano le fazioni politiche: la verità è un caleidoscopio di informazioni ed è troppo preziosa perché qualcuno ci metta in mezzo una patacca. #laveritaprimaditutto

Esposizione gandhiana (anche se ti dicono troia)

boldrini offese

C’è un gran dibattito, neanche tanto colto e/o entusiasmante, sul post di Laura Boldrini che, nella giornata contro la violenza sulle donne, ha pubblicato un sunto delle offese che riceve quotidianamente sulla sua pagina Facebook. Il punto della riflessione collettiva, e parlare di riflessione quando si tratta di social significa essere irrimediabilmente ottimisti, è che la Boldrini ha pubblicato nomi e cognomi in barba a un presunto diritto alla privacy dei lestofanti che la bersagliano di schifezze. Chiamatela gogna, chiamatela vendetta, chiamatela giustizia: io sono d’accordo per la pubblicazione integrale dei nomi. Per cinque motivi.

  1. Se la Boldrini avesse cancellato i nomi, i soliti troll la avrebbero accusata di non dire le cose esattamente come stanno. Sì, proprio così.
  2. Fermare le violenze sui social è molto difficile. Una delle strategie di minor insuccesso è quella del braccio di ferro, che consiste nel far prevalere la propria forza di ragione con muscolarità.
  3. I profili Facebook a noi visibili sono pubblici e per giunta si tratta di persone che stanno scrivendo su una pagina pubblica.
  4. Nell’era dell’inciviltà globale dobbiamo finirla di toccarcela con la pinzetta. Se tu mi offendi o mi calunni o cerchi di danneggiarmi con messaggi falsi o violenti, io ti appendo in bacheca. Così tutti vedranno il tuo bel faccione e magari qualcuno che ti conosce imparerà a evitarti quando ti incontra per strada o ti darà semplicemente dello scemo.
  5. Bisogna sfatare questo pseudo-mito della violenza sulla privacy non tanto per quanto scritto nel punto 3, ma perché trattandosi di legittima difesa la pubblicazione dei nomi non è essa stessa violenza, ma reazione nonviolenta. Esposizione gandhiana.

Contro l’armata dei cretini

microfono

Da ieri il mio angolo di deliri su Radio Time ha un nome: il giustiziere. Ovviamente non c’è nessuna intenzione di vendicarsi o di vendicare. Solo l’umanissima aspirazione a raccontare senza timore, a discutere senza urlare, ad aggirare gli ostacoli della superficialità senza mai dare la parola agli imbecilli (è un mio preciso intendimento). Il mio maestro Salvo Licata mi insegnò a scudisciate (professionali, ma se avesse potuto anche fisiche) a combattere un solo nemico, pericolosissimo: l’armata dei cretini. Non faccio altro da trent’anni. E prometto di mettercela tutta affinché la battaglia non si fermi.
Se avete storie da narrare, idee da diffondere, o suggerimenti per evitare qualche brutta figura, battete un colpo.
Ah dimenticavo. Il programma va in onda in diretta dal lunedì al venerdì dalle 12 alle 13 con il sostegno di Massimo Pisciotta e Tancredi Bua. C’è persino una diramazione televisiva su Gold 78. Si va in replica dalle 21 alle 22 e dalle 5 alle 6 di mattina.
Praticamente per evitarmi mi dovete abbattere.

 

Quest’uomo

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Quest’uomo si chiama Vincenzo Agostino, molti lo conoscono per via di una storia che non sarà mai abbastanza conosciuta. A quest’uomo, il 5 agosto 1989, hanno ucciso sotto gli occhi il figlio Antonino e la nuora Ida Castelluccio: erano sposini e lei era incinta da cinque mesi. Antonino era un agente di polizia e, tra le altre cose, stava indagando sul fallito attentato a Giovanni Falcone, all’Addaura. Ma non è dei misteri che ruotano attorno alla morte del giovane poliziotto e di sua moglie che voglio parlare.
Io voglio dire di quest’uomo, di Vincenzo Agostino. Che ha sopportato la peggiore tortura alla quale un essere umano può essere sottoposto, il sopravvivere a un figlio. Che ha lottato dal basso contro silenzi e depistaggi altissimi. Che ha visto la sua barba allungarsi per una protesta che probabilmente non conoscerà mai fine: ma quando la verità è un miraggio cosa volete che sia tutto il resto?
E allora quest’uomo è uno dei pochi simboli che riconosco, poiché a me i simboli sanno in genere di espediente farlocco (specie negli ultimi tempi) per inventarsi una scorciatoia in ragionamenti complessi. Quest’uomo è il simbolo di un dolore eterno, di una sconfitta, soprattutto oggi, dopo che la Procura di Palermo si è arresa nella ricerca dei responsabili del duplice omicidio di suo figlio e sua nuora.
E però mentre siamo tutti confratelli di hashtag quando c’è da sposare una moda lacrimevole (una strage in giro si trova sempre), magari non sappiamo nulla della peggiore tortura che si è consumata dietro casa nostra. Del dramma prolungato di un padre, quello di vivere senza più un perché. Di un uomo. Quest’uomo.

Perché The Young Pope non mi è piaciuto

Jude law the young popeChi non ha ancora visto The Young Pope e ha intenzione di vederlo faccia attenzione, questo post contiene spoiler.
Chi lo ha già visto invece può concedersi una riflessione sul seguente tema: Paolo Sorrentino ha realizzato un capolavoro o no? Perché a leggere i commenti sul web e sui giornali, le due principali correnti di pensiero riguardo a questa serie tv sono: 1) noia mortale; 2) opera imperdibile.
Io provo a esplorare brevemente una terza via. The Young Pope è appassionante come appassionante può essere l’espressività di Jude Law: bravissimo, mister primo piano, ma algido e orgogliosamente divo.
Il primo episodio mi ha incuriosito, il secondo mi ha annoiato, dal terzo al sesto sono andato avanti sonnecchiando, il settimo mi è piaciuto molto, l’ottavo e il nono mi hanno riacceso la curiosità, e il decimo mi ha deluso mortalmente. Ecco, è proprio l’ultima puntata che, a mio parere, incrina tutto il progetto di Sorrentino. Un finale che sembra scritto frettolosamente con un discorso alle folle, finalmente a volto scoperto, che è l’equivalente di un temino delle medie, una presunta morte quasi del tutto ingiustificata e l’ascesa in cielo più didascalica da quando è stato inventato Google Earth. Insomma un’occasione perduta, tra sorrentinate (anche simpatiche), belle idee musicali, eccessi un po’ annunciati e dialoghi che riescono a essere talvolta intensi e talvolta incredibilmente banali. Voto: 6 meno.

La mia banda suona il rock. All’Ucciardone

Gery e la sua Fender StratocasterEntrai nel carcere dell’Ucciardone molti anni fa. Era il 1981. Avevo scritto una rock opera con la mia band. Faccio subito i nomi della formazione per una forma di giustizia musicale che va oltre la contabilità delle presenze (eravamo un gruppo a media variabilità di organico): io suonavo la chitarra e cantavo, al basso c’era Giovanni Caminita ma c’era stato anche Maurizio Orlando (che suonava anche la chitarra), alla batteria c’era Marcello Sacco ma c’era stato anche Fabio Aguglia, alle tastiere c’era Walter Catania ma c’era stato anche Giovanni.
Dunque avevo quest’opera rock – con una decina di anni di ritardo sui Who e sull’idea del concept album di The lamb lies down on Broadway dei Genesis – e insana voglia di suonare. Avevamo inciso un disco, un 45 giri di cui vi ho già parlato e sul quale per la serietà che i miei 53 anni mi impongono non vorrei ritornare. Nel bailamme della promozione di un prodotto che spacciavamo per musica d’importazione (cantavamo in inglese) ci capitò di essere chiamati da un’assistente sociale che faceva la volontaria al carcere palermitano: venite a suonare all’Ucciardone?
Accettammo alla cieca senza farci troppe domande, soprattutto senza farcene una: che minchia andiamo a promuovere in un carcere?
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