Toh, un Papa che respira

Nella smania di trovare nuovi aneddoti sul Papa Francesco i giornali, tra poco, titoleranno sul numero di respiri al minuto del Pontefice. Per poi scoprire che, udite udite, è umano anche dal punto di vista biologico.

 

Buon lavoro, Enrico

Il nuovo capo della redazione palermitana di Repubblica è Enrico Del Mercato ed è un giornalista che conosco abbastanza bene. Ne scrivo, brevemente, solo per testimoniare che non poteva esserci scelta più adeguata, anche simbolicamente.
Enrico è uno di quei palermitani d’adozione che sanno di Palermo più di chi in questa città c’è (magari inutilmente) nato.
Curioso e appassionato, è un cronista che non conosce partiti presi. Nel suo spiccato senso dell’ironia c’è sempre spazio per l’autocritica: è una di quelle poche persone coscienti del disvalore dell’infallibilità.
Una sera d’estate di molti anni fa, ci trovammo ospiti di un importante imprenditore vinicolo e la discussione virò improvvisamente sulla politica e sulla classe imprenditoriale siciliana. Lui ravvisò gli estremi di una imperdibile polemica post-prandiale (noialtri invece eravamo svaccati e vacanzieri) e si imbarcò in una filippica che lo portò a criticare aspramente il padrone di casa e i suoi amici. A fine serata, quando rimanemmo soli, ridemmo a crepapelle per l’invettiva di inaudita passione. Lo prendemmo anche in giro dicendo che quell’imprenditore, che faceva un buon vino, non ci avrebbe mai più invitato a casa sua.
Sbagliavamo.
Poco tempo dopo ci arrivarono delle bottiglie a casa con un biglietto di ringraziamento.
Ecco, questo minimo episodio spiega come la guida di Enrico Del Mercato non potrà che fare bene a una redazione come quella di Repubblica Palermo.
Testa alta, divieto di pregiudizio, guizzo polemico e passione al cubo.
Buon lavoro, Enrico.

Il pesce salterà fuori dal barile?

Ci sono verità scomode persino da pensare quando si parla di crisi, di lavoro e redditività. Una di queste riguarda il sottile confine tra la congiuntura economica e la competenza professionale e rimanda alla domanda che molti di noi si pongono quando si trovano di fronte a situazioni occupazionali difficili o a prospettive societarie cupe: è colpa solo del mercato o anche di chi amministra la baracca?
In altre parole, il disastro di molte aziende è interamente da attribuire a cause esogene o c’è una responsabilità interna?
Per mia minima esperienza non ho esitazioni. Dietro molti fallimenti attuali – intesi in senso lato, e non esclusivamente giuridico – ci sono scarsa professionalità, menefreghismo, pochezza intellettuale. Poi c’è la crisi, certo. Ma quella fa parte di un altro sistema di rischio, meno masochista.
Punto e a capo. Continua a leggere Il pesce salterà fuori dal barile?

La storia di Armando

Ieri è morto a Palermo Armando Vaccarella, un anziano giornalista che è stato punto di riferimento per un paio di generazioni di giornalisti. Sul web ci siamo ritrovati in molti a ricordarlo, colleghi, ex compagni di scrivania, amici, ex amici. E il bello è che almeno per una volta abbiamo raccontato tutti la stessa storia. Quella reale, di Armando, l’uomo che ci forgiò col suo rigore scanzonato.

Una notizia appena giunta…

Ora tutti addosso al giornalista Giampiero Amandola, il collega che ha detto in un servizio del tgr Piemonte: “I napoletani li riconosci dalla puzza”. Ed è facile massacrarlo perché nulla è più semplice che sparare su un bersaglio bene in vista. Questo Amandola è, incontrovertibilmente, di un’imbecillità professionale da record e, a parte uno sciagurato comunicato del cdr che cita la fretta come concausa dell’incidente (fretta di che? di montare un servizio di cazzate da prepartita?), impersona il totem dell’informazione pubblica in Italia: sciatta, senza controllo, data in mano a chi non ha i meriti. Perché, diciamolo, il suo non è un incidente di percorso, ma la prova evidente di un’imperizia da licenziamento.
Nel panorama dell’editoria italiana, alle prese con tagli spaventosi, la Rai è un eden. Chi vuole, lavora. Chi non vuole, sta da parte: c’è sempre una ricollocazione ad hoc. Chi non lecca, non cresce: infatti i migliori sono tutti messi da parte. Chi lecca, gode: infatti i peggiori sono sempre in video e sempre sorridenti. Basta accendere un qualsiasi tgr (di Tg1, Tg2 eccetera sappiamo fin troppo, lì siamo nell’Olimpo delle minchiate) per prendere le misure di un mondo irreale.
Quando lavoravo al giornale, coi miei colleghi ci divertivamo a misurare l’aderenza all’attualità del tgr del pomeriggio. Spesso nei titoli mancava la notizia principale che nel corso dell’edizione il conduttore introduceva immancabilmente così: “Una notizia appena giunta in redazione…”. Bastava dare un’occhiata alle agenzie e guardare l’orario: era almeno di un paio di ore prima.

Verissimo, anzi falsissimo

Sabato pomeriggio in un programma di Canale 5 che, ironia della sorte, si chiama Verissimo è andata in onda la finta intervista a Lele Mora. L’ex agente delle dive, bancarottiere reo confesso con sentenza di condanna passata in giudicato e soprattutto coinvolto nello scandalo Ruby, è stato presentato come un uomo dimesso che sì ha fatto qualche marachella ma che è nei guai solo per l’invidia di qualcuno.
Se non ci fossero di mezzo giornalisti professionisti pagati per imbastire queste scenette da avanspettacolo (anche se l’avanspettacolo è una cosa seria) ci sarebbe da alzare le spalle e rifugiarsi dietro l’amara constatazione che sempre della televisione di Berlusconi si tratta. Se la conduttrice di Verissimo, Silvia Toffanin, non fosse la nuora di Berlusconi ci sarebbe da stupirsi. Se Lele Mora non fosse indagato per favoreggiamento della prostituzione insieme con Berlusconi ci sarebbe da rimanere allibiti. E se nella scheda introduttiva e nell’intera intervista (a parte un lieve accenno della costernata Toffanin) non si fosse mai fatto cenno al processo che si svolge a Milano sulla vicenda della “nipote di Mubarak” ci sarebbe da urlare.
Invece è così. Naturalmente così. E non c’è da stupirsi se nessuno si stupisce più. I telespettatori si sorbiscono la pantomima del pover’uomo dimagrito e piegato da una giustizia cattiva. L’ordine dei giornalisti non batte ciglio davanti alla spudorata messinscena di Silvia Toffanin. I giornali preferiscono occuparsi d’altro, delle ragadi politiche di Bersani o della ruga di espressione di Renzi.
Tutti incantati davanti a quell’ometto che in tv, parafrasando Corona, sussurra:”Una volta non perdonavo, ora perdono tutti”. E che ha deciso di non farsi più chiamare Lele, ma Gabriele.
Come l’arcangelo.

P.S.
L’altra ospite del programma era Barbara D’Urso, teste della difesa di Silvio Berlusconi al processo Ruby.

Le notizie che piacciono

C’è un aspetto molto interessante, e poco approfondito, nell’ormai certo passaggio dalla carta al web di alcuni giornali. Riguarda il termometro delle notizie.
Chi ha lavorato o lavora nei giornali sa bene quanto eterea sia stata nei decenni la misurazione del gradimento degli argomenti. A me capitava di sentire dire a un direttore: “Questo piace… questo invece no”. “E chi lo dice?”, chiedevo. “Me lo dicono le persone che incontro al bar”, era la risposta (con alcune varianti: “Che incontro per strada, all’edicola, dal mio amico gommista, al ristorante…”).
Erano chiaramente dati privi di qualunque fondamento statistico in un periodo in cui era esclusivamente la cronaca, soprattutto la nera e la giudiziaria, a spostare copie: un omicidio valeva un tot, una sentenza o una retata un altro tot, e così via. Questa era la sola certezza, il resto erano balle.
Le notizie oggetto di misterioso e presunto gradimento assomigliavano a scommesse o, peggio, a esercizi di sterile presunzione. I direttori dell’epoca si muovevano prevalentemente nel campo delle sensazioni, non tutti con la consapevolezza di camminare su un terreno minato. Infatti sappiamo com’è andata a finire: chi tra loro ha saputo innamorarsi meno delle proprie convinzioni ha raggiunto risultati migliori degli altri.
Con il passaggio al web, e la conseguente dismissione della carta, il sentimento delle notizie non varrà più nulla. E’ questa la rivoluzione per le redazioni. I dati di lettura, di tempo di permanenza su un testo danno – e non da oggi –  precise indicazioni su ciò che piace e ciò che non piace: qualunque blogger, anche il penultimo arrivato, lo sa bene. Le edizioni dei giornali online, al di là degli aspetti di praticità di cui abbiamo più volte parlato, contribuiranno alla caduta di molti alibi: se le scelte di impaginazione, di titolazione, di scrittura saranno quelle giuste lo si capirà subito. Senza attendere che il direttore torni dal bar o da una visita all’amico gommista.

Contenti loro

Il meccanismo è tanto semplice quanto perverso. Un politico legge il giornale, magari si incazza e scrive la sua su Twitter. Al giornale, se sono svegli (non nel senso di attenti, ma proprio se sono in stato di veglia) raccolgono la battuta e la pubblicano l’indomani innescando una nuova tornata di reazioni che attraverseranno il web per approdare con enorme ritardo alla carta stampata.
Il risultato è duplice. Da un lato il politico, le cui dichiarazioni non sono più filtrate da un addetto stampa, sarà sempre più esposto al rischio corbelleria, dall’altro il giornale pubblicherà notizie sempre più vecchie.
Il fenomeno non è nuovo, ma quasi tutti si sono messi d’impegno per ignorarlo. Contenti loro.

Pluralismo dell’informazione

Ci sono giornali

Ci sono giornali che, come ha fatto il Giornale di Sicilia un paio di giorni fa, annunciano tardivamente una svolta moderna, telematica, supergiovane.
Il succo del discorso è questo: siccome c’è la crisi e non ci possiamo fare niente, siccome c’è internet e non ci possiamo fare niente, siccome siamo comunque bravi anche se perdiamo milioni di copie e non ci possiamo fare niente, noi che siamo moderni, telematici e supergiovani vi regaliamo un giornale sempre “più nuovo”.
E in cosa consiste la novità? Continua a leggere Ci sono giornali