A dieci euro di distanza

Tomar – Alvaiàzere
Alvaiàzere – Rabaçal

Scrivo da un paesino di cui non conosco il nome. Mi ci ha portato un tassista pressoché ottantenne, che parla solo portoghese e che sospetto sia anche un po’ sordo. La sordità l’ho presunta dai dialoghi per telefono in viva voce con amici o parenti o colleghi che urlavano per ottenere risposta mentre lui infilava una curva dopo l’altra. Quando mi è venuto a prendere nell’eremo che mi ospita stasera, gli ho spiegato a gesti che volevo mangiare e lui sorridendo ha ingranato la marcia. Sempre sorridendo mi ha depositato in un ristorante a 10 euro di distanza, nel quale sto scrivendo queste note tra i fumi di carne arrostita e quelli dell’alcol dato che il vino locale più leggero ha come gradazione 14,5.

Ieri avevo cenato in un loculo di Alvaiàzere gestito dal tale che era anche il tenutario della stamberga che mi ospitava. Anche lì i fumi della carne mi avevano stordito. Ecco perché avevo deciso la sorte di una delle tre magliette “da sera”, cioè quelle non “da camminata”: avrei dovuto lavarla perché indossandola mi sentivo uno stinco di maiale, ma avevo scelto la soluzione che mi dava più serenità, buttarla. 
La notte era stata complicata dato che il tenutario aveva deciso di far parcheggiare un camion frigo proprio sotto la mia stanza, in corrispondenza di una presa di corrente per alimentare l’impianto di refrigerazione. Risultato: un ronzio vibrante basso implacabile che si attacca direttamente al sistema nervoso, tipo presa usb. Per otto ore consecutive.
Per la prima colazione, il tenutario, che non fornisce questi inutili servizi, mi aveva liquidato nel suo portoghese più svogliato con una frase tipo “cento metri e trovi un bar”. Il bar ovviamente era chiuso e Alvaiàzere non è Londra quindi se trovi un bar chiuso e sei a piedi alle 8 di mattina, e ti aspettano 32 chilometri, e hai dormito col camion come comodino, cominci ad allarmarti. Se il buongiorno si vede dal mattino, che il mattino abbia almeno modo di esserci, e che cazzo!
La fortuna mi è venuta incontro sotto forma di signora a passeggio col cane che vedendomi rincoglionito, smarrito, coi passi stentati, faccia rinsecchita tipo salma di tre giorni, ha deliberatamente scelto di darmi aiuto. Un atto di carità. C’è un altro bar a un chilometro di distanza, mi ha rivelato come un quarto segreto di Fatima (che tra l’altro è qua dietro).

Ora, nel ristorante della località sconosciuta, approfittando della cortina di fumo che si è diradata, perché stanno ricaricando le teglie, mi accorgo che c’è pure una festa di compleanno di qualcuno che fa 49 anni (così testimoniano i palloncini gonfiati a mia insaputa nella nebbia). Bevo un altro bicchiere di questo “tinto” ammazzacristiani e confido nella fortuna (sulla madonna di Fatima meglio di no, che l’ho evitata nel mio Cammino e magari la cosa rappresenta una pregiudiziale): ho concordato col tassista che a una certa ora mi avrebbe dovuto prelevare da questo posto nel nulla per riportarmi al mio posto nel nulla, un mulino riadattato ad abitazione in un non luogo che persino Google Map si rifiuta di indicare. “Concordato” è una mia licenza descrittiva. Io ho mimato “qui”, “dopo”, “alle 9”, “poi dormire”. Lui ha sorriso e se n’è andato. Secondo me crede che gli ho dato la buonanotte.

P.S.
E’ appena arrivato il festeggiato, il neo quarantanovenne, ed è scoppiato un “tanti auguri a te” in portoghese che credo sia meno sbrigativo del nostro. Si capisce che era una sorpresa. Lui si è commosso scoprendo che tutto il ristorante era lì per lui. L’unico estraneo ero io.

P.P.S.
La foto è quella del posto nel nulla nel quale trascorro la notte. Perché anche il nulla ha il suo fascino.

8 – continua

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Attenzione, caduta alibi

Golegã – Tomar

Se è vero che della prima impressione non ci si fida è anche vero che, se fosse inchiostro, la prima impressione sarebbe indelebile. Ci pensavo scarpinando in questi giorni di estrema e beata solitudine (tra ieri e oggi ho incrociato solo due persone e per meno di cinque minuti, il tempo di allungare il passo e blindarmi nella mia teca di passi e respiri). 
Essendo un diffidente per natura e non riuscendo a liberarmi dalla trappola dei pregiudizi, tratto con molta attenzione la prima impressione. Anche per il suo carattere di unicità: se è prima ci sarà un motivo.
Il bello dei Cammini in solitaria è che ci si può concedere la più anarchica delle libertà, quella di pensare come e quanto cazzo ti pare. Tipo, quando sei incasinato in città, magari al lavoro ti prende una fregola psicologica o ti viene in mente una cosa che vorresti disossare, esaminare sino al dna, smontare e rimontare. Ma dici: ok, appena ho tempo ci penso. E invece non ci pensi, e sai che neanche se scaverai il tempo nella roccia avrai voglia di affrontare realmente quella cosa.

Nel Cammino cadono gli alibi. E vi assicuro che non è una seduta di analisi o una sessione di compiti per le vacanze, ma una sensazione di libertà che non ti assolve, non ti premia, ma ti dà quel minimo di fiducia nella tua fallacia. Ti dice che se agli errori non sempre si può riparare, almeno si può metterli a frutto e cercare di farli diventare occasioni (togliendo l’iniziativa ai Baci Perugina). Che il pensiero leggero con selfie vista aperitivo non funziona come antidoto a pensieri che non sei riuscito a dipanare manco con l’aperitivo. Che non sempre la prima impressione è il trailer del film che ci apprestiamo a vedere, ma che comunque il trailer va visto (e soprattutto va realizzato bene).
Insomma negli ennesimi 30 chilometri ventosi tra Golega e Tomar ho messo in fila alcune prime impressioni basilari sul Portogallo e i portoghesi. Le scrivo in poche righe perché era il concetto che mi premeva raccontare non il succo delle elucubrazioni. Che però elenco per dar prova che ho fatto i compiti per le vacanze.

I portoghesi sono ex potenti che hanno mantenuto la dignità e la consapevolezza di una nazione che è tesoro di cultura diffusa, condivisa. Credo che siano un caso pressoché unico.
Non gradiscono che gli si parli spagnolo. Meglio l’inglese o addirittura l’italiano.
Hanno l’orgoglio di non mettere mai in tavola sale e pepe perché ritengono che il loro modo di condire i cibi sia quello giusto, l’unico.
Fanno un vino ottimo a prezzi onesti. Noi siciliani abbiamo solo da imparare sul rapporto qualità-prezzo. E non solo sul vino. 

7 – continua

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