Uguale uguale

ruby

A Silvio

silvio berlusconi condannato

Silvio, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieto e pensoso, il limitare
di gioventù salivi?

Dell’Utri il furbo

Non sono per le manette a Marcello Dell’Utri, sono per una giustizia che non faccia sconti a furbi e protetti.

Mi dispiace, non siamo tutti Sallusti

Il tam tam internettiano in difesa di Alessandro Sallusti ha toccato picchi di ipocrisia e superficialità da Guinnes dei primati. Ieri ho letto migliaia di messaggi deliranti sulla vicenda del direttore del Giornale che, lo dico apertamente, non merita di finire in carcere vivendo in un paese in cui in carcere non ci stanno più neanche i corruttori e gli assassini.
Su Twitter impazzava l’hashtag #siamotuttisallusti, e bastava scorrere i commenti per avere la prova dell’effetto deleterio delle catene di Sant’Antonio: quando si diffondono parole senza senso, la ragione vaga come una barca senza timone.
La panzana più grottesca (e purtroppo più frequente) ieri era basata sull’equivalenza tra il caso Sallusti e la libertà di stampa. Caso da manuale in cui si confonde il mestolo con la minestra: operazione che non solo è da stupidi, ma che fa anche male alla salute (provate a ingoiare un mestolo e vedrete quanto ve ne frega poi della minestra).
Il problema del direttore del Giornale è quello di aver violato la legge, legge che può piacere o meno ma questo è un altro discorso. La libertà di stampa non c’entra un tubo perché il giornalista non può mai avere garanzia di impunità per ciò che scrive, per di più sbagliando. La libertà di stampa insomma non è uno scudo contro l’irresponsabilità, ma una necessità dello stato democratico, cioé qualcosa di sideralmente distante dal privilegio di casta.
Sallusti non merita il carcere per la sopra citata questione di congruità (prima in cella ci vadano e ci restino i delinquenti, poi – ma proprio poi – si penserà ai diffamatori), ma evitiamo di fare le fiaccolate per uno che con la buona informazione, quella non asservita alle esigenze del padrone, quella che non insegue gli asini che volano, non c’entra niente.
Il caso Boffo non vi dice niente?

Il giudice alla lavagna

La Cassazione ha bollato definitivamente come colpevole l’insegnante  Giuseppina Valido che fece scrivere “sono un deficiente” a un alunno che aveva dato, sprezzante, del gay a un compagno. Sulla sentenza ci sarebbe da contro-argomentare a valanga e non certo per attaccare i giudici, ma per celebrare una sempiterna affezione alla ragione. Capovolgere la realtà, cioè sancire che il colpevole è vittima e che chi ha esercitato perfettamente il controllo invece lo ha fatto male, è un gioco molto pericoloso.
Ma, come si dice, le sentenze si rispettano, eccetera. Tuttavia, lavorando di immaginazione, una cosa mi piacerebbe. Che i giudici della Cassazione scrivessero dieci volte alla lavagna la loro sentenza.

Due anni e la noia

Due anni fa scrivevamo in queste pagine della vicenda Amia e del senatore Enzo Galioto. Oggi questo signore è stato condannato per falso in bilancio e false comunicazioni sociali e se la farà franca perché come avevamo previsto, sempre due anni fa, colui il quale doveva denunciarlo come parte lesa era un suo compare di partito e, peggio ancora, era anche colui che lo aveva piazzato in quel posto chiave. Quindi niente denuncia e vai con la prescrizione.
Il dramma è che un tempo cresceva l’indignazione, oggi sale solo la noia.

A Cesare quel che è di Cesare

Quello che sta accadendo per il caso di Cesare Battisti è un tipico esempio di ubriacatura da superficialità collettiva. Che produce errori da una parte e dall’altra, col risultato di estremizzare sempre più le posizioni.
Infatti se andate a vedere chi sono i protagonisti più agguerriti dello scontro vi accorgerete che non c’è spazio per un moderato ragionamento tra i finto-giustizialisti più agguerriti e gli pseudo-intellettuali più radicali. I primi brandiscono la clava di una linea dura che riguarda tutti tranne che il loro capo (uno che le leggi se le fa fare su misura, come gli abiti). Gli altri si agitano sui sentieri del ragionamento evitando di fare i conti con le strettoie del diritto.
Quel che, mi pare, manchi è quel pizzico di logica che, come sempre, riconcilia i furori con la ragione.
Battisti ha condanne in contumacia all’ergastolo per quattro omicidi. In almeno un paio di casi – a dire degli innocentisti – c’è qualche ombra nella ricostruzione giudiziaria. Attenzione: siamo davanti a sentenze definitive, quindi vagliate da decine di giudici.
Due considerazioni.
Se anche in un caso – il delitto Torreggiani –  ci fossero dubbi sul reale coinvolgimento del condannato, rimarrebbero gli altri omicidi a giustificare la pena da scontare.
Se anche in un caso – il delitto Torreggiani o qualsiasi degli altri – si fosse verificato un errore giudiziario, bassissima (se non inesistente) sarebbe la possibilità di una ripetizione ossessiva dello stesso errore.
La tesi degli innocentisti porta, senza mai nominarla apertamente, alla congiura. A una sorta di ordine di Stato per incastrare Cesare Battisti. Tesi sconclusionata data la caratura del personaggio. Se proprio si fosse voluto prendere un capro espiatorio non si sarebbe scelto un delinquentello rapinatore conclamato. Si sarebbe puntato decisamente più in alto.
La tesi dei giustizialisti è viziata da un peccato originale: quello di un doppiopesismo ridicolo, con una legge che deve essere dura per alcuni e impalpabile per pochi altri.
In realtà – ne avevamo parlato un paio d’anni fa – ci sarebbe solo da mandare ognuno al proprio posto: Battisti in galera, perché, se anche fosse un perseguitato, di quattro omicidi ne avrebbe commesso almeno uno (e non parliamo di bruscolini); gli intellettuali (o pseudotali) fuori dall’arena; i politicanti fuori dalle scatole.
Insomma ci sarebbe da dare a Cesare quel che è di Cesare.

A ognuno il suo partito

Noi saremo pure quelli del partito dell’odio e del buio, lui ha diritto di restare nel partito dell’amore e del sole. A scacchi.

Quale virtu?

Dal capo d’imputazione nei confronti di Marcello Del’Utri, che la sentenza di ieri ha accolto.

(Marcello dell’Utri, ndr) ha concorso nelle attività dell’associazione di tipo mafioso denominata “Cosa Nostra”, nonché nel perseguimento degli scopi della stessa. Mette a disposizione dell’associazione l’influenza e il potere della sua posizione di esponente del mondo finanziario e imprenditoriale, nonché le relazioni intessute nel corso della sua attività. Partecipa in questo modo al mantenimento, al rafforzamento e all’espansione dell’associazione. Così ad esempio, partecipa personalmente a incontri con esponenti anche di vertice di Cosa Nostra, nel corso dei quali vengono discusse condotte funzionali agli interessi dell’organizzazione. Intrattiene rapporti continuativi con l’associazione per delinquere tramite numerosi esponenti di rilievo del sodalizio criminale, tra i quali Stefano Bontate, Girolamo Teresi, Ignazio Pullarà, Giovanbattista Pullarà, Vittorio Mangano, Gaetano Cinà, Giuseppe Di Napoli, Pietro Di Napoli, Raffaele Ganci, Salvatore Riina. Provvede a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione. Pone a disposizione dei suddetti esponenti di Cosa Nostra le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano. Rafforza la potenzialità criminale dell’organizzazione in quanto, tra l’altro, determina nei capi di Cosa Nostra la consapevolezza della responsabilità di Dell’Utri a porre in essere (in varie forme e modi, anche mediati) condotte volte a influenzare – a vantaggio dell’associazione – individui operanti nel mondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario. Reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo di Cosa Nostra), Milano e altre località, da epoca imprecisata sino al 28.9.1982.

Cosa c’è da festeggiare nel Pdl? Di quale virtù straparla Micciché?

La responsabilità dei singoli

La condanna di Google per violazione della privacy in merito al celebre filmato del ragazzo Down ha riaperto il dibattito sui controlli ai quali sottoporre i contenuti del Web.
Dico subito che non sono tra i sostenitori della libertà assoluta di fare e disfare quel che si vuole nella Rete (come nel mondo reale). Sono contro l’anarchia.
D’altro canto so bene che l’alternativa, al momento, sarebbe il modello cinese con filtri e censure persino a livello di router.
Però, per fare un esempio non troppo originale, credo che la condanna di Google sia assimilabile alla condanna di una fabbrica di armi per un omicidio compiuto con le pistole che portano il suo marchio.
Sono inoltre indeciso se andare a fondo della vicenda, indagando sul perché i giudici hanno preferito il reato di violazione della privacy rispetto a quello di diffamazione o di istigazione alla violenza, o se derubricare il tutto a improvvisazione giuridica. Per comodità scelgo la seconda opzione: c’è meno da spiegare e per di più oggi mi sento stanco.
Il vero problema è la responsabilità dei singoli. Argomento intoccabile in questo Paese perchè ogni volta che lo si invoca, il singolo per eccellenza (cioè il capo di tutti i singoli, veri, presunti, onorevoli e disonorevoli) grida al complotto. Eppure basterebbe fare in modo che su internet ognuno sia riconoscibile, abbia un codice a barre, una targa, per evitare certe penose rincorse legislative e certi aborti giuridici. Voglio vedere poi se qualche idiota ha ancora il coraggio di postare un video con un ragazzo Down picchiato e umiliato.
La libertà non ha nulla a che fare con l’anonimato. Le rivoluzioni, se proprio vale la pena di farle, si fanno a volto scoperto e coi propri nomi.