L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.
Ci sono abbandoni che mettono alla prova una comunità. Perché l’abbandono è ferita non rimarginata, è dolore pulsante. Quelli che Repubblica sta raccontando in questi giorni sono disastri di burocrazia e disattenzione che pesano sulla città e sulla sua capacità di aver cura delle cose pubbliche. Il Diamante di Fondo Patti e il Palazzetto dello sport hanno storie in qualche modo sovrapponibili: inaugurazioni in pompa magna, esistenze brevi, poi, per caso o per disgrazia, qualcosa si inceppa e tutto piomba del più disperato degli abbandoni, quello lento e inesorabile. Come un dissanguamento. “Ormai non c’è niente da rubare”, ha detto ieri un agente della polizia municipale al cronista che vagava per le rovine del Diamante. Una frase che spiega come neanche i ladri sono più interessati a quel cadavere di ferro e cemento. E quando persino il predone si arrende all’evidenza della desolazione, si consolida la strisciante consapevolezza che è davvero finita. E invece no. In ogni caso non c’è da arrendersi giacché questi totem allo spreco di denaro pubblico e al trionfo della sciatteria (che attraversa gli anni e le diverse amministrazioni pubbliche in modo tragicamente simmetrico) non possono rimanere così, esposti nella loro nudità come se nulla fosse. Se proprio non si trova la decenza di ripristinarli, allora – diciamolo chiaramente – è meglio abbatterli: toglierli dalla vista di tutti noi per pudore, per illudersi che la ferita possa finalmente smettere di sanguinare. Serve un’assunzione di responsabilità che al limite porti a una decisione estrema: chiudere un capitolo di dolore indecente ammettendo la sconfitta. E sperando nell’oblio anestetizzante di una città lontana e distratta.