Non frequento le chiese, ancor meno le messe. Eppure ieri mi è capitato di assistere alla messa cantata nella cattedrale di Notre-Dame a Parigi. Le voci del coro e la potenza dell’organo a canne mi hanno regalato un’emozione nuova, quella che ha a che fare con l’arte e contemporaneamente con la fede. Poco dopo sono stato in visita alla chiesa di Saint Eustache, bellissima, dove all’interno c’era una grande tavola imbandita per i poveri: gente che mangiava, beveva, sorrideva, chiacchierava a due passi dall’altare.
Secondo me, in tutt’e due le occasioni, Dio si è molto divertito.
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Massì, offro io
L’Alka Seltzer di Dio
Leggo su Livesicilia il menu del pranzo di domenica prossima con Papa Benedetto XVI e i vescovi siciliani al Palazzo arcivescovile di Palermo.
Antipasto di caponata, crocchette di latte e verdure in pastella. Primo con involtini di melanzane ripieni di pasta e risotto ai frutti di mare. Secondo: filetto in crosta. Alla fine gelato al pistacchio e mandarino, cassata, paste di mandorle e pistacchi e passito di Pantelleria.
Si vede che il Santo Padre è ben seguito da lassù: un comune mortale dopo un pasto del genere stramazzerebbe sulla tavola. Tuttavia lui ha fatto la sua rinuncia: niente vino, solo spremuta d’arancia (che in questo periodo sarà freschissima…). Meno peggio di quanto immaginassi, temevo un cappuccino da turista nordico.
Tavolo con vista
Si chiamerà Natale
Appunti di Natale e scusate il ritardo (per riprendermi c’è voluto tempo).
Si chiama Domenico Torta. Ha 79 anni, occhi piccoli e appuntiti, baffi neri, capelli lunghi e codino. E’ mio padre, ma non gli assomiglio per niente. Prendete una tunica nera, mettetegliela e avrete un inquisitore, di quelli che mandavano le streghe al rogo.
Come ogni Natale sono qui a casa sua, seduto davanti a lui, per il solito pranzo a cui non rinuncerei per niente al mondo perché ogni anno, da quando ne ho compiuti 15, aggiunge una riga al suo testamento. Il mio è vero affetto. Finita la parte dove mi ha lasciato la casa, siamo arrivati alla riga dove sta indicando me – e solo me – unico figlio devoto, erede della villetta di Pantelleria. L’anno scorso la riga si è interrotta a “Pant… “.
Io non potrei fare più a meno di questa festa – specchio, in cui guardo gli altri e mi guardo. Guardo soprattutto la badante rumena di mio padre, 30 anni, che ha il sedere più maestoso d’Europa, isole comprese. Si chiama Julia. L’ho già castigata: l’anno scorso, sempre a Natale. Ora è incinta, e il fatto che porti in grembo un figlio non mio è la dimostrazione che Dio esiste e merita tutto il mio rispetto.
Siamo seduti a tavola. C’è anche quella simpaticona della mia ex moglie che ha fatto qualcosa al labbro superiore. Non ha più le sue micro rughe, testimonianza imperitura della sua maestria nel chiudere e aprire la bocca: e non solo per parlare.
Regali. A me arrivano quelli più brutti. Mentre io li faccio sempre “pensati”. Dalla mia segretaria – che mi conosce benissimo – alla quale do mille euro, una lista di nomi che si riduce sempre di più. E lei compra. Cose tipo questo massaggiatore da piedi per mio padre, che per un pelo non vomita solo guardandolo, e una trousse per la mia ex consorte che mi sta dando un pacchettino. Lo apro e che meraviglia! Un pezzo di sapone alla cannella. La bacio sulla guancia e lei mi sussurra “stronzo”. Poi do il regalo a mia figlia, una sciarpa viola. Non la scarta neanche e manda sms. Ma lei è mia figlia e so che mi vuole bene.
Ci siamo. Abbiamo mangiato il pandoro e mio padre estrae il testamento. “La villetta di Pantelleria la lascio a Julia e a suo figlio che poi è mio figlio. Nascerà tra 4 mesi. Se dovessi morire prima, per favore, non chiamatelo Roberto”.
Infatti si chiamerà Natale.