Soli

Uno dei temi più interessanti portati a galla dall’emergenza Coronavirus è quello della relazione con se stessi. Relazione fisica e sociale. Ho sempre coltivato con cura la mia indole di solista e ho praticato la solitudine come esercizio gioioso, anche quando non sono stato solo fisicamente o quando non lo sono stato volontariamente al cento per cento. Si può essere soli e felici anche in compagnia.

Sapete meglio di me che la solitudine e il desiderio di intimità sono condizioni molto diverse dall’isolamento giacché mentre la prima e il secondo possono irrorare serenità, l’isolamento può indurre turbamento, metterci in allarme. Un meccanismo che, secondo il libro “Together: The Healing Power of Human Connection in a Sometimes Lonely World” (di cui ho letto su “Internazionale”) abbiamo ereditato dai nostri antenati, per i quali l’essere soli poteva rappresentare un pericolo.

Secondo la storica Fay Bound Alberti il sentirsi distanti dagli altri non è un fenomeno così facile da definire come “universale”: sia perché nasce appunto con la trasformazione sociale dell’Ottocento, sia perché varia – contando anche sfumature che non sono esclusivamente negative – a seconda della classe sociale, del genere, dell’etnia.

Fino a poco più di un secolo fa, appena il 5 per cento della popolazione viveva da solo. In questo bell’affresco del New Yorker c’è la storia della solitudine dalle intuizioni di Darwin alle catene del Coronavirus: la norma erano famiglie numerose che abitavano in spazi più o meno ampi, a seconda delle possibilità. Negli Stati Uniti oggi un cittadino su quattro vive da solo. Secondo l’Istat in Italia, nel 2019, un terzo delle famiglie sono composte da una sola persona.

Il distanziamento sociale di questi ultimi mesi andrà pesato per le ripercussioni storiche, più che per l’emergenza mascherine e per le code ai supermercati. Alle svolte antropologiche non ci si prepara, ovviamente, anche perché generalmente le registrano le generazioni a venire. Però non farsi cogliere alle spalle è un bel modo di sopravvivere. Gioiosamente in intimità con noi stessi o con le eccezioni che ci lasciano essere noi stessi senza dover chiedere permesso.

La finestra e un film super 8

L’articolo pubblicato su la Repubblica Palermo.

Volevamo esplorare il mondo, siamo finiti a sbirciarlo dal chiuso delle nostre case. Noi e tutto il resto, separati da una finestra che non è metafora di nulla – manco a sforzarsi, da Alfred Hitchcock a Tano Festa da Henri Matisse a Joseph Conrad – ma solo netto, non ingiusto confine.

La mia finestra è ampia e racconta una storia stretta e lunga, come il budello che si faceva stradina tra le case popolari di un quartiere figlio del Sacco di Palermo e che oggi ha l’ardire di dirsi zona residenziale. Resuttana – San Lorenzo fu una distesa di agrumeti e di cemento abusivo fino a  quando, col salvacondotto dei Mondiali del ’90, gli agrumeti diventarono abusivi e il cemento diventò distesa. Oggi la mia finestra è inutilmente luminosa, quasi che il sole rimbalzi e si amplifichi sui palazzoni che stanno attorno, quasi che la meteorologia burlona ci possa riscattare dalla nostra ansia motoria, giri e giri per casa, giorni feriali in salotto e weekend in cucina (o viceversa, dipende dalle pulsioni e dalle ispirazioni a cui decidiamo di cedere) in un “cricetismo” che è una beffarda metafora di ciò che abbiamo (de)costruito: siamo ciò che percorriamo.

Quel che vedo fuori stride con quel che vedo dentro. Io ci sono cresciuto in questo quartiere, ma adesso è come se mi ci avessero paracadutato da un cielo che non è spazio, ma tempo. È come se mi mancasse un pezzo di realtà, di racconto.

Per cercare di risolvere questo arcano di sensazioni monche mi sono lasciato trasportare da una bellissima serie televisiva, The Man in the High Castle”, tratta da un romanzo ad alta gradazione distopica di Philip K. Dick, che racconta di un mondo alla rovescia: un mondo dove però c’è una pellicola cinematografica clandestina che raddrizza la storia e la porge al lettore/spettatore come dovrebbe essere, coi crismi di una realtà non farneticante.

Anche io ho un film clandestino. Una bobina che sulla celluloide di un super 8 vetusto incolonna i pezzi mancanti. Da ragazzini io e il mio amico Gianni, che viveva nell’appartamento sullo stesso mio pianerottolo, avevamo il vizio di sognare insieme a mezzo cinepresa. Con una vecchia Kodak abbiamo girato ore e ore di materiale pressoché inutile, ergo fondamentale per noi: appassionati di film horror mettevamo su, set improbabili coinvolgendo fratelli, sorelle e altri amici del palazzo, che finivano puntualmente ammazzati con gran dispendio di salsa di pomodoro e di rossetti trafugati alle nostre mamme. E poi c’era la nostra finestra. Da lì giocavamo a spiare l’umanità, immaginando di poter essere testimoni di chissà quale crimine, di filmare tutto e diventare famosi. L’umanità ci fece attendere un po’ e qualche anno dopo, sotto casa nostra, spararono a un meccanico. Ma per fortuna noi eravamo cresciuti e avevamo abbandonato la cinepresa per dedicarci ad attività più socializzanti, come andare al cinema con le ragazzine o impennare col Vespino. Un giorno ancora più avanti nel tempo, dalla stessa finestra, con la serranda socchiusa, sentii un rumore sconosciuto, come di dieci saracinesche che cadevano giù violentemente. Avrei avuto tempo di imparare rapidamente che quel rumore orribile proveniva dai kalashnikov che avevano massacrato il commissario Ninni Cassarà e l’agente di scorta Roberto Antiochia. 

Riavvolgendo la pellicola mi accorgo che il panorama di oggi è cambiato non tanto per il cemento e per il fatto che Monte Pellegrino non si vede quasi più (un tempo, quando ero un freeclimber, mia madre mi osservava col binocolo mentre ero in parete per sapere se ero vivo e per capire quando sarei sceso, in modo da poter calare la pasta in tempo). Manca un tassello fondamentale della socialità di noi ragazzi dell’epoca: il calcio per strada. Quello che oggi è un marciapiede mediamente sconnesso, nella mia memoria in formato super 8 era uno slargo in cui auto e ragazzini si contendevano senza spargimenti di sangue una fetta di spazio. Si giocava al pallone dove era possibile, bastavano un Super Santos e quattro maglioni da ammonticchiare per fare le porte. Mai nessuno di noi è stato investito, mai nessun pallone è sopravvissuto: la partita terminava quasi sempre perché il Super Santos si bucava, o veniva tagliato, o finiva nel balcone di qualcuno. Ma questa è la parte della storia che si diluisce nella leggenda.

Oggi dalla mia finestra vedo spazi inusitati per un quartiere come Resuttana – San Lorenzo, ma è un deserto artificiale circondato da una popolazione che, come uccelli appollaiati sui cavi della luce, aspetta dall’alto dei balconi. Aspetta un fischio di inizio o di fine, a seconda dei punti di vista. O un pallone che nessuno calcerà più.   

Il gigante addormentato

Il gigante dorme in una penombra e in un silenzio irreali. Stamattina sono rientrato in teatro dopo interminabili settimane di lontananza forzata, un po’ come gli amanti di Battisti, quelli di “cerca di evitare tutti i posti che frequento e che conosci anche tu”. Ma la mia, anzi la nostra, non è una storia d’amore finita, bensì un doloroso distacco imposto da un nemico invisibile. Quindi è sofferenza cruda, senza manco la consolazione del tempo o della sfida a singolar tenzone.

Immagino il disagio, quasi una crisi di astinenza, degli artisti che vivono sul e per il palcoscenico. Io, che artista non sono, quando mi sono ritrovato al cospetto del gigante addormentato ero tentato di gridare, applaudire da solo al centro della Sala Grande: volevo essere tutti gli occhi e tutte le mani del mondo per restituire ammirazione e applausi a quel luogo di gioia imbavagliata. Perché un teatro chiuso è rapina di tempo e bellezza, è un pizzo pagato all’odio del mondo che è fatto non solo di miserie umane ma anche di orribili e per nulla ammalianti vendette della natura.

Ci sono cose che ci mancano a tradimento, come certi amori che diventano solidi quando evaporano. A me è capitato con stanze secondarie del teatro, luoghi seminascosti dove scorre una vita anonima ma non meno importante delle altre: locali tecnici, la impervia regia televisiva, una sala prove caldissima d’estate e fredda d’inverno. E poi i corridoi, i palchi di proscenio, quelli dai quali uno spettacolo gli addetti ai lavori lo assorbono, godendoselo come una cosa propria: il fruscio delle vesti di un cantante, il soffio delle pagine di uno spartito, il respiro di un danzatore. Noi non-artisti di un teatro siamo morti mille volte in gloria sul palcoscenico, abbiamo suonato mille strumenti da solisti, siamo risorti tra gli applausi, abbiamo ucciso felicemente, abbiamo dichiarato guerre e siglato paci familiari con lo stesso effetto scenico, abbiamo saltato e piroettato leggiadri nelle nostre panze, abbiamo concesso bis tra i sorrisi e abbandonato le assi tra le lacrime. Noi non-artisti siamo il riverbero del soffio vitale di un teatro. Siamo Gianni Rivera e Marco Tardelli ai Mondiali. Siamo l’ingranaggio che sogna da motore. E che gode nel sentire un rombo che, per una piccola parte, è anche suo.

A tutto questo pensavo stamattina quando tutto era fermo, terribilmente fermo, intorno a me. Se volete sentire il vero rumore del silenzio, per mia esperienza, ci sono solo due luoghi in cui perdersi con cautela: le viscere di una montagna e l’interno di un teatro chiuso.

Dovremo ricominciare da qui, per raccontare questi tempi di prigionia democratica, di privazioni feconde, di assenza forte e presente. Dal non sentirci traditi dalle cose che si allontanano da noi, perché non è vero che l’anima ce l’abbiamo solo noi. L’anima è nel silenzio e nel buio di luoghi fatti per scacciare i mostri del silenzio e del buio. L’anima è nell’aria che attraversa gli spazi che ci dividono e che ci eravamo dimenticati di accorciare, quando tutto era più facile.

Il gigante si sveglierà. È sempre stato così, non sono bastate guerre e mafia, sciatteria e malamministrazione a spegnerlo. Solo che stavolta il risveglio sarà più lento e ci vorrà più cura per lasciarci accogliere tra le sue braccia.      

Coronavirus e frittate

Controindicazioni striscianti. Urticanti, fastidiose. Difficili, anzi impossibili da evitare. L’emergenza Coronavirus rafforza in maniera estrema il controllo poliziesco. Se ne discute nel mondo a tutte le latitudini politiche. Il sociologo francese Geoffroy de Lagasnerie ha parlato di una “sottomissione nazionalista”, e c’è andato leggero. Ma, a mio parere, non è tanto la famosa “deriva autoritaria” che dobbiamo temere, poiché in questo caso il sentimento di sottomissione è volontario per la maggior parte dei cittadini, in vista di un obiettivo comune. Una delle conseguenze di questo attutimento dei diritti per causa maggiore è la perdita di smalto delle coscienze critiche. Ci si affievolisce di proposito per smussare gli spigoli in un periodo in cui gli spigoli non hanno diritto di dividere, confinare, ci si attenua nel nome di un interesse nazionale. Ci si autocensura forse, anzi peggio: poiché nella censura c’è sempre una spinta ostinata e contraria che cova. Invece qui si obbedisce e basta, com’è tristemente giusto che sia. Del resto esercitare fiducia nel prossimo è una di quelle cose facilissime da far male, come la frittata e il sesso a tre. Il rafforzamento dei poteri di polizia, le intrusioni psicologicamente violente nelle nostre abitudini più personali, la perdita della cognizione di popolo come terapia di gruppo contro quello che un tempo era il male del secolo, l’incomunicabilità, (ma quale tempo e quale secolo…) sono controindicazioni obbligate, effetti collaterali di una chemioterapia sociale alla quale si crede per fede. E sulla quale non ci si interroga.

Quando tutto sarà finito, tutto comincerà. E dovremo essere pronti a disinfettare le ferite da sottomissione volontaria.      

(non) siamo solo noi

In realtà di questi tempi non si fa quel che si può, ma si fa quel che si vuole. Perché in una situazione di emergenza l’alibi è sempre più a portata di mano. Quindi siamo quello che vogliamo essere, nulla di più e nulla di meno.
Ecco perché è bene parlare in prima persona, siamo una comunità di isole senza traghetto e senza ponti.  
Qui ho scelto di vestire i miei modesti panni e di confrontarmi con Marco Betta, un amico sensibile e un artista raffinato. Ne è scaturito questo dialogo in cui parliamo del buio della paura e della luce dell’arte, del passato che abbiamo scampato e del futuro che stiamo inseguendo. E poi di Palermo, della mafia, di un luogo meraviglioso come il Teatro Massimo, e delle contraddizioni di una città che si vanta persino di essere irredimibile e che deve faticare per sopravvivere a se stessa.
Fate voi.  

Coronavino

Faccio parte della generazione cresciuta con la pubblicità del “brandy che crea l’atmosfera” e che si domanda ancora com’è che con la Vecchia Romagna Etichetta Nera (che oltre a creare l’atmosfera consumava il fegato) finivi sulla vetrina di Carosello e con un grammo di marijuana finivi in commissariato. Siamo figli di molti errori, a partire da una mela, un albero e un serpente, roba che poteva essere l’incipit di una barzelletta e invece diventò il principio dell’umanità o giù di lì.

Ora, in questo mondo in cui per concederti due passi sotto casa devi avere un cane o un figlioletto perché senza sei un pericoloso criminale (più che se li avessi e li picchiassi), si scopre che il vino non è un bene necessario.

In vita mia ho sempre diffidato degli astemi militanti, cioè quelli che non si limitano a stare lontano dagli alcolici ma professano orgogliosi i motivi della loro scelta pretendendo di fare proseliti. Ciò significa che ognuno ha i suoi difetti, e il non bere vino è per me questione pregiudiziale quando scelgo una persona con cui andare a cena, ma anche che la più irritante delle presunzioni è quella da eleggere come manifesto. Il vino piace o meno, ma il piacer meno non può essere né motivo di orgoglio né elemento di discriminazione a mezzo decreto.

Il vino c’era quando il migliore di noi, uno che la sapeva lunga, spartì l’ultimo pasto con il mascalzone che lo avrebbe tradito prima del dessert. C’era quando gli artisti che avrebbero preso la fantasia del mondo sulle loro spalle scelsero di intrappolare un’idea su carta, tela o marmo. C’era quando la storia si accontentò di un paio di firme per deviare il suo corso. C’era al primo appuntamento di due innamorati e all’ultimo pasto del condannato. C’era ieri che sembrava un’altra vita e c’è oggi che non vediamo ancora un’altra vita.

Vietarlo incidentalmente non considerandolo degno di un’uscita regolamentata – allineati al supermercato come pedine su una scacchiera sperando che non sbuchi un alfiere in mascherina a mangiarci – è una carognata infame come solo certi burocrati possono immaginare. È una ragione in più per difendersi dalla presunzione di chi non sa, non vuole sapere, vuole calpestare chi sa. E per scolpire nel muro dell’eternità il vecchio adagio: bevo per rendere gli altri interessanti.

Stalli e stallieri

La polemica politica, in questo momento storico, ha connotazioni da esplorare. La storia ci insegna che esistono strapiombi e strapuntini. Qui siamo al punto che chi sta sullo strapuntino vuole discettare sul destino di chi sta sullo strapiombo.

Brevemente. Piaccia o non piaccia Conte e il suo governo, chi lo critica ora con un Paese alle prese con la più grave crisi della sua storia, immagina una svolta politica a breve? Tipo elezioni? Sapete quanto costa una tornata elettorale? Forse no, ma sapete di certo che è inutile immaginare una tornata elettorale con le prescrizioni sanitarie attuali. Quindi, fuffa a parte, siamo nell’iperuranio della sensibilità politica. In guerra non si perde tempo con beghe di quartiere, non ci si trastulla con le menate, ci si schiera nel segno di un obiettivo comune. Se fossero esistiti i social network ai tempi della Seconda Guerra Mondiale probabilmente lo sbarco in Normandia sarebbe fallito per colpa del coglionazzo telefonomunito di turno e saremmo tutti in un mondo tipo quello di The Man in the High Castle, senza la via d’uscita dei film 8 mm (chi non capisce il senso di questa frase ha quattro giorni di tempo per allinearsi) .

La politica in questa fase ha una prova ardua da superare: rendersi credibile una volta per tutte. Materializzarsi in quello che dovrebbe essere sin dall’alba dei tempi il bene dei cittadini. Il momento drammatico nel quale ci troviamo è un banco di prova poiché mette i partiti dinanzi alla responsabilità più grande, quella di saper rinunciare agli steccati, all’interesse di orticello. Complicato per un sistema in cui, da decenni, ci sono formazioni politiche nate solo per interessi di fattorie, fattori e… stallieri.   

E poi l’Europa, il sindacato… le entità più impalpabili che esistano. Tirarle in ballo quando si parla di emergenze reali significa voler diluire le responsabilità. Ci dimentichiamo che sino a qualche mese fa il nostro precedente governo sputava in faccia all’Europa, invocava confini e divisioni, rideva e si faceva ridere dietro nello scenario internazionale. Improvvisamente, quando abbiamo le pezze al culo, ci riscopriamo europeisti. Quanto al sindacato, stasera ho visto in tv Landini che esortava il Governo “a costruire un’unità del Paese”, mentre nessuno sommessamente gli chiedeva conto del fatto che, in regime di emergenza, sono le parti sociali a dover fare un passo avanti in tal senso, non il contrario. È la storia, è il buon senso e quel che ne rimarrà.

Dopo anni di cazzate letali…

Nell’infinita fallacità delle nostre cronache dall’isolamento, fatte di gesti qualunque che d’improvviso scopriamo preziosi, di moderne ricette alle quali ci aggrappiamo come fossero scialuppe, ci sono segni che ritroviamo come orme nella sabbia. Ed è sempre la memoria a venirci in soccorso giacché persino il presente più imprevisto è figlio di un passato ben noto.

Apri e chiudi: i confini, il rubinetto della diffidenza, quello della speranza. Ci siamo sommersi nella merda di chi predicava frontiere chiuse, diffidenza nei confronti dello straniero, autonomia economica, monopolio della civiltà. Ci siamo ridotti a chiedere aiuto a chi avevamo sputato istituzionalmente in faccia, a elemosinare una mascherina a quelli che prendevamo per il culo, a chiedere aiuto in casa nostra a quelli che – noi, bugiardi patentati – ci ostinavamo a voler aiutare a casa loro.

È la nemesi di un potere perduto, di una generazione di incolti. È la degna sepoltura di una indegna classe di italiani che ha confuso l’ignoranza con l’innocenza, premiando l’incompetenza e additando il valore acclarato come un privilegio da abbattere. Ne parlavamo l’altra volta, basti pensare ai no-vax che in questa crisi mondiale dovranno faticare per trovare un’uscita di sicurezza che li salvi dal linciaggio morale: anni e anni di cazzate letali di cui dovrebbero essere chiamati a rispondere davanti alla giustizia. Ma non va dimenticata un’intera classe politica di negazionisti, di supponenti della ragione, perché quando un ministro e/o un sottosegretario (cioè persone che stanno ai vertici assoluti della catena di comando) insinuano il sospetto che l’uomo non sia mai sbarcato sulla Luna dovrebbe scattare l’obbligo di camicia di forza: chi regge le sorti di un Paese non può disorientare, gettare sabbia negli occhi della popolazione quando si occupa lo scranno più alto è qualcosa di simile all’alto tradimento.

Apri e chiudi. Alla fine abbiamo capito con una morale feroce che il grande nemico non veniva dal mare con i barconi dei disperati, ma da un jet con volo intercontinentale e parlava italiano, anzi lombardo. Se davvero c’era qualcosa da chiudere, era la bocca della “rana dalla bocca larga”. Se c’era qualcosa da aprire era la nostra mente, e che cazzo.

Nell’infinita fallacità delle nostre cronache dall’isolamento c’è poco da raccontare, a parte cibo, adipe, serie tv, intrattenimenti vari, multichat e nuovi onanismi. C’è però molto su cui riflettere sugli errori che non dovremo mai più commettere, sulle persone di cui non dovremo mai più fidarci, sulle scorciatoie che mai più prenderemo.

Impariamo a essere intolleranti.
Il “sì però” ci ha portati a questo punto.
Ora proviamo a praticare il “mai e poi mai”.  

E sono cazzi

Mettiamola così: l’isolamento forzato è un’occasione imperdibile per capire di cosa e di chi avremmo potuto fare a meno da secoli. Del resto l’evoluzione ci insegna che i pesci meritano di essere catturati perché sono pigri: due milioni di anni e ancora non si sono decisi a uscire dall’acqua. Parola di vegetariano, eh.

Ecco, forse c’è un motivo per cui noi non ci siamo decisi a uscire dalla nostra bolla per capire di essere pesci parlanti.

Non so cosa resterà di questi mesi tremendi. So di certo che non resteranno le sensazioni di fragilità e di smarrimento che pure ci farebbero bene, perché il nostro difetto di specie è la memoria corta. Noi – sempre e sempre – finiamo per giustificare l’assassino dell’altroieri, per votare il ladro che ci ha affamati, per frequentare il mascalzone del villaggio che ha il solo vantaggio di essere simpatico, per affermare senza vergogna che si stava meglio quando si stava peggio. Ecco – una mia ossessione quasi letteraria – il nostro problema generazionale, anzi epocale, è la memoria irrimediabilmente corta.

Non si spiegherebbero altrimenti i ritorni di fiamma nei confronti di parti politiche che hanno azzannato questo Paese in tempi di pace e che lo hanno guidato verso la griglia rovente in tempi di guerra. Non si spiegherebbe l’orgoglio di ignoranza con cui si gestiscono battaglie insensate come quella contro i vaccini obbligatori che, negli anni scorsi, ci hanno costretti a dilapidare il nostro tempo per ribadire l’ovvietà a un esercito di scimmie manco ammaestrate.

Ammettiamolo, siamo stati folli a tollerare simili nefandezze. Lo dico da giornalista ai giornalisti. Occorreva una scelta dirompente, con un coraggio che non ci appartiene come nazione (le guerre alle nostre spalle parlano per noi, alla storia e ancor di più all’indole di un popolo che sa vincere inginocchiandosi). Bisognava saper gestire l’arma più complessa da manovrare quando si parla di sentimenti pubblici e privati: l’indifferenza.

Essere in grado di ignorare è il migliore antidoto contro le follie domestiche: in famiglia come nella casa nazionale.

Ora siamo agli arresti domiciliari e tutto è congelato. E il freezer non estingue il male, lo conserva, lo rende un po’ più eterno. E sono cazzi.   

Che sia pioggia. E arcobaleno.

L’altro giorno, scrivendo una cosa destinata all’oblio, riflettevo sul fatto che chi desidera vedere l’arcobaleno deve imparare ad amare la pioggia.

Per mestiere e per vocazione sono sempre stato gioiosamente abituato, quasi forgiato, al peggio: non certo per resistergli, ma per poterlo recensire da un angolo minimamente riparato, da un punto di osservazione elevato al punto giusto per non falsare la prospettiva e basso quanto basta per non impantanarsi, immobilizzarsi, annegare. Il meglio nei miei anni d’oro di giornalismo era spesso il peggio della cronaca. Capita a chi ha scelto il mestiere di raccontare, anche dalla cucina di un giornale (perché la cronaca non è fatta soprattutto di prime file, ma anche di braccia che impastano e teste che immaginano dove altre teste vogliono andare), capita soprattutto a chi sa che persino nel paese dei balocchi c’è un cattivo in agguato che fa di quel posto il luogo che tutti sogniamo. Siamo arcobaleno che nasce dalla pioggia.

In questi frangenti di paura epidermica, di starnuti che sembrano fucilate, di febbri da prime pagine, di anziani caduchi e di casuali untori, c’è un senso comune che va cercato, e possibilmente trovato, nelle piccole cose perdute. Che non sono la convivenza forzata con i figli che magari conoscevamo solo biologicamente o la confidenza recuperata con un libro sepolto per anni sotto le riviste sul comodino, ma sono proprio i nostri vicini di sempre: il/la collega dall’alito pesante ma, lo scopriamo solo ora, dal cuore accogliente; l’amica/o che si cura di noi oltre l’ordinarietà di un aperitivo; il parente che era foto sbiadita di un mondo in Polaroid e che si rivela nelle tre dimensioni fondamentali di un mondo in emergenza, ci sono – ci sono – ci sono.  

Grazie a un virus, e non a un mahatma, stiamo imparando che quando le ruote sono a terra il problema non è gonfiarle, ma riprendere a correre. Perché la grande crisi che potrebbe ammazzare il mondo non è energetica o nucleare, non è terroristica o ambientale. È la crisi più subdola e terrorizzante e scaturisce dalla ricchezza ingiusta, dal potere dell’ignoranza, dalla grettezza dei numeri, dalla dittatura del sentito dire.

È, ve lo confesso, la battaglia professionale più complicata che abbia mai combattuto poiché non ha schieramenti ufficiali ma solo partigiani, anarchici, truppe di volontari. È la battaglia per salvare l’entusiasmo in un mondo di fanatici.

Ecco perché oggi è importante sognare e garantire i sogni allo stesso modo dei farmaci e del cibo. Ecco perché le istituzioni culturali sono ospedali del sapere, che a loro modo salvano esistenze.

Ecco perché, come in uno Stargate, dobbiamo imparare a guardare la pioggia in modo diverso. “C’è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo”, diceva De Andrè. Ma ancora l’arcobaleno non ci mancava maledettamente tanto.