Dove vanno a finire i pensieri?

Da Zubiri a Pamplona.

Una delle risposte che trovo in questi Cammini è quella a una domanda che dovremmo farci più spesso: dove vanno a finire i nostri pensieri? 
Io lo so. I miei mi vengono a trovare qui, in questi giorni di rilassante fatica: mi hanno aspettato. Li riconosco perché li ho coccolati, espulsi, divorati, evitati, titillati, odiati, adorati per tutto l’anno. E finalmente mi posso dedicare a loro con l’attenzione che meritano: comunque anche prima di cestinarli (e lì è facile capire dove vanno a finire) me li rigiro un po’ tra i polpastrelli dell’anima. 

Apro una parentesi. Mentre in piena polluzione poetica scrivevo “polpastrelli dell’anima”, una forchettata di patatas bravas ha scaricato sulla tastiera del mio iPad tutto il suo carico di salse a conferma che se proprio non sappiamo dove finiscono i nostri pensieri abbiamo piena contezza di dove finiscono le nostre imprecazioni. Chiusa parentesi.

Oggi l’itinerario era abbastanza lineare, indicato sulla carta come facile ma in realtà complicato da un continuo saliscendi tritagambe (e trita qualcos’altro). Nella testa avevo ancora le immagini dell’inaugurazione delle Olimpiadi di Parigi di ieri, e un pensiero che avevo accantonato lo scorso inverno su questioni teatrali e dilemmi di originalità rappresentativa mi è venuto a trovare. 

Ritmo della narrazione e ambiti tecnici a parte, mi hanno colpito le critiche alla parte dissacrante della cerimonia inaugurale di Parigi, che è stata la parte peculiare cioé quella in cui si vede l’impronta del regista. In Italia siamo ormai abituati a programmi culturali asettici, repliche di repliche, ammoscianti variazioni sul tema, techetechetè infiniti dove non c’è bisogno di un direttore artistico: bastano una buona segretaria o un medio ragioniere. Invece, nei secoli dei secoli dissacrare, smitizzare, ironizzare è il compito di chi vuole intrattenere senza rimanere in superficie (ve lo dice, senza alcun vittimismo, uno che al liceo curò un adattamento dello Pseudolus di Plauto e alla fine fu bocciato). Può piacere o meno, ma ricordate che un vero grande spettacolo è fatto innanzitutto per catalizzare pensieri. Solo in Italia e in pochi altri Paesi dittatoriali riteniamo che esistano una realtà, una storia, una religione, una dimensione onirica che non possono essere intaccate dalla provocazione. La provocazione è un rischio che chi crea decide di correre, è il motivo per cui c’è qualcuno che paga uno capace di avere un’altra visuale (lo dico per minima esperienza personale: non paga quasi mai, ma quando paga è una gioia). Non c’è scandalo, è minima regola di ingaggio e massimo investimento di innovazione, Ripeto, poi che piaccia o meno non è importante: ad esempio, nell’inaugurazione di Parigi l’esibizione di Céline Dion mi ha slogato le mascelle per la noia, ma è un minuscolo problema mio. Il vero problema del nostro Paese è l’indice di gradimento: Temptation Island schiaccia Alberto Angela ergo la tv di Stato sceglie il pubblico che si merita quella tv di Stato e ignora o meglio castiga gli altri (discorso complicato di cui prometto di parlare appena mi tolgo questi 800 e passa chilometri dal groppone). 
La cultura che punisce le minoranze è regime e basta.

Insomma oggi, macinando i saliscendi della Navarra, mi sono dedicato a questo pensiero e ho passato in rassegna tutte le linee dritte alle quali mi sono sottratto per paura che uno sbadiglio mi trafiggesse, tutti i naufragi a cui ho assistito quando avevo appena abbandonato la barca, tutti i ragionieri e le segretarie promossi creativi con la banda che suona nell’immenso cimitero artistico delle nostre lande. E ho trovato dov’era finita la risposta alla domanda che non mi ero posto. 

Il tempo, il segreto è il tempo. Quello che non ci regaliamo e quello che, pur avendolo vissuto, ignoriamo. Il tempo ci dà la risposta che sana tutte queste insulsaggini sullo scandalo scandalizzante di Parigi 2024 o sullo strapotere delle scemenze per decreto legge (non un’invenzione della Meloni, ma della cretinocrazia imposta anni fa come dittatura dai cittadini a 5 stelle, ricordiamocelo). 

Il succo è questo. Da bambini giochiamo e sogniamo di essere l’eroe della favola, crescendo ci accontentiamo di non essere il malvagio.

Ora vado a pulire la tastiera, che arrivare sin qui è stata una derapata continua.

4 – continua

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Il diritto di odiare

La-torre-Eiffel-spenta-in-segno-di-cordoglioIn queste ore di sdegno disorientato, di paura liquida, c’è un diritto fondamentale, spesso calpestato, che va salvato. È un diritto che origina dal profondo delle nostre anime, che supera i cancelli della prudenza, ma che è fatto di ragione. Persino il Vaticano usa il verbo “reagire” e non richiama nessun’altra guancia da porgere. Questa è una tragedia di uomini, Dio non c’entra. E chi lo tira dentro – che sia di una fazione o di un’altra – è un cialtrone. Non servono più i pelosi distinguo che separano gli islamici buoni da quelli cattivi, qui ci si divide tra assassini e vittime, senza differenze di colore o di nazionalità. Lasciamo in soffitta i complottismi e le rivisitazioni storiche (l’Occidente, il Colonialismo, i traffici d’armi, i Servizi foraggiatori di terroristi, e altre cose così) e guardiamo le cose come sono. A Parigi come in qualunque altra città del mondo, chi spara sugli inermi non ha giustificazione alcuna, né storica né sociale. Non sono i “bastardi islamici” (per dirla con Libero) i nostri nemici, ma i bastardi delinquenti: i mafiosi, notoriamente cattolici, non hanno mai ispirato titoli tipo “assassini della Madonna” o “stragisti cattolici”. Analizzare i concetti, isolandoli dalle nostre contaminazioni ideologiche, è un buon modo per costruire una reazione adeguata. E per esercitare il nostro diritto più intimo e complesso. Il diritto di odiare.

Calcio alla luna

A Montmartre ho visto un tizio con un pallone che fa cose incredibili tipo questa.

La foto è di Daniela Groppuso.

Cittadini ignavi

Ero a Parigi mentre Palermo, la mia città, si liberava di Diego Cammarata. E la circostanza è stata cruciale per capire la differenza tra una città orgogliosa e una città dimessa. Ovvero tra cittadini attivi e cittadini ignavi.
Parigi è meravigliosa quanto, con le dovute proporzioni, lo è Palermo. Ma è la percezione del bello che cambia da un luogo all’altro. Nella capitale francese tutto quello che funziona si vede, è messo in risalto. A Palermo ci si accorge del prestigio di un museo quando qualcuno decide di chiuderlo.
I parchi, i monumenti, persino i ristoranti, sono parte integrante del tessuto connettivo della comunità a Parigi come in altre città. Tranne che a Palermo, dove non c’è un parco che venga sfruttato come tale, sui monumenti si scrive con la vernice spray e i ristoranti hanno ancora una vocazione prettamente turistica (che vuol dire puntare il più delle volte al deretano del cliente).
La colpa è dei cittadini ignavi che non apprezzano ciò che hanno a portata di mano, perché non sanno, non conoscono, non si incuriosiscono. Una città povera di idee diventa automaticamente più brutta. E le idee sono materia che ha a che fare con gli uomini, mica con i panorami.
E’ troppo facile prendersela con un sindaco, per quanto inadeguato egli sia, come se toccasse a lui tenere pulita la città o organizzare materialmente eventi culturali. E’ molto più impegnativo, ma altrettanto gratificante, scegliere amministratori non ignoranti, seguire ogni tanto gli artisti di casa nostra, esercitare il diritto di critica a volto scoperto.
A Parigi, nel pomeriggio, i ragazzi del conservatorio suonano nella metropolitana per raggranellare qualche soldo. Da noi, se anche volessero e si inventassero una metropolitana, non troverebbero spazio tra mercatini improvvisati e bancarelle di abusivi.
Insomma Parigi val bene una messa, Palermo probabilmente no.

Quando Dio si diverte

Non frequento le chiese, ancor meno le messe. Eppure ieri mi è capitato di assistere alla messa cantata nella cattedrale di Notre-Dame a Parigi. Le voci del coro e la potenza dell’organo a canne mi hanno regalato un’emozione nuova, quella che ha a che fare con l’arte e contemporaneamente con la fede. Poco dopo sono stato in visita alla chiesa di Saint Eustache, bellissima, dove all’interno c’era una grande tavola imbandita per i poveri: gente che mangiava, beveva, sorrideva, chiacchierava a due passi dall’altare.
Secondo me, in tutt’e due le occasioni, Dio si è molto divertito.

Le foto più grandi del mondo

Pare destinata a rimanere senza vincitore definitivo la competizione per la foto più grande del mondo sul web. Di mese in mese ne viene fuori sempre una nuova. Qui alcuni esempi: Londra, Dubai, Dresda, Parigi e Siviglia.

Terz’ultimo tango a Parigi

Patrizia D'Addario

Una nuova  diva di cui non si sentiva il bisogno.