Il buio e il pericolo del Raggismo

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C’è un pericolo all’orizzonte. Ed è un pericolo reale perché mina le fondamenta della nostra ultima felicità, che ritenevamo inscalfibile.
Il pericolo dell’assalto al bello.
Guardate quello che sta accadendo a Roma, dove il Raggismo – che non è il Grillismo, ma un’insopportabile pozione a base di incultura, presunzione e cattivo gusto – sta producendo brutto assoluto con l’alibi del risparmio. L’esempio lampante è l’albero di Natale di piazza Venezia a Roma, un obbrobrio che c’entra con la sobrietà come i cavoli a merenda. L’esempio meno evidente, ma a mio parere altrettanto significativo, è il video della giunta notturna in stile Famiglia Addams dove tutti sono fintamente seri con un indecente sprezzo del ridicolo.
Attenzione. Il mio non è un giudizio politico su Virginia Raggi, per quello ci sarà tempo, ma è molto peggio: è un giudizio culturale che invoca contromisure serie e immediate.
L’assalto al bello da parte dei seguaci del Raggismo rischia di produrre un disastro, come una reazione a catena in cui sindaci e amministratori vari, fulminati dal buio di un’illuminazione nefasta, ritengono che la bellezza abbia un costo e che quindi può essere gestita con operazioni al ribasso. Non è così. E chi lo pensa è un pericoloso incompetente (nel migliore dei casi).

La vita da lassù è bellissima

coeIn Numero undici di Jonathan Coe c’è un bellissimo riferimento a uno dei miei sport preferiti, quand’ero piccolo. L’arrampicata sugli alberi. In ogni capitolo della mia infanzia, e poi dell’adolescenza, c’è sempre stato un albero su cui zompare, dal quale sognare, su cui inventarsi una casa (la casa sull’albero è un sogno poi diventato realtà molto dopo, esattamente sei anni fa), dal quale tirare pigne agli amici di sotto, sul quale nascondersi o fuggire.
Nel primo giardino dei miei ricordi c’era un pino molto facile da scalare. Il tronco si divideva quasi subito in una V ed era semplice mettersi a cavalcioni. Poi salendo il gioco si faceva duro. Il traguardo era quello di arrivare a mettere la testa fuori dalla chioma, obiettivo quasi impossibile da raggiungere dato che i rami, man mano che si andava su, diventavano sempre più sottili e fragili. Ma nella testa di un bambino non c’è la fisica, né la coscienza del pericolo. C’è solo la voglia di salire, di vincere: quasi una metafora della vita che ci (a)spetta. Io da lassù ho immaginato le mie passioni, su quei rami ho mangiato tonnellate di biscotti e letto libri (i Gialli per ragazzi, Jules Verne, Emilio Salgari, I ragazzi della via Pàl). Ho aspettato gli amici che non arrivavano perché preferivano giocare con altri e altrove, e me ne sono fatto una ragione. Perché avevo il mio albero. E il mio albero non mi tradiva mai, neanche quando mi macchiava di resina o mi graffiava le mani.
Una delle cose seccanti dell’età che avanza è che non si trovano più alberi da scalare. Su cui essere libero di fantasticare chi vorrai diventare in questa o in un’altra vita rischiando gioiosamente di romperti l’osso del collo.

Bastava telefonare a Biagio Conte

Ovunque è un fiorire di articoli e commenti sulla anziana signora, senzatetto e forse con qualche problema psichico, che ha spogliato l’albero Falcone. Ho letto toni di sollievo per il fatto che la mafia non c’entrava e toni enfatici per il fatto che, non entrandoci, la mafia non era riuscita a intaccare la traballante volontà della signora.
Alla fine, un monumento alla lotta alla mafia è stato oltraggiato senza che ci fosse qualcuno a sorvegliare.
Un monumento è di tutti, non servono guardie armate intorno. Se uno vede un altro che lo danneggia, chiama la polizia, interviene, grida, telefona.
Invece qui sono trascorsi giorni in cui l’apparato istituzionale si è messo in movimento per stigmatizzare, dichiarare, porre in essere.
Sarebbe stato sufficiente il fischio di uno dei vigili urbani a passeggio per via Notarbartolo (ce ne sono tanti, ogni giorno, che non fanno un tubo). Invece si è arrivati al presidente della Repubblica.
C’era sin dall’inizio il filmato della clochard: bastava dirlo subito. E magari telefonare a Biagio Conte.
Solo che così non si sarebbe potuta scatenare l’indignazione prêt-à-porter di cui molti hanno bisogno fisico, come di un tiro di cocaina.
Non è solo la mafia che ci procura danni, ma anche la disattenzione verso i nostri simboli. E, quel che è peggio, basta la prima psicolabile di passaggio a scatenare il finto panico.

L’albero dell’ospedale

villa sofia palermo

Giacomo e Raffaella hanno trovato questo singolare albero di natale all’ospedale Villa Sofia di Palermo. E’ addobbato con garze, guanti in lattice e pezzi di cotone idrofilo.

Doppio Natal

L’attimino fuggente

di Giacomo Cacciatore

Credo che esistano ancora due tipi di Natale italiano. Uno antropomorfo,  l’altro legato al meraviglioso mondo della flora. Nel primo caso si torna bambini: si gioca e si pasticcia col minuscolo, si ricreano universi in scala, mondi che vorremmo, profumo di mangiatoie, calore di fiamme nella notte di gelo. Nel secondo, si agisce sotto l’impulso di qualche antico culto totemico, forse ereditato da fantasmi con gli elmi cornuti e i piedi freddi, forse dagli indiani dei film di John Wayne. Insomma, sto parlando di chi, a Natale, perde la testa con il presepe e di chi invece si impelaga in studi di fisica ed estetica per arrangiare l’albero. Posso sbagliarmi ma, senza avventurarmi nelle solite classificazioni da sociologi d’accatto (il pandoro è di sinistra, il panettone di destra)  ho sempre avuto la sensazione che il presepio fosse cosa di vicolo, di case popolari, e l’albero appannaggio dei quartieri alti. Tralascio le novità del tipo “babbo natale che si arrampica sul balcone”: ho idea che li abbiano inventati per chi passa le feste agli arresti domiciliari.
Io un tempo ero “presepista”. Nel senso che appartenevo a quella categoria di bipedi che il giorno dopo l’otto di dicembre, ancora caldi di letto, in pigiama, con occhi bambini e gesti da vecchi, scivolano verso l’angolo del salotto o il ripiano del soggiorno per controllare il pasticcio di pastorelli, sugheri, laghetti di specchio circondati da muschio che hanno combinato la sera prima. Una mesta categoria di ossessivi e idealisti, nobilitata dal genio di Eduardo De Filippo. Il presepio, in quanto via di mezzo tra il bricolage e il rito apotropaico, a mio modo di vedere rispecchia – molto più dell’albero – non solo la classe sociale e la condizione economica di chi lo ha azzizzato, (per numero di pastori, qualità delle lampadine e imponenza delle montagne di sughero) ma anche il suo stato d’animo, il livello di serenità propria e di chi lo circonda, il grado di stabilità familiare.
Il mio presepio è sempre stato precario, sproporzionato, incurante della verosimiglianza prospettica: più simile a un’allucinazione espressionista che all’armonia oleografica della prima puntata del
Gesù di Zeffirelli.  Pastori zoppi, un bue formato brontosauro, un San Giuseppe minuscolo rispetto a una Madonna-matrona. Nei volti di plastica o di creta della mia natività si leggeva un velo di inquietudine. Sapevano di essere destinati, prima o poi, al tracollo. Quando i miei genitori litigavano – e spesso succedeva proprio a Natale –  il primo a subirne le conseguenze era il presepe. Una gomitata, uno sbattere di porta, un urlo più forte degli altri, e il paesaggio di Betlemme diventava uno scenario da dopobomba. Morti e feriti. Con pazienza, mi improvvisavo responsabile della protezione civile di magi, ciabattini e pecorai con l’agnello a tracolla finiti a gambe all’aria.
Ero presepista, sì, ed ero più triste di oggi. Ho sposato una donna che appartiene, per tradizione e condizione, alla categoria degli alberisti. E’ lei che mi ha introdotto nel magico, ordinato mondo dell’abete (ecologico).  Mi ha salvato la vita, credo. Ma la tentazione di mettere su un presepe che regga agli urti, mi resta.