Il destino degli uomini-sedia

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Diciamoci la verità, il blitz contro gli assenteisti del Comune ci sorprende poco, dato che da sempre ville e palazzi comunali a Palermo sono popolati da queste creature-sedia spaparanzate al fresco di un albero o nel comodo di un atrio: proliferano solitamente a gruppi, ma anche i solitari fanno la loro figura. Per carità, ci sono alcuni loro colleghi che lavorano ma si tratta perlopiù di eccezioni che servono a mantenere in vita una regola. La cronaca ci dice che per molti di questi signori far finta di combinare qualcosa diventa tedioso: non lavorare stanca. E allora tutti al supermercato, o a casa, o a fare jogging dopo aver timbrato il cartellino. È così che saltano i numeri, che pianificare diventa impossibile, che la macchina si inceppa. Tanto più che quella che ha portato ieri a ventotto misure cautelari è un’inchiesta dell’estate del 2018. Tre anni fa. Tre anni in cui una giustizia lenta (è un’indagine blindata con telecamere nascoste e fatti ben documentati dalla Guardia di Finanza) ha involontariamente spalmato nel tempo gli effetti deleteri di condotte indecenti. Non è ozioso pensare che tempi più brevi nella chiusura del cerchio avrebbero potuto giovare non solo alla comunità, ma agli stessi colleghi onesti di quelli beccati con le mani nel sacco (o nel badge altrui). Infine una curiosità. Tra il personale coinvolto nell’operazione ci sono molti operai della Reset, la società che si occupa di manutenzione e cura del verde. La stessa società che qualche giorno fa ha costretto il Comune a impedire i matrimoni nel pomeriggio a Villa Trabia (e sposarsi lì di giorno significa infilarsi in una fornace) dato che il personale non basta per tirare fuori le sedie necessarie alla cerimonia: una nemesi per le creature-sedia.

Delitto di assistenzialismo

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Il caso dei lavoratori che non si trovano in Sicilia in quest’estate di agognata ripartenza è da manuale. E ci spiega, se mai ne avvertissimo il bisogno, il fallimento di antiche politiche assistenzialiste e di recenti provvedimenti come il reddito di cittadinanza. Accade che albergatori, ristoratori e manager siano alla disperata ricerca di qualcuno che accetti di lavorare per la stagione estiva. Ma molti disoccupati scelgono di restare tali perché, facendo i calcoli, ritengono più conveniente continuare a campare coi soldi che lo Stato gli elargisce per restare spaparanzati sul divano e integrare con qualche lavoretto in nero. Un caso da manuale, dicevamo, che certifica il fallimento di un provvedimento come il reddito di cittadinanza che era nato come “misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà”, e si è rivelato invece un freno per quel treno che avrebbe dovuto portare migliaia di disoccupati fuori dalle gallerie dell’incertezza. Ora che la frittata è fatta, e nell’attesa che si rivedano i meccanismi del sostegno economico separando in modo netto gli strumenti di lotta alla povertà rispetto ai sostegni al reddito in mancanza di occupazione, qualche bruciacchiatura resta anche nelle mani di alcuni di quegli imprenditori che oggi protestano e che ieri magari erano i primi a incentivare il lavoro in nero. La Sicilia e la sua economia hanno affondato le radici in questa furbizia di rimbalzo, dove la “messa in regola” è ancora vista come la kriptonite da generazioni di disoccupati che vogliono restare tali. E non è ottenere il massimo col minimo sforzo. No, è semplice scelta (in)culturale. È inchino a quell’assistenzialismo che ha finto di allevare il Sud Italia e invece lo ha affamato. Di sapere, di specializzazione, di dignità.

Cannibalismo

Il signor Marino Pietro, consigliere comunale di destra di Mazara del Vallo ha un’idea per superare gli steccati delle ideologie, anche quelli della realtà a dire il vero, ma questo è un dettaglio ininfluente. Lui racconta la Storia così come andrebbe studiata all’università della vita anzì del vicolo, cioè senza perdersi in tediose letture: la Storia è la sua storia. Così come l’ha sentita dire, lui la diffonde, anzi la elargisce dall’alto del suo scranno comunale. Quando deve difendere l’intitolazione di strade intitolate a fascisti e affini nella sua Mazara, non trova nulla di più opportuno che attingere alla somma verità: perché non lo sapete che i comunisti mangiano i bambini? Della serie: smettiamola con queste odiose discriminazioni tra criminali.Nella sua appassionata difesa delle ideologie, Marino Pietro risolve in un paio di minuti un dibattito secolare: i fascisti furono peggio dei comunisti? Ovvio che no, almeno i primi mangiavano pulito. E trova persino un colpevole vivente: il famigerato “Cin Cin Pin” che in Corea “fucila chi sbaglia ad alzare il braccio”.Non c’è nulla da ridere (e so che chiedo molto) perché la tesi di Marino Pietro è più seria di quanto sembri. La nuova Storia non è più imbrigliata nelle idee di chi la racconta, non servono studi e analisi, basta un’idea fissa, anche balzana per passare alla versione moderna della narrazione dei fatti che è “la storiella”. Tutto molto più agile, per menti sveglie (e stomaci blindati). Manco di un clic sul web c’è bisogno poiché nel mondo dell’indomito consigliere mazarese anche quello è un ricettacolo di luoghi comuni (lo infastidisce il fatto che casualmente ci si incontra persino qualche verità). No, lui è avanti rispetto a tutto e tutti, indipendente e libero. Libero anche di promettere con levità: “Quando ci saremo noi vi spazzeremo”. Parola di Marino Pietro, consigliere comunale di destra di Mazara, salvatore dei bambini (che detta così è perfetta per l’intitolazione di una strada).

Palermo è in difficoltà

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Il vecchio gioco non regge più. Il refrain della “città bella nonostante tutto” che attrae turisti e consola i più ottimisti tra i palermitani è solo l’eco lontana di una giustificazione che piaceva, ci piaceva. Palermo “bella nonostante tutto” era bella sin quando quel “nonostante tutto” non è diventato invadente, grottesco. Oggi la città soffre talmente da non opporre quasi più resistenza: e sappiamo bene che dalle nostre parti la rassegnazione è, nel migliore dei casi, una pericolosa forma di difesa, quella che più facilmente cede alle scorciatoie del qualunquismo, alle tentazioni del rimpianto nei confronti di chi non merita rimpianto. Al di là del traffico, dell’immondizia, delle bare senza sepoltura, la vera crisi di Palermo è nella visione di chi la amministra. Una visione novecentesca che procede (quando procede) per compartimenti stagni. Invece no, la città del futuro, come una grande azienda o come un consesso di teste pensanti, deve superare questa logica di guerra tra uffici, di barricate in consiglio comunale che rimandano più a un film dei Monty Phyton che a un dibattito politico o a un suo surrogato. La distanza della politica rispetto alle persone può essere accorciata soltanto se, ad esempio, la politica la smette di usare delibere (che sono atti importanti per la vita di una comunità) come strumento di guerra e capisce che la paralisi amministrativa non è più, come un tempo, uno stratagemma per gestire potere, ma un’offesa alla cittadinanza. Insomma una nuova visione, realistica e lungimirante, deve tener conto dei tempi che non sono più quelli del “nonostante tutto”. Niente più ardite scommesse, servono scelte consapevoli. Niente più politica dei piccoli passi, servono falcate.    

La mafia al tempo dei social

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A Catania il clan degli spacciatori puniva i pusher che sgarravano pestandoli e umiliandoli e poi postava i video su TikTok. A Palermo la sete di vendetta per l’omicidio di Emanuele Burgio, figlio del boss della Vucciria, cresce su Facebook. Sono solo gli ultimi due episodi di una catena infinita di esternazioni e dimostrazioni di forza talmente tracotanti da apparire grotteschi nella loro ingenuità: la violenza esibita urbi et orbi ha un inconveniente non di poco conto, è visibile anche alle forze dell’ordine. Ma non importa. Ciò che conta è mostrarsi, riscuotere la gratificazione istantanea. Esserci nel non-luogo del social network può comportare un allentamento dei freni inibitori e l’abbandono della tradizionale prudenza persino da parte di un sodalizio criminale che proprio sulla prudenza ha costruito un complesso sistema di sicurezza. È vero, la mafia ha sempre cavalcato il clamore di certe sue azioni per intimidire, eliminare il dissenso. Colpirne uno per educarne cento, da Mao alle BR sino a Totò Riina, è stato un metodo che si sostanziava di azioni pubbliche, di ostentazioni violente. Ma lì almeno c’erano una logica ferrea e un filtro verticistico: oggi chiunque abbia un telefonino e un’idea malsana colpisce e “educa” a modo suo.  Perché è cambiata una regola fondamentale che riguarda tutti, criminali e persone perbene: il destino di una teoria, qualunque essa sia, anche la più storta, non è più determinato dalla sua validità, bensì dal contagio che essa riesce a generare. La violenza ostentata in barba alla più elementare forma di prudenza è figlia di quella libertà, anzi “libertà”, vigente nei social che calpesta la norma numero uno della buona creanza: un’opinione è tale solo se esce dall’orifizio giusto.      

Quando arrestarono mio padre

È una storia di ventisette anni fa. E mi è tornata alla mente – che è una maniera imprecisa di dire che è riaffiorata dato che non se n’è mai andata – leggendo di questa storia.  Nel 1994 mio papà venne arrestato per una storia di abuso d’ufficio nell’ambito di un’inchiesta sulla sanità siciliana. Non mi inerpico nei dettagli, dico solo che era una ramificazione giudiziaria e mediatica del mood “mani pulite” che pure aveva più di un attaglio nel clima di illegalità diffusa in Italia. Ma la storia di mio padre è emblematica.

Presa una tesi, nella pubblica amministrazione si ruba, si costruì un’architettura che la giustificasse. Si inventarono consulenti al limite del ridicolo – bastava che parlassero un qualunque dialetto nordico e i pm siciliani della procura di Caselli li accoglievano a braccia aperte – e soprattutto si rovinarono molte vite per illuminare altrettante carriere che altrimenti sarebbero rimaste nell’ombra di una normale e dignitosa attività lavorativa. Perché, va detto (e ve lo dice uno che si è sempre battuto pubblicamente per l’indipendenza della magistratura e contro il malaffare in tutte le sue declinazioni) in quel tempo un magistrato era nulla se non aveva un titolo sul giornale. Ho mille ricordi e testimonianze su questo punto, avendo fatto il capo delle cronache siciliane dell’allora maggiore giornale dell’Isola per vent’anni: magari un giorno vi racconterò.

Intanto torniamo a mio padre.

Lo arrestarono con un tam tam di annunci che raggiungeva me per primo, suo figlio, in quanto giornalista. La sera in cui scattò il blitz – erano una dozzina di “pericolosi delinquenti” da bloccare – io lo avvisai: per prepararlo, non certo per farlo scappare. Infatti lui si consegnò con serenità ai finanzieri e si beccò tre giorni di arresti domiciliari. Certo, a quei tempi erano niente tre giorni di arresti a casa: gli altri suoi colleghi si fecero mesi di Ucciardone, perché avevano l’accusa di corruzione che lui non aveva (nessuno avrebbe mai potuto accusarlo di corruzione, neanche il più fantasioso dei pm).
Prima di dirvi come finì, vi dico come continuò. Che è la cosa più scandalosa.
Non avendo nulla contro di lui, lo sommersero di inchieste – oltre una dozzina – sempre con la stessa accusa: abuso d’ufficio, un reato che è acqua fresca per un amministratore pubblico giacché a quei tempi se facevi rischiavi questa incriminazione, se non facevi rischiavi l’opposto, l’omissione. Si sorbì anni e anni di processi, a forza di frequentare il tribunale di Palermo diventò amico di avvocati e magistrati (tutti, tranne quelli che lo avevano inquisito, erano troppo protervi persino per lui che era l’uomo più comunicativo dell’universo conosciuto), e a un certo punto ammise di masticare più di codice penale che di medicina nonostante le sue quattro specializzazioni.

Alla fine fu assolto da tutto. Ovviamente.

La sua fortuna fu di essere lui, ironico, ottimista, buongustaio, lucido estimatore della vita vissuta. Ne discutemmo a lungo nel corso degli anni e lui ne parlava sempre con un sorriso di duplice lettura: di ammirazione per la nostra tenuta e per la fiducia nelle cose sane, di compatimento per quei poveri magistrati che si erano dati pena di dipingerlo come parte di un sodalizio criminale che era solo nel loro insano protagonismo. Gli rivelai anche di un carteggio che avevo tenuto con Caselli sul tema, rimasto sempre una cosa privata tra me e l’inchiostro verde della stilografica del procuratore.

La nostra famiglia, per fortuna, si riprese dagli strattoni di quelle inchieste sgraziate che produssero solo una sequela di assoluzioni e una manciata di condanne (a conferma che a sparare nel mucchio si fa una strage ma ci si può sempre inventare la scusa della “guerra giusta”). Eravamo ben strutturati e, tutto sommato, non avevamo subito i disastri che altri avevano dovuto sopportare. Insomma eravamo stati fortunati, in un’epoca in cui la giustizia era la mano che faceva girare la ruota della (s)fortuna.

A tutto questo e a molto altro pensavo leggendo delle sventure del sindaco di Lodi arrestato ingiustamente, deriso da giornalisti come Travaglio, oggetto di odio social-comandato da parte del Movimento 5 stelle.
L’odio è un modo subliminale per odiare se stessi. Ricordiamocelo quando sputiamo sentenze su cose di cui non sappiamo nulla e, soprattutto, non ci interessa avere un parere che sconvolga il nostro pregiudizio.  

Ma ne riparleremo, promesso.    

Si fa presto a dire Ponte

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Più della scomparsa delle mezze stagioni, oltre la differenza tra caldo secco e caldo umido, meglio della constatazione che una volta ci si divertiva con poco, la discussione sul Ponte sullo Stretto ormai surclassa tutte le discussioni riempitivo. Solo che quando la recrudescenza dei luoghi comuni filtra dalle chiacchiere da ascensore al dibattito politico, bisogna stare molto attenti. Soprattutto se si parla di un’opera che è già costata più di trecento milioni di euro pur non essendo mai stata realizzata. Un record insomma. L’altro giorno il governatore Musumeci ha ribadito che il Ponte si farà perché “questa telenovela deve finire”: cioè con inconsapevole senso dell’humor ha usato una telenovela per scacciarne un’altra. Ma fa niente, quel che conta davvero è trovare un riempitivo che vada bene con qualunque contesto politico quando la discussione langue. E il Ponte è la pietra angolare di tutte le battute da bar travestite da dichiarazioni programmatiche. Quando la politica era un’altra cosa, cioè almeno avanspettacolo puro, Berlusconi arrivò a presagire la posa della prima pietra: era il 2002 e credevamo di averne viste abbastanza. Ma si sa, l’ottimismo è la migliore dote degli ingenui. Così oggi derubrichiamo a barzelletta la capriola logica del Movimento 5 stelle che, nel giro di pochi anni, sono riusciti a far transitare l’opera dalla categoria “presa per il culo” a quella “simbolo della ripartenza”. E poi il dibattito sul nome. Salvini vorrebbe chiamarlo Ponte Draghi, Musumeci lancia la suggestione del Ponte Ulisse. Un buon compromesso, in onore della storia che ammanta quest’opera che non c’è, sarebbe chiamarlo Ponte delle Chiacchiere. A campata unica tra un luogo comune e l’altro. 

Tassa sui rifiuti come atto di fede

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Mettetela come volete, ma oggi come oggi la tassa sui rifiuti a Palermo tutto è tranne che una tassa per un servizio. Con l’azienda al collasso, la raccolta differenziata a singhiozzo e le strade che di certo non brillano, il pagamento della Tari suona sempre più come una beffa che anticipa il danno, come un piccolo monumento domestico alla sfiducia. Quello dell’immondizia è il problema dei problemi, e al confronto il traffico è roba da vetusta ironia cinematografica. Perché al di là dei numeri da pallottoliere dei mezzi in funzione e del sempiterno scaricabarile tra Comune e Regione, c’è una causa di una banalità disarmante alla base di tutto: la Rap è una macchina scassata e non dobbiamo mai dimenticare che anche il miglior pilota finisce in panne quando il motore lo manda a quel paese. Ingenuamente in tutti questi anni abbiamo visto sfilare amministratori di ogni casacca sperando che ogni volta fosse quella buona. Ci siamo persino rimbecilliti dinanzi al concetto del “fedelissimo”: ora arriva tal dei tali, che è un fedelissimo del sindaco, come se il risultato dipendesse da un vincolo di lealtà tra due persone. Invece no, i rifiuti e il mondo di interessi che gira intorno allo smaltimento non hanno nulla a che fare col sentimento. Sono un delicatissimo mix tra business e civiltà, sicurezza e decoro, legalità e lungimiranza. Ecco perché ormai, dopo anni di fallimenti, di inchieste, di trincee, di walzer di poltrone, di fetore e delusioni, il pagamento della Tari è un atto di fede. Una fede che comincia dove la ragione finisce, ma che poco si fonda sulla volontà di chi crede: insomma più Kierkegaard che Sant’Agostino, tanto per stemperare nei massimi sistemi le minime questioni di sacchetto e cassonetto.

Questione di Fedez

Quella per cui “i musicisti facciano i musicisti e la politica faccia la politica” è una scusa lunga un secolo tirata fuori, come se fosse nuova, non appena un cantante osa pisciare fuori dal pitale dei temi consentiti. E non è censura – che quella almeno aveva una sua ragion di stato, non accettabile ma almeno chiara, esplicita nella sua granitica impenetrabilità – ma un pericoloso mix di grettezza, superficialità, incultura e arroganza.

Il cantante che spettina la realtà mette la sua arte al servizio della cronaca e, può piacere o meno, fa ciò che un pittore o uno scrittore fanno quando rielaborano il visibile o descrivono l’invisibile. Ripeto, può piacere o meno e per questo esistono sedi e modi appropriati per esprimere un giudizio (classifiche, indici di gradimento, eccetera), ma richiamare all’ordine un artista per un parere che quell’artista esprime proprio nelle sue vesti è un atto degno del mix di cui sopra.
Fedez fa esattamente Fedez, lo sai quando lo inviti. Se non ti piace non inviti, semplice.

Pensare di invitarlo solo per fargli fare ciò che gli riesce peggio, cioè cantare, è una follia.

La sua invettiva sulla legge Zan, su cui qui non mi dilungo (ne ho già brevemente discusso stamattina su Facebook), è semplicemente il frutto del suo lavoro di artista. Lui questo fa: sposa cause, le legge a modo suo, le cavalca, le fa entrare in un circuito mediatico che rispecchia in fondo la sua vena creativa. Non c’è da imbavagliarlo ma, se si vuole, lo si può recensire. Come si fa con tutti i cantanti.  

Un’obiezione, guardando al passato, potrebbe essere: sì, ma le grandi canzoni di protesta erano appunto canzoni, mentre questo Fedez declama. È vero, non siamo a We Shall Overcame, (l’inno del movimento per i diritti civili degli afroamericani e delle lotte sindacali, studentesche e pacifiste di mezzo mondo, dalla Spagna franchista al Sudafrica segregazionista), né a The Star – Spangled Banner suonata da Jimi Hendrix a Woodstock (quando il chitarrista inserì nel brano i suoni che richiamavano la guerra del Vietnam), ma ogni tempo ha i cantori che si merita e oggi la musica ha bisogno di nuovi mezzi, anche logici e verbali, attraverso cui essere veicolata.

Molto modestamente penso che un artista è tale in ogni sua visione della vita, non gli si può chiedere di guardare alle cose del mondo soltanto quando indossa l’abito di scena, altrimenti diventa un’altra cosa. Un ragioniere (con rispetto per i ragionieri). O un giullare della politica (con rispetto per i giullari e per la politica, a patto che stiano in banchi separati).

Monumenti allo spreco

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Ci sono abbandoni che mettono alla prova una comunità. Perché l’abbandono è ferita non rimarginata, è dolore pulsante. Quelli che Repubblica sta raccontando in questi giorni sono disastri di burocrazia e disattenzione che pesano sulla città e sulla sua capacità di aver cura delle cose pubbliche. Il Diamante di Fondo Patti e il Palazzetto dello sport hanno storie in qualche modo sovrapponibili: inaugurazioni in pompa magna, esistenze brevi, poi, per caso o per disgrazia, qualcosa si inceppa e tutto piomba del più disperato degli abbandoni, quello lento e inesorabile. Come un dissanguamento. “Ormai non c’è niente da rubare”, ha detto ieri un agente della polizia municipale al cronista che vagava per le rovine del Diamante. Una frase che spiega come neanche i ladri sono più interessati a quel cadavere di ferro e cemento. E quando persino il predone si arrende all’evidenza della desolazione, si consolida la strisciante consapevolezza che è davvero finita. E invece no. In ogni caso non c’è da arrendersi giacché questi totem allo spreco di denaro pubblico e al trionfo della sciatteria (che attraversa gli anni e le diverse amministrazioni pubbliche in modo tragicamente simmetrico) non possono rimanere così, esposti nella loro nudità come se nulla fosse. Se proprio non si trova la decenza di ripristinarli, allora – diciamolo chiaramente – è meglio abbatterli: toglierli dalla vista di tutti noi per pudore, per illudersi che la ferita possa finalmente smettere di sanguinare. Serve un’assunzione di responsabilità che al limite porti a una decisione estrema: chiudere un capitolo di dolore indecente ammettendo la sconfitta. E sperando nell’oblio anestetizzante di una città lontana e distratta.