Né Tears né Fears

Sono uno fortunato. Nella mia vita, per passione e soprattutto per mestiere, ho assistito a molti concerti dal vivo. Quello che ho visto sabato scorso al Forum di Assago lo ricorderò per due motivi contrastanti: era in cima alla lista di quelli che mi mancavano (e dovevo assolutamente mettere nel carniere) ed è stato qualcosa di molto diverso da ciò che mi aspettavo.
Parliamo dei Tears for Fears e del loro “Rule the World Tour”, (la tappa milanese che doveva essere recuperata dallo scorso anno quando fu annullata per indisposizione e/o bizze degli artisti). La mia avventura non era iniziata benissimo dato che il biglietto acquistato per oltre il triplo del suo valore, a causa di un secondary ticketing selvaggio che ho provveduto a segnalare per tempo alla Guardia di Finanza, aveva già messo a dura prova la mia pazienza. Tuttavia mi sono presentato all’appuntamento con passione e curiosità di ordinanza e, da un punto di vista strettamente musicale, non sono rimasto deluso. Il fatto è che Roland Orzabal e Curt Smith propongono uno spettacolo molto serrato e, diciamolo, abbastanza breve: un’oretta e mezza scarsa (bis compreso) di musica con quel repertorio lì è un antipasto, altro che cena completa. I Tears for Fears mettono su una macchina molto professionale – troppo, al limite del freddo – per concentrare in un tempo relativamente breve una carriera di successi stellari. Gli arrangiamenti poco lasciano all’emozione live poiché raccontano esattamente la storia che conosciamo tramite il prodotto discografico: precisione, compostezza e rapidità. Anche nella scenografia, uno schermo grande ma non troppo propone il déjà-vu di immagini note (e apprezzate) nei loro prodotti e quasi ostenta la pigrizia di tralasciare telecamere a favore di chi, in uno spazio così ampio, vede il palcoscenico da troppo lontano pagando un biglietto salato.
Insomma ci si diverte, si balla e si canta per la forza delle canzoni, non certo per quella dei loro autori e interpreti che probabilmente nascondono una stanchezza sotto una corazza di solida imperturbabile professionalità. Un compitino ben fatto, un sano artigianato di larga scala.
Voto 7+, si poteva fare meglio.

Se Salvini si frega da solo

La rincorsa a spernacchiare Salvini con dirette web in cui ci si finge selfisti ma ci si rivela belve azzannanti ci spiega tutto dei social. Il limite tra sostanza da militante ed evanescenza da esibizionista è labilissimo: i social sono affamati di nuovi eroi, da incoronare nel nome di uno sberleffo al potente. Solo che nel caso di Salvini il fenomeno è più tragicamente interessante. E’ stato infatti lui il primo a usare Facebook e Twitter in modo contundente, scagliandosi, da ministro e vicepremier, contro privati cittadini, deridendoli o addirittura, come nel caso di Saviano, esponendoli a ritorsioni.
Morale purtroppo doppia: è grottesco vedere ragazzini celebrati come fenomeni solo perché hanno avvicinato con l’inganno il Potente e lo hanno accoltellato fugacemente a tradimento; è plausibile che questo meccanismo il Potente se lo meriti dato che quella miccia l’ha accesa lui (con l’aggravante di fare il forte coi deboli).

Invidiosi

Tra i molti sentimenti che lastricano di cadaveri la miastrada di relazioni ce n’è uno che conosco solo in quanto vittima. Cioè non lopratico, ma lo subisco, l’ho temuto e infine sterilizzato.

È l’invidia. È l’unico dei vizi capitali che mi manca: glialtri li conosco benissimo, con varie gradazioni di intensità che, per decenza,qui tralascio.

L’invidia è il sentimento nel quale mi sono imbattuto piùspesso, non penso per predisposizione personale ma perché probabilmente è ilpiù subdolo, quello che si annida nell’ordinaria denigrazione. In fondo l’invidiosoè uno che, parafrasando Paul Valéry, si consola col disprezzo per una felicitàche non ha, una libertà che non si concede, un vantaggio che gli manca. E anzichéprendersela con se stesso – sfigato o incapace che sia – se la prende con chivorrebbe essere, e non sarà mai.  

Al di là degli slogan da camionista tipo “la tua invidia èla mia forza”, in realtà col tempo ho scelto un approccio ecumenico al tema.

Tipo: quando si invecchia si tende a ridicolizzare i giovani,errore da non commettere mai.

Oppure: l’invidia è l’unica trappola che inchioda chi laprepara.

Poi c’è un sortilegio perverso che mi rincuora.Statisticamente l’invidioso è un perdente, è qualcuno che certifica inconsapevolmentela superiorità altrui.

Ho conosciuto molti invidiosi e di altri ho solo subodorato qualcosa, poiché una caratteristica abbinata al vizio di volere essere un altro senza esserlo è la vigliaccheria. Molto raramente l’invidioso si manifesta apertamente: il più delle volte striscia, si mimetizza, mangia fango pur di nascondersi (perché in fondo, lui non lo sa, ma ha vergogna di sé). E in questo umiliante barcamenarsi affligge la sua anima, come una carie maleodorante e antiestetica. Ehi, avete mai osservato attentamente il sorriso di un invidioso?

La cazzata di cittadinanza

Funziona così. Il migliore argomento per demolire il nemico è ridicolizzarlo con tesi ridicole. Sembrerà incredibile ma è questo il metodo di successo con cui il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia, twittatore indefesso nonché complottista che non crede all’allunaggio, avanguardista che propone il matrimonio fra specie diverse “purché consenzienti”, no-vax della prima ora, mette alla berlina gli avversari politici. In questo tweet ad esempio indica al popolo i veri nemici del reddito di cittadinanza appendendoli al cappio del loro stipendio.

Per Sibilia e i suoi accoliti infatti i guadagni altrui sono una vergogna. La ricchezza è un orribile reato in un mondo fatto di gettoni a pioggia, più nulla per tutti: del resto un partito politico che ha abolito qualsiasi merito non può concepire che ci sia un ruolo che valga più di un altro, altrimenti Sibilia non dovrebbe stare dove sta, su una poltrona chiave per la sicurezza di questo Paese. Cottarelli, Boeri, Caldenda, Fedeli possono essere democraticamente criticati per i loro (eventuali) errori, ma pretendere di condurli alla forca – per di più da sottosegretario all’Interno – per la loro dichiarazione dei redditi è un’operazione ignobile. Non è neanche un colpo al di sotto della cintola, è l’indecente uso del ridicolo che fa audience in tempi bui quando una cazzata si trasforma con un clic in un argomento di vasta trattazione politica.

La divisa che divide

L’articolo pubblicato oggi su Repubblica.

Qualcosa da dire sull’agente che l’altro giorno a Partinico ha firmato, mentre era in divisa, l’appello per la Lega di Salvini. Lasciamo da parte la liceità dell’atto – ci sono accertamenti amministrativi in corso – e ragioniamo su ciò che quel gesto tramanda. Certo, secondo il leghista Igor Gelarda, si tratta di affetto per il ministro: praticamente una via di mezzo tra l’ostentazione di una fede politica e il “com’è umano lei” di Fantozzi. Ma secondo la restante parte del mondo, quella che vede in un poliziotto un simbolo di unità e uguaglianza, si tratta di un atto imbarazzante o addirittura irritante. Non sono più tempi in cui ci si può consentire di confondere un atto di fedeltà al capo con uno alla patria. Se un poliziotto firma con ostentazione il sostegno a un partito, la restante parte del mondo (sempre quella lì) ha il diritto di dubitare della sua imparzialità. Perché esistono mestieri in cui è fondamentale identificarsi con l’istituzione che essi rappresentano e non con le persone fisiche che li svolgono. È una questione di credibilità.

Prima i migliori

L’articolo di oggi su Repubblica.

C’è una cosa che tendiamo a sottovalutare quando, risvegliatici dalla nostra ordinaria disattenzione, scopriamo che l’Università di Palermo ha accolto il primo immigrato ancora non regolare tra i suoi studenti, consentendogli di iscriversi al corso di Scienze umanistiche. Ed è la stessa cosa che dovrebbe indurci a guardare il mondo senza pregiudizi: quel ragazzo del Camerun, arrivato con un barcone, parla l’italiano meglio di molti di noi e avrà la possibilità di diventare migliore di noi. Perché la classifica della buona volontà non si stila con una legge. Il “prima gli italiani” è declinabile in mille aberranti maniere: prima i fuoricorso italiani, prima i fannulloni italiani, prima i depressi italiani e via primeggiando. Questa cosa che sottovalutiamo e che ci renderebbe impermeabili a certi assolutismi del “pensiero social”, tipo quelli che mettono in concorrenza la munnizza con il trionfo di un evento culturale o, nello specifico, i disagi amministrativi di un ateneo con una sua iniziativa coraggiosa e lungimirante ha un nome semplice. Si chiama sensibilità.    

Settimo: non rubare (emozioni)

Nella logica complicata dei dieci comandamenti c’è una teoria di indicazioni, prescrizioni, divieti. In realtà ne basterebbe uno solo: evita di fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Tuttavia un’alternativa interessante è stilare (con un sorriso) un decalogo personalizzato che ha il vantaggio di non essere imposto da nessuno e di derivare da un minimo di esperienza. Ecco il mio.

  1. Presta solo ciò che ti puoi consentire di perdere. Attenzione compresa.
  2. Lavati i denti almeno tre volte al giorno. Le cazzate di una bocca sporca infastidiscono il doppio.
  3. Impara a cucinare. Ti sarà utile quando capirai che mangiare bene è un buon modo di sopravvivere specialmente se non è solo il tuo stomaco a essere vuoto.
  4. Non comprare vino al di sotto dei dieci euro. Il vino del contadino pestato coi piedi lascialo al contadino (che tanto manco lui se lo beve).
  5. Celebra l’amore con la consapevolezza inconfessata che la migliore storia d’amore è quella che finisce. Il resto è gara di sopravvivenza.  
  6. Non uccidere chi dice “un attimino”. Bisogna saper resistere alle provocazioni… e la vita è un attimino.  
  7. Non rubare emozioni. Tesaurizza le tue.
  8. Non condividere nulla di ciò che non conosci o che non hai verificato. L’ignoranza de relato mette a dura prova il rispetto del sesto comandamento.
  9. Cerca di desiderare il meno possibile la donna d’altri. Sono guai comprati peggio di un tre per uno da Lidl.
  10.  La prudenza è una virtù quando si è alla guida di qualcosa o di qualcuno. In altri casi è utile quanto un costumino di cemento se decidi di farti una nuotata in mare aperto.

La santa certezza del due di picche

L’articolo pubblicato oggi su Repubblica Palermo.

“Mi vuoi sposare?”. “Manco per sogno”. La short version della disavventura di un giovane catanese che si è presentato all’arrivo della sua fidanzata all’aeroporto Fontanarossa con palloncini e richiesta di matrimonio a sorpresa e si è visto rifilare un due di picche, ci riconsegna una realtà che gode ancora di un’adeguata dose di rassicurante incertezza. I social, attraverso i quali queste vicende diventano virali, ci hanno abituati infatti a una lettura bidimensionale delle emozioni annunciate: su Facebook tutto è bene quel che finisce come ci si aspetta che finisca. E invece la vita vera ha sempre un colpo di coda che ci sorprende. Non sapremo mai cosa c’è davvero dietro quel rifiuto, se più costrizione o libertà, se più saggezza o ingenuità, se la mamma che si è portata via la presunta promessa sposa scagliandosi contro il ragazzo è più guerriera o più imperatrice. Di certo c’è il sapore agrodolce che rimane quando l’amore che era in bilico scivola nella più genuina delle certezze. Quella di dire no, quando tutto il mondo si aspetta il contrario.     

Il maratoneta solidale

L’articolo pubblicato oggi su Repubblica Palermo.

L’uomo che fa correre le maratone ai disabili è un alieno. E non perché ci vogliono forza e resistenza pazzesche per spingere qualcuno in carrozzella per decine di chilometri, ma perché solo un extraterrestre della solidarietà poteva inventarsi un altruismo così concreto e divertente nel Paese dei porti chiusi e delle bocche aperte.

L’esempio di Vito Massimo Catania, da Regalbuto, è di un fulgore imbarazzante per noi italiani rimbambiti dall’opacità di un sentire comune che ha paura delle differenze. Lui, il runner solidale premiato da quell’altro alieno del presidente Mattarella, si è stufato di vincere gare da solo poiché ha capito che la condivisione è ben altro che un tasto di Facebook. E allora corre, corre per regalare passi a chi non li ha. Taglia traguardi per donare soddisfazioni a chi a un certo punto si è trovato a corto di speranze. Ebbene sì, Vito Massimo Catania, l’uomo che spinge in silenzio le carrozzelle al limite dell’umanamente possibile, è il perfetto contraltare di una nazione governata da panzoni bulimici ed egoisti.   

Libertà

Lo spunto me lo ha dato, qualche giorno fa, la morte del professore Fernando Aiuti, l’immunologo che più di altri riuscì portare avanti la lotta all’Aids con il rigore e la libertà concesse dalla scienza. E se sul rigore nulla quaestio, sulla libertà il campo è aperto. Apertissimo.

L’applicazione della libertà ai temi più svariati e complessi della nostra vita è il vero tema.

Come Aiuti ha interpretato il suo ruolo di scienziato, con rigore e fantasia, cioè con un registro e il suo contrario, così credo che i nostri momenti migliori siano quelli in cui la libertà mostra il suo confine più raggiungibile: che non è un ossimoro, ma il frutto di un’applicazione costante sul metodo per una soddisfazione più o meno istantanea.

Espongo brevemente la mia esperienza.

Quando al lavoro mi sono annoiato, ho mollato tutto e ho scelto una collocazione in cui, pagando, avrei avuto maggiore libertà. Non mi sono assicurato il divertimento, ma la soddisfazione di fare ciò che mi piace nel modo più conveniente (per me e conseguentemente per il mio datore di lavoro) sì.

Quando ho creduto in un sentimento al di sopra della cintola, l’ho fatto sapendo che un legame duraturo non era una prigione bensì un’assicurazione sulla vita. Non mi sono garantito l’amore eterno, ma la soddisfazione di dire che ci ho provato (e di constatare che certe polizze è meglio non riscuoterle) sì.

Quando mi confronto con persone in difficoltà, io che tengo la bontà a distanza con la canna, tendo a misurare il loro grado di affidabilità con la loro resistenza all’ira, alla rabbia. Perché la vera forza della libertà – l’ho imparato solo di recente – è quella della fusione fredda. Risentimenti, vendette, insofferenze, patemi, allergie, odio, repulsione, sono ingredienti che vanno maneggiati con l’occhio del chimico, o del pasticciere: un milligrammo in più o in meno e tutto è perduto.

Capisco che la vera libertà, all’alba dei miei 56 anni, è quella di non pensare chi sarà al tuo capezzale quando te ne andrai, ma quella di abbracciare chi ti chiede discretamente cosa farai il prossimo weekend, chi ti consiglia il film che vorrebbe vedere con te, chi ti chiama perché ha una bottiglia da condividere, chi ti regala sere esilaranti gratis, chi non rinvia ma anticipa, chi se anche ti ha voltato le spalle quando meno te lo aspettavi si scusa goffamente, chi c’è al posto di altri che se la sono data a gambe.

La libertà è trasversale.

E, ontologicamente, è per pochi sopravvissuti quindi preziosissima.