L’impossibile

Molte persone hanno la fortuna di avere un luogo del cuore, un posto in cui andare, o sognare di andare, quando si cerca un’evasione, un po’ di tranquillità, il senso di qualcosa o più semplicemente se stessi. Io sono superfortunato perché ne ho diversi, di posti così. Ma uno è primo al traguardo dei miei sogni realizzati. È Monte Pellegrino, la montagna di Palermo, mica una roba esotica. Ne ho parlato spesso qui e altrove sui giornali, alla radio, ovunque ci fosse spazio per raccontare qualcosa di me e delle mie fughe. L’ho frequentata sin da ragazzino, prima con lo skateboard, poi con la moto, e ancora con l’attrezzatura da arrampicata, con la bici e ovviamente a piedi con le scarpette da running. Una volta con un amico più pazzo di me ipotizzammo di buttarci con gli sci dalla pietraia di nord-ovest, in una adolescenza di istinti forsennati: ma forse questa storia ve l’ho già raccontata o comunque ve la racconto un’altra volta

Insomma io a Monte Pellegrino ci vado spesso: per correre, per respirare un po’ di cose mie (ci sono pensieri che si affrontano solo a pieni polmoni), per abbandonarmi a due ore di fatica e musica a palla nelle orecchie, per ringraziare. Stamattina mentre scendevo da quelle curve dove si apre una vista inaudita su Mondello (è un peccato che la strada sia chiusa al traffico per problemi di frane e robe varie) mi sono fermato in un tornante. Lì ci sono un guard-rail squarciato e un nastro rosso che avverte del pericolo. È il punto in cui nel giugno scorso un’auto con due ragazzi è uscita fuori strada precipitando in un vuoto che è impressionante al solo pensarci. Mi sono seduto, fermando quel benedetto Garmin che mi ricorda feroce e inflessibile l’impegno di rispettare un tempo nella corsa, e ho immaginato l’inferno in quel posto che per me è un paradiso. Com’è possibile che il mio luogo del cuore custodisca il mistero di una tragedia così grande? Esiste un’oggettività del dolore che si insinua nella terra di una montagna come nella carne di un essere vivente? Come può l’infinitamente bello sconfinare così facilmente nell’urlo muto della morte. Questo non è l’Himalaya o il Nanga Parbat che nella loro bellezza disperata racchiudono, come un cristallo di allucinogeno, il segreto sommo di un inizio che può essere fine. Questo è Monte Pellegrino, la montagna che guardo ogni mattina da casa con la tazzina del caffè in mano e lo smartphone a distanza di sicurezza. È il conforto dei ricordi e l’eccitazione di una corsa a perdifiato mentre il sole tramonta e la città, sotto, macina impegni che in quel momento non ti riguardano.

Com’è possibile che la morte di quei due quei ragazzi ora la traduco come un tradimento della mia montagna?

Non trovo risposta o forse non c’è.

So soltanto che al nostro posto del cuore chiediamo l’impossibile, perché se ci accontentassimo del possibile non saremmo lì.

La banda delle spalle lussate

Mi sono lussato una spalla, porto un tutore scomodissimo, vado in giro con una manica del maglione penzolante con conseguente effetto “tre braccia” che fa molto maniaco sessuale, e ho l’umore talmente nero che al confronto un corteo funebre è un’adunata di mattacchioni. Il tutto in un periodo di bug tecnologici che rimandano più al rito voodoo che alla nuvoletta di Fantozzi. Insomma, probabilmente qualcuno mi pensa ardentemente con sentimenti non proprio amorevoli.
Per questo sono rimasto spiazzato, e piacevolmente, davanti al manifestarsi spontaneo di una confraternita di perfetti sconosciuti che appena ne hanno l’occasione condividono con me l’esperienza di una spalla scassata. Dovunque vada, a fare la spesa, al lavoro, se cazzeggio sui social o se passeggio per strada, c’è quasi sempre qualcuno che mi ferma e che mi dice: “Eh, ti capisco!”. E via con la narrazione.
Non sapevo di quest’epidemia di spalle lussate, non immaginavo che un simile accidente – che è comunque una cosa risolvibile e non grave – potesse generare una spinta aggregativa e di altruismo così vigorosa.
Ci ho pensato su, per capire quale potrebbe essere il fattore scatenante. E, analizzando le frasi che mi vengono rivolte da questi caritatevoli sconosciuti, ho capito tutto.
Il dolore.
La spalla lussata provoca un dolore fortissimo, il più forte che abbia mai provato. Un dolore che però ha una specie di sortilegio in sé: scompare istantaneamente quando la testa dell’omero torna al suo posto. Un istante prima stavi per svenire (io piangevo, giuro!), un istante dopo tutto si placa. On – off. Nero – bianco. Orrore – piacere.
Ecco, andando per astratto, il senso di molte esperienze che ci accomunano è proprio questo: se il dolore affratella, il sollievo dal dolore rende complici. E più il sollievo confina col dolore, più l’incisione nella corteccia della memoria è profonda.
Insomma anche una spalla lussata può essere un’occasione per inventarci migliori (senza facili buonismi).
Se una sofferenza ci rende malvagi l’abbiamo sprecata.

Una città allo specchio

Una ragazza travolta da un’auto e uccisa. L’investitore, senza attenuanti, si dà alla fuga. Può una città riconoscersi tragicamente in una scena così? Ne scrivo qui.

L’Everest e la pesantezza dell’aria sottile

Everest

La tragedia dell’Everest, dove i 12 sherpa morti non rappresentano ancora un bilancio definitivo, mi ha colto proprio mentre sto finendo il libro di Jon Krakauer, “Aria sottile”, che narra del disastro di due spedizioni turistiche nel 1996 sulla vetta più alta del mondo.
Il libro e la cronaca trovano quindi un intreccio unico nelle mie sensazioni, le sensazioni di un appassionato di montagna e di altitudine che però è sempre rimasto prudentemente sotto i quattromila metri. Al di là delle polemiche sulle cordate studiate apposta per alpinisti dilettanti e soprattutto ricchi (una scalata costa intorno ai centomila dollari a persona e non è garantito il raggiungimento della vetta), ciò che mi ha colpito è il ruolo degli sherpa, persone abituate a vivere in condizioni estreme per preparare il percorso dei turisti e delle guide. Quel che sfugge al grande pubblico è infatti il mix di pericolosità e di affollamento che si registra sull’Everest nelle stagioni pre e post monsoniche, quando cioè è possibile trovare condizioni meteorologiche meno sfavorevoli del solito. Il nemico numero uno dello scalatore dell’Everest non è, come comunemente si crede, la roccia (intesa come parete) ma la mancanza di ossigeno. Quindi il segreto è una buona acclimatazione. Racconta Krakauer:

Il piano di rapida acclimatazione seguito (…) dalla maggior parte dei moderni scalatori dell’Everest è notevolmente efficiente, poiché consente di affrontare la vetta dopo avere trascorso il periodo relativamente breve di quattro settimane al di sopra dei 5000 metri, con un unico pernottamento di acclimatazione a 7300 metri. Tuttavia questa strategia si basa sul presupposto che al di sopra dei 7300 metri tutti avranno una riserva inesauribile di bombole di ossigeno; se questo non avviene, le premesse non valgono più.

E chi le porta le bombole di ossigeno? Gli sherpa. Che montano anche le tende e, soprattutto, preparano corde e scalette per consentire ai turisti di superare i punti più complicati. Solo che anche loro si affaticano e rischiano l’edema polmonare o cerebrale, immane minaccia invisibile dell’alta quota. La tragedia di ieri sull’Everest è quindi un catastrofico incidente sul lavoro che – purtroppo o, a seconda dei punti di vista, per fortuna – nulla ha a che fare con la forza di attrazione di quegli 8848 metri, che rappresentano per ogni alpinista un sogno, la missione delle missioni, il punto più vicino a Dio.

Quel che resta di un incidente

di Liana Mistretta

Qualche migliaio di euro di danni alla mia auto, per essere precisi 4.387, OK pagherà tutto l’assicurazione, avevo pienamente ragione.
Una vertebra del collo rotta, OK guarirò in un mesetto, anche per questo danno verrò risarcita.
Progetti di lavoro e personali andati a monte, pazienza, penso che poteva andarmi peggio.
Ma la rabbia per quel che mi è successo 2 giorni fa sulla Flaminia, dove ho avuto l’incidente, non so se mi passerà facilmente. Continua a leggere Quel che resta di un incidente

Di prostitute e sicurezza stradale

Palermo ha un bellissimo parco (la Favorita), in abbandono naturalmente. Qualche mese fa ho scritto un articolo su la Repubblica in cui sommessamente lanciavo un allarme per l’invasione di campo delle prostitute. E la mia non era una questione di etica o di morale, ma di sicurezza stradale.
Ieri notte purtroppo i fatti mi hanno dato ragione. E’ molto seccante scriverlo, ma è così. Pardon.

Cedimenti

I corpi dei tre uomini sono stati recuperati dai soccorritori del Centro Cadore e dall’equipaggio del Suem. A causare l’incidente, si pensa sia stato un cedimento della sosta del secondo-terzo tiro, che li ha fatti precipitare per un centinaio di metri.

Chi, come il sottoscritto, ha praticato l’arrampicata non rimane insensibile a notizie del genere. Il cedimento di una sosta è il crollo di una certezza arbitraria, è lo sfaldarsi di un immenso punto interrogativo che si vuole ignorare. La sosta è il punto stabile (più o meno) a cui ci si aggrappa durante un’ascensione. Troppe volte ho guardato quella catena abbarbicata alla roccia sperando che non cedesse, e altrettante (per mia fortuna) l’ho ringraziata.
La sosta che cede è per uno scalatore  – alpinista o freeclimber che sia – l’incidente al quale si pensa ogni notte prima di un’arrampicata. Che sia fatta di chiodi, di spit o di semplici nodi non importa: quando ti affidi alla sosta ti senti leggero, anzi lo sei per necessità.
Infatti quando con gli anni ho preso un paio di chili, per sicurezza, ho smesso di arrampicare.
Ognuno si crea gli alibi che vuole, anche da incolpevole.

#pocoinclinealperdono?

Alcuni perfidi amici hanno coniato per me l’hashtag #pocoinclinealperdono a causa di alcune presunte spigolosità del mio carattere. A loro ho pensato, ieri, dopo che in bici ho rischiato di essere travolto da un’auto, il cui conducente mi aveva tagliato la strada mentre era impegnato in una conversazione telefonica.
L’impatto è stato evitato per qualche centimetro (alla faccia di chi dice che nella vita i centimetri non contano) e la vera sorpresa non è stata trovarmi ancora in sella sano e salvo, ma dover consolare l’aspirante investitore. Il quale, scusandosi e scusandosi ancora, ha avuto un mezzo collasso per l’emozione di non avermi ucciso.
Scena finale: io in tenuta da biker, sudato e stanco, ho passato la mia borraccia al tizio in camicia e cravatta accasciato sul sedile della sua auto con aria condizionata.
Ommm.

Volgarità a ruota… Libero

Quando un giornale fa un sondaggio del genere persino lo stracotto Celentano risulta insipido. Eppure non c’è nessun appello da fare contro quelli di Libero. Semmai c’è da affidarsi alla buona creanza dei suoi lettori. Che possono decidere se spegnere o meno una voce così volgare.

Una curva che conosco bene


Alcune considerazioni sull’incidente di Mondello.
Il luogo della tragedia è una zona che conosco bene, ci passo da anni a piedi, di corsa, quasi ogni mattina. E’ una curva alla quale è impossibile arrivare in velocità senza un’intenzione. Cioè, un mezzo senza controllo, coi freni rotti, si schianta prima, alla fine della lunga discesa che sta a monte della rotonda teatro dell’incidente.
Quella curva invece si abborda con volontarietà. Se, come la stragrande maggioranza delle persone, sei un tipo normale scali di marcia e giri a sinistra a 15, 20 all’ora. Se sei uno squilibrato schiacci l’acceleratore e ti affidi al Padreterno.
Per quel che ho capito, ieri l’autista della motrice è arrivato a velocità sostenuta e ha tentato la curva a effetto. La mia sensazione è corroborata da un elemento che reputo fondamentale: una motrice senza rimorchio è una bomba di cavalli vapore, ne ho viste sgommare diverse per la città, forti di un rapporto peso-potenza assolutamente squilibrato.
Spero di sbagliare, o forse no, ma il criminale che ieri era alla guida di quel mezzo ha tentato la sgommata in quella che, in soldoni, è una chicane (prima semicurva a destra, seconda curva a sinistra) e gli ha detto male. Anzi ha detto male alla povera signora che stava lì, in riva al mare a godersi un tranquillo pomeriggio di autunno insieme ai suoi nipotini.
Che la legge sia implacabile col colpevole.

P.S.
Conosco Giuseppina, la figlia della vittima. Un pensiero affettuoso va a lei e alla sua famiglia.