Prima dell’inizio c’è qualcosa che va detto. Perché prima che l’orchestra cominci a suonare, che le luci si accendano, che il palcoscenico si animi c’è un pensiero anarchico e irrefrenabile che ti prende.
Hai lavorato un anno per qualcosa che si consuma in poco tempo. Hai scoperto che il dolore ha una potenza immensa se non lo racconti, ma lasci che venga fuori da solo nella sua nuda forza educativa. Col dolore si cresce, se si resiste.
Imbastendo un’opera sul dolore e sulle sue ignote cause, col mio compagno di viaggio Salvo Palazzolo (che non finirò mai di ringraziare per la pazienza, perché ce ne vuole per stare accanto a un prepotente come me) ci siamo immersi in quelle acque gelide di ingiustizia che hanno inghiottito questo Paese per anni. Abbiamo guardato in faccia, spesso non riuscendo a mantenere lo sguardo, chi da quell’ingiustizia è stato annientato: negli affetti e nella dignità. Le stragi di Capaci e di via d’Amelio sono un buco nero nella democrazia di questo Paese, e noi abbiamo cercato di spiegare perché.
Ma ci sarà tempo per le considerazioni generali su questo tema. Qui voglio solo dare sfogo a quel pensiero, prima dell’inizio.
Per chi campa di scrittura da anni e anni, arrivare sul palcoscenico di un teatro come il Teatro Massimo è motivo di commosso orgoglio. Più volte in questi giorni mi sono ritrovato con gli occhi lucidi mentre la storia de “Le parole rubate” riempiva l’aria della Sala Grande. Perché siamo così noi che inseguiamo tutta la vita il rigo perfetto, la firma in testa, il concetto universale: ci vestiamo di parole senza accorgerci che senza quelle non saremmo semplicemente nudi, ma orfani.
Quindi, comunque vada oggi, grazie a chi ci ha dato fiducia (Francesco Giambrone), a chi ci ha dato la follia che serviva (Oscar Pizzo), a chi ha acceso la magia del teatro (Giorgio Barberio Corsetti, Ugo Bentivegna, Lorenzo Bruno, Igor Lorenzetti), a chi ci ha prestato corpo e voce (Ennio Fantastichini), a chi ci ha dato la musica (Marco Betta, Yoichi Sugiyama), a chi ci ha dato le immagini giuste (Franco Lannino).
A parte questo, prima dell’inizio c’è solo un pensiero per quei morti a cui sono state rubate le parole. Una preghiera muta.
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