Contro l’armata dei cretini

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Da ieri il mio angolo di deliri su Radio Time ha un nome: il giustiziere. Ovviamente non c’è nessuna intenzione di vendicarsi o di vendicare. Solo l’umanissima aspirazione a raccontare senza timore, a discutere senza urlare, ad aggirare gli ostacoli della superficialità senza mai dare la parola agli imbecilli (è un mio preciso intendimento). Il mio maestro Salvo Licata mi insegnò a scudisciate (professionali, ma se avesse potuto anche fisiche) a combattere un solo nemico, pericolosissimo: l’armata dei cretini. Non faccio altro da trent’anni. E prometto di mettercela tutta affinché la battaglia non si fermi.
Se avete storie da narrare, idee da diffondere, o suggerimenti per evitare qualche brutta figura, battete un colpo.
Ah dimenticavo. Il programma va in onda in diretta dal lunedì al venerdì dalle 12 alle 13 con il sostegno di Massimo Pisciotta e Tancredi Bua. C’è persino una diramazione televisiva su Gold 78. Si va in replica dalle 21 alle 22 e dalle 5 alle 6 di mattina.
Praticamente per evitarmi mi dovete abbattere.

 

Quest’uomo

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Quest’uomo si chiama Vincenzo Agostino, molti lo conoscono per via di una storia che non sarà mai abbastanza conosciuta. A quest’uomo, il 5 agosto 1989, hanno ucciso sotto gli occhi il figlio Antonino e la nuora Ida Castelluccio: erano sposini e lei era incinta da cinque mesi. Antonino era un agente di polizia e, tra le altre cose, stava indagando sul fallito attentato a Giovanni Falcone, all’Addaura. Ma non è dei misteri che ruotano attorno alla morte del giovane poliziotto e di sua moglie che voglio parlare.
Io voglio dire di quest’uomo, di Vincenzo Agostino. Che ha sopportato la peggiore tortura alla quale un essere umano può essere sottoposto, il sopravvivere a un figlio. Che ha lottato dal basso contro silenzi e depistaggi altissimi. Che ha visto la sua barba allungarsi per una protesta che probabilmente non conoscerà mai fine: ma quando la verità è un miraggio cosa volete che sia tutto il resto?
E allora quest’uomo è uno dei pochi simboli che riconosco, poiché a me i simboli sanno in genere di espediente farlocco (specie negli ultimi tempi) per inventarsi una scorciatoia in ragionamenti complessi. Quest’uomo è il simbolo di un dolore eterno, di una sconfitta, soprattutto oggi, dopo che la Procura di Palermo si è arresa nella ricerca dei responsabili del duplice omicidio di suo figlio e sua nuora.
E però mentre siamo tutti confratelli di hashtag quando c’è da sposare una moda lacrimevole (una strage in giro si trova sempre), magari non sappiamo nulla della peggiore tortura che si è consumata dietro casa nostra. Del dramma prolungato di un padre, quello di vivere senza più un perché. Di un uomo. Quest’uomo.

Perché The Young Pope non mi è piaciuto

Jude law the young popeChi non ha ancora visto The Young Pope e ha intenzione di vederlo faccia attenzione, questo post contiene spoiler.
Chi lo ha già visto invece può concedersi una riflessione sul seguente tema: Paolo Sorrentino ha realizzato un capolavoro o no? Perché a leggere i commenti sul web e sui giornali, le due principali correnti di pensiero riguardo a questa serie tv sono: 1) noia mortale; 2) opera imperdibile.
Io provo a esplorare brevemente una terza via. The Young Pope è appassionante come appassionante può essere l’espressività di Jude Law: bravissimo, mister primo piano, ma algido e orgogliosamente divo.
Il primo episodio mi ha incuriosito, il secondo mi ha annoiato, dal terzo al sesto sono andato avanti sonnecchiando, il settimo mi è piaciuto molto, l’ottavo e il nono mi hanno riacceso la curiosità, e il decimo mi ha deluso mortalmente. Ecco, è proprio l’ultima puntata che, a mio parere, incrina tutto il progetto di Sorrentino. Un finale che sembra scritto frettolosamente con un discorso alle folle, finalmente a volto scoperto, che è l’equivalente di un temino delle medie, una presunta morte quasi del tutto ingiustificata e l’ascesa in cielo più didascalica da quando è stato inventato Google Earth. Insomma un’occasione perduta, tra sorrentinate (anche simpatiche), belle idee musicali, eccessi un po’ annunciati e dialoghi che riescono a essere talvolta intensi e talvolta incredibilmente banali. Voto: 6 meno.

La mia banda suona il rock. All’Ucciardone

Gery e la sua Fender StratocasterEntrai nel carcere dell’Ucciardone molti anni fa. Era il 1981. Avevo scritto una rock opera con la mia band. Faccio subito i nomi della formazione per una forma di giustizia musicale che va oltre la contabilità delle presenze (eravamo un gruppo a media variabilità di organico): io suonavo la chitarra e cantavo, al basso c’era Giovanni Caminita ma c’era stato anche Maurizio Orlando (che suonava anche la chitarra), alla batteria c’era Marcello Sacco ma c’era stato anche Fabio Aguglia, alle tastiere c’era Walter Catania ma c’era stato anche Giovanni.
Dunque avevo quest’opera rock – con una decina di anni di ritardo sui Who e sull’idea del concept album di The lamb lies down on Broadway dei Genesis – e insana voglia di suonare. Avevamo inciso un disco, un 45 giri di cui vi ho già parlato e sul quale per la serietà che i miei 53 anni mi impongono non vorrei ritornare. Nel bailamme della promozione di un prodotto che spacciavamo per musica d’importazione (cantavamo in inglese) ci capitò di essere chiamati da un’assistente sociale che faceva la volontaria al carcere palermitano: venite a suonare all’Ucciardone?
Accettammo alla cieca senza farci troppe domande, soprattutto senza farcene una: che minchia andiamo a promuovere in un carcere?
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Per quanto tempo è per sempre?

insiemeCome i lettori più affezionati (nonché pazienti) sanno, sono affascinato dallo scorrere del tempo. I maligni dicono ossessionato, ma va bene così. Diciamo che sono particolarmente attento al divenire e alle tappe del cambiamento. Da un lato mi piace che le cose cambino, dall’altro mi fa incazzare che cambino senza chiedere permesso.
A questo penso in questi giorni, in prossimità sempre più cruciale di vari eventi personali (compleanni, ricorrenze affettive, dieci anni di questo blog, eccetera). E ci penso cercando di darmi una regola, un minimo manuale interiore che mi tenga lontano dal trappolone della nostalgia del cinquantenne ex capellone, ex atleta, ex rockettaro, ex giovane insomma.
Probabilmente rimarrò prigioniero di una logica costruita ad hoc, come un abito sartoriale che inguaina e non nasconde, oppure chissà mi scoprirò piacevolmente ingenuo a coltivare nuove speranze, perché le speranze vanno curate come piante delicate, salvo dimenticarsi che con qualunque cosa le nutriate, vanno per i fatti loro (tipo la vite americana che mi regalò mia madre per il balcone e che sparava i suoi tralci in tutte le direzioni tranne che sul balcone stesso). Di certo starò attento a festeggiare il festeggiabile poiché non c’è mai un motivo per non brindare a una sopravvivenza. Che sia di una cosa o di una persona poco importa, sono per le torte di non compleanno e per quel genio di Lewis Carroll che fa chiedere ad Alice “per quanto tempo è per sempre?” e che fa rispondere il Bianconiglio “a volte, solo un secondo”.

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Referendum, sì o no? L’unica certezza è l’epic fail

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Della serie dilettanti allo sbaraglio. La lettera inviata da Matteo Renzi e dai Comitati per il Sì agli italiani all’estero per il prossimo referendum contiene un errore nel link del sito ufficiale www.bastaunsi.it. Infatti, dimenticandosi una “n”, l’indirizzo indicato è www.bastausi.it.
Errore colto al balzo dai sostenitori NO che hanno immediatamente registrato il dominio e lo stanno usando per reindirizzare il traffico al loro sito, quello che illustra le ragioni del NO.
Un epic fail insomma, no? (o sì?)

Grazie a Giuseppe Giglio.

Cari palermitani, lo sapete che la maratona è una festa?

maratona palermoIeri su la Repubblica sulla maratona di oggi a Palermo.

In ogni città del mondo, grande o piccola, assolata o gelida, antica o moderna, la maratona è una festa. Perché è l’occasione per godere della felicità altrui, che siano endorfine degli atleti o volti raggianti dei bambini in una città senz’auto e quindi a loro misura. Perché l’evento può rappresentare un’importante promozione turistica. E perché, una volta tanto, misurare a piedi una distanza generalmente conosciuta solo grazie a una sbirciata al cruscotto è un po’ come guardare l’amata sotto una luce piacevolmente diversa.
Domani ci sarà la ventiduesima Maratona di Palermo e – desiderio quasi clandestino -sarebbe bello se s’inaugurasse un nuovo corso. Facciamo finta che l’occasione sia il nuovo itinerario arabo-normanno e mettiamo per una volta da parte la bellezza unica dei luoghi che questa gara attraversa fisicamente (si passa all’interno di Palazzo dei Normanni e di Villa Niscemi). Una maratona nei luoghi dichiarati patrimonio dell’Unesco è una manifestazione che ha due sponsor in più, il bene comune e il bello universalmente riconosciuto. Laddove altre città sono costrette a rifarsi il trucco per simili appuntamenti, Palermo brilla di luce naturale.

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Lenzuola pulite e cioccolata calda

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Nella sua splendida autobiografia “No, non sono ancora morto”, Phil Collins racconta i tempi dei Genesis: una canna al massimo e poi a nanna. Altro che follie del rock.

P.S.
Non so perché, ma una parte della mia coscienza musicale in qualche modo se lo aspettava.

L’importanza dei giornali locali

In termini di effetti concreti, quello che conta veramente (a parte il compito, essenziale in una democrazia, di diffondere le informazioni) è spingere i lettori all’azione. Ed è più probabile che questo succeda se si lavora per un giornale locale piuttosto che nazionale.
Le iniziative dei giornali locali spesso riescono a salvare scuole che rischiano di essere chiuse, a migliorare i servizi sanitari, a proteggere siti d’interesse storico, e così via. Un giornale o una radio locale possono spronare il loro pubblico all’azione perché coprono un’area sufficientemente piccola da permettere alle persone che vogliono impegnarsi di incontrarsi e fare qualcosa.
Nessun quotidiano nazionale può fare una cosa del genere.
Se ci si sposta da un giornale locale a uno nazionale, forse si guadagna di più e ci si occupa di temi di interesse più generale, ma si perde la possibilità di cambiare le cose.

David Randall, senior editor dell’Indipendent on Sunday di Londra, spiega in parole semplici come i giornali locali possono davvero spingere per cambiare le cose. Il problema è quando i giornali locali si mettono in testa di giocare in grande, mirando alla luna anziché controllare l’acqua del secchio.

Diciotto euro di dignità

img_0418Sarà furbizia, sarà strategia, sarà casualità, ma trovarsi con 18 euro sul conto in banca quando hai goduto di lauti stipendi e sei inseguito dalla giustizia, a me sa di indicibile arroganza. È il caso dell’ex presidente delle Misure di prevenzione Silvana Saguto, che avrebbe svuotato il suo conto alla Bnl in vista del sequestro ordinato dai suoi colleghi di Caltanissetta.
Nessuno adora farsi sottrarre soldi, tantomeno una che coi soldi pare avere una certa confidenza, ma c’è modo e modo di presentarsi all’appuntamento con un provvedimento duro e che si ritiene ingiusto. La dignità con la quale si mette mano alla cassa prima che arrivino i finanzieri non ha rilevanza penale, ma di certo la classe ha un impatto con la considerazione che il mondo può avere di noi, senza tener conto della fedina penale. La Saguto che lascia in cassa 18 euro, cioè nemmeno una briciola della pagnottona che l’accusano di aver addentato, non ci risulta né più né meno colpevole di come la dipingono i suoi accusatori. Molto più arrogante, sì.