I trucchi della pro-loco

Da Abadìn a Vilalba.
Da Vilalba a Xeixòn.

Cominciamo dalla fine. Sono in un hotel-ristorante a vocazione più che campagnola, dalle parti di Guitiriz in Galicia. È ora di cena, intorno a me in una sala semideserta ci sono due coppie e una donna sola. Nessuno di loro veleggia al di sotto degli ottant’anni. Il più giovane, temo in un raggio di tre chilometri quadrati, è il cameriere, Ramon (naturalmente!), che riempie il riempibile con la sua presenza amplificata, la sua voce, la sua gestualità da torero. Ensalada, olè! E l’asparago abbracciato a lattuga e pomodoro vola sul tavolo come un boccale di birra nel far west. Qui non c’è un menù scritto, tutto passa attraverso l’ugola di Ramon. Che avendo scoperto il sottoscritto in sala, si diverte a tradurre in italiano – a suo modo – ogni frase scambiata con gli ottuagenari. I quali, facendo buon viso a cattivo gioco, sorridono e annuiscono perché segretamente hanno spento tutti gli apparecchi acustici. Saranno anziani, ma non fessi.

È la degna conclusione di una due giorni coi chilometri all’ammasso e con l’umore che resiste, nonostante la fatica si faccia sentire (sono comunque oltre il settecentesimo chilometro in un mese di marcia senza soste). È come se il Cammino ti dotasse di anticorpi, ti regalasse una resistenza che non è fisica, ma ironica: un modo di guardare al disagio come a un’occasione per masticare tra i denti un chewing-gum al sapore di “chi se ne frega”.

Ieri ho incontrato un signore, avanti con l’età, (qui i giovani o li nasconde la pro-loco oppure si travestono da vecchi per assecondare la moda del luogo) che passeggiava sotto il sole alle tre del pomeriggio. Aveva cappello di paglia, bastone, camicia ben stirata. E camminava sereno sotto le martellate della calura galiziana. Affiancandolo gli ho chiesto “come va?”. E lui: “Passeggio sennò dopo pranzo mi viene sonno e la notte non dormo”.

Semplice logica di campagna che in una dozzina di parole azzera sessant’anni di servizi dei telegiornali sugli anziani e il caldo: probabilmente qui li mettono a essiccare come i pomodori e magari si conservano meglio. Di fatto la Galicia è più fresca delle nostre contrade. Non fresca a tal punto da debellare un’epidemia che, man mano che ci si avvicina a Santiago, mette a dura prova un organo sensibile e sottovalutato in questi frangenti: il naso. Col passare dei chilometri e dei giorni la cura nel lavare gli indumenti deve aumentare poiché il sapone è sapone, ma le magliette sempre tre sono. Stamattina ho avuto la sfortuna di finire sottovento rispetto al pellegrino sbagliato, e ne è venuto fuori un rarissimo caso di scatto in salita. In apnea per giunta.

Era la tappa più lunga del Cammino del Nord, quasi 33 chilometri, ma nonostante il caldo che mi ha costretto a muovermi a zigzag per cercare l’ombra degli alberi – tipo ubriaco – non è stata la più terribile. Merito anche di un pisolino schiacciato sul fieno, nel nowhere di una landa dove zanzare, formiche, vermi e mosche hanno firmato una pax sindacale che consente allo stanco viandante di riposare in modo da ritrovarlo più forte quando, rimessosi in piedi, bisognerà tornare a rompergli i coglioni.
Che geni questi della pro-loco.

(26 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Comunque i centimetri contano

Da Lourenzá a Abadìn.

Non invocherò la famosa questione di centimetri. Nossignori qui si discute di metri, diverse centinaia, quasi un chilometro.  La storia di oggi è la storia di un’illusione orografica, di un grande inganno topografico.

Tutto era cominciato in ritardo, come al solito. La stragrande maggioranza dei pellegrini/camminatori si mettono in marcia quando nella mia stanzetta d’albergo c’è ancora la nebbia, con le rane che gracidano e il sole che gira al largo. Io mi alzo con calma intorno alle 8,30, faccio colazione, raccatto le mie cose (con uno zaino-casa vi assicuro che non è operazione rapida), poi parto. Insomma inizio a vivere quando gli altri stanno morendo sulla seconda salita.

Mentre prendo il caffè e ingurgito calorie sotto forma di cornetto, pane o altro prodotto da forno d’annata (qui ci si imbatte in colazioni non sempre da gourmet, del resto è Cammino e non Promenade), consulto il mio manuale-guida per rinfrescarmi la memoria sul sacrificio che mi attende. Stamattina mi ha colpito una frase riferita a una salita: “L’ultimo quarto sarà decisamente duro!”. Solitamente questa guida tende a evitare i toni assoluti ed è solita derubricare i tratti drammatici a tratti difficili, senza mai usare i punti esclamativi. Stamattina lo beccai, ‘sto punto esclamativo. E per una sorta di autodifesa inconscia l’ho ignorato.

Cammin facendo ho macinato salite su salite e quel “decisamente duro” ha cominciato a riaffiorare. A ogni tratto in pendenza – e oggi c’era un nastro di almeno 7-8 chilometri di saliscendi – pensavo: “Beh, questo è ‘decisamente duro’”. In modo da giustificare la mia crescente fatica e contemporaneamente allontanare lo spettro di qualcosa di peggiore. Verso la fine di questa lunga strada tra le montagne ero quasi convinto di avere definitivamente alle spalle il tratto maledetto: del resto avevo faticato moltissimo, più del solito, devo ammettere. A un certo punto ero abbastanza in alto sul costone, e stare in alto significa avere le salite alle spalle a meno che uno non auspichi altro tipo di ascensioni che in vita sono un po’ difficili da compiere senza adeguato sussidio tecnologico. Ed è accaduto l’imprevedibile. Passo dopo passo la strada ha cominciato a scendere verso il fondo valle, io mi chiedevo che cazzo ci fosse lì sotto, la casa di Biancaneve, un villaggio di gnomi, la stazione di partenza di una teleferica. Niente, si scendeva vertiginosamente, perdendo tutto il vantaggio accumulato in litri e litri di sudore nelle tre ore precedenti. Poi, prima di una curva a destra il colpo di scena, tipo lama nel buio in un film di Dario Argento: un cartello, dipinto a mano (nella foto sopra): “Ultreia animo!!!”, che significa “andiamo avanti, forza”. Ancora punti esclamativi, ma stavolta non li potevo ignorare. Infatti dietro quella maledetta curva il mondo cambiava e diventava verticale. La più pesante salita di questo Cammino: dura per una congerie di motivi, perché arriva alla quarta settimana di fatica ininterrotta, perché arriva dopo pranzo (pranzo, beh…) quando tu vorresti farti un pisolino, perché arriva a tradimento, perché arriva e hai ancora dieci chilometri da fare.

Non è eroismo, ma semplice sopravvivenza. Vorresti buttarti per terra se non fosse che per la pendenza ti prenderebbero in caduta libera a Bagheria entro un paio d’ore. Vorresti superare i due pellegrini che ti camminano davanti con un’andatura che è più lenta della tua in modo da disturbarti (il ritmo è tutto in queste prove), ma non sufficientemente lenta da consentirti un sorpasso, insomma ti rompono i coglioni al cubo. Vorresti un elicottero, un aiuto da casa, uno skilift, un letto, vorresti la musica giusta ma in quel momento c’è una rivolta delle playlist nel tuo smartphone, vorresti una maglietta pulita e non quello straccio fradicio che hai addosso, vorresti divano tv birra e rutto libero, vorresti urlare al mondo che tu non sei un pellegrino, che non vuoi espiare niente, che manco la credenziale hai (probabilmente sei l’unico cretino che non chiederà nulla a San Giacomo contando sul fatto che se quello è santo non ha bisogno di suggerimenti o ed è immune alle raccomandazioni). E invece sei lì inchiodato a quello sterrato che ti tira giù mentre tu sali su. “Ultreia et suseia”, c’è scritto in un altro cartello lungo questa via crucis di terra e sassi al limite del ribaltamento. Lo guardi che sei a un passo dall’infarto e l’ultima kilocaloria succhiata da una caramella che ti fa pure schifo perché è di pappa reale e tu non sai manco cos’è la pappa reale, la dividi tra il brandello di quadricipite femorale destro che ti è rimasto funzionante (il sinistro va a traino tipo Di Maio col primo partito che passa) e l’ultimo neurone non fulminato da caldo e fatica: solo allora realizzi che “ultreia e suseia” non è il grido di battaglia di un pastore sardo incazzato, ma l’invocazione ad andare “avanti e più in alto”.
Più in alto??? 

(25 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Il doping per lo spirito

Da Ribadeo a Lourenzá.

Cortocircuiti della modernità. Mentre scarpinavo sulle salite della Galicia sono stato coinvolto, complice la felice connessione del mio iPhone (che mi regala la musica con la quale mi drogo senza ritegno) dalle notizie che arrivavano dall’Italia: la crisi di governo e, molto più importante, la scomparsa di un caro amico, Ariberto (di cui ho scritto qui).  

Giornata strana oggi.

Un percorso nel profondo del nulla, attraverso paesini che non sono paesini, ma quattro case fantasma incatenate da trazzere.
Un cielo che manda giù pioggia giusto il tempo di scafandrarti per poi cuocerti alla griglia, anzi come dicono qui a la plancha, sotto un sole caino.
Un’immersione nella natura selvaggia di immensi boschi turbata da uno stop forzato, nel cuore di una montagna, perché stanno abbattendo alberi per l’industria della carta (e questo apre un dualismo doloroso nella coscienza del giornalista-camminatore).
Un bar, l’unico nel raggio di dieci chilometri e passa, che dovrebbe darti elementi solidi di ristoro, ma che invece è una specie di bettola in cui due galiziani fumano, bevono e non vogliono essere disturbati: sgomma, che qui non abbiamo niente per te.

Ma è anche la giornata in cui un contadino si ferma col trattore perché ti vede su un sentiero sbagliato e ti riporta sulla retta via, e mai metafora fu più luminosa: dandoti un buen camino e il cinque, in una inusitata doppietta di sacro e profano, di antico e moderno, di reale e ultra-reale.
È la giornata di un’anima ansimante che vedi in cima alla salita. È in difficoltà, te ne accorgi perché si fa raggiungere entro poche centinaia di metri. Scopri che è un ragazzo, uno molto più giovane di te, e va piano perché ha la mano destra impegnata. Direte voi, cammina con le mani? No, ha un rosario (nella foto sopra) e scandisce i suoi passi con una nenia che avverto ma non sento.
Mi piace pensare che sia una specie di doping per lo spirito.
Mi piace pensare che sia per Ariberto che, in quel frammento di giornata, per me è ancora vivo mentre se n’è andato nella discrezione a lui consona più di una settimana fa.

(24 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

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Dopo

Da La Caridad a Ribadeo.

Stando ai calcoli, che gestisco tra Garmin al polso, guida nella tasca dello zaino e taccuino alla mano, sono a 621 chilometri percorsi, per un totale di circa 840 mila passi. La schiena e le gambe reggono bene, la testa fa quel che può (del resto anche in tempi di pace…), insomma si va oltre la fatica. Che, come ho già raccontato, è una questione di puro relativismo quindi è acqua passata. 

Santiago si avvicina, già si incontrano le grandi croci rosse (nella foto sopra) in cemento o in legno che furono messe lungo il Cammino nell’anno Giacobeo 1993 e il pensiero che si insinua è quello del dopo.

Il dopo, tadaaah!

So che mangerò tutta la pasta che mi è mancata, so che mi toccherà raccontare, e volentieri, questa esperienza secondo i codici del mio lavoro, so che dormirò nel mio letto, so che finalmente avrò almeno una quarta maglietta da indossare, so che mi muoverò per la prima volta dopo 35 giorni su un mezzo meccanico e non sulle mie gambe, so che riprenderò i ritmi del lavoro.

Ma so anche che dovrò affrontare un’impresa ardua per un Doc come me: scardinare i riti. Attualmente la mia giornata è un perfetto sistema di efficienza sportiva, regolare come le fasi di un motore a scoppio: sonno, cibo, 25 km, cibo, sonno… Sorvolo su (im)prevedibili dettagli personali e su incombenze che a voi possono sembrare primitive tipo quella di fare il bucato ogni santo giorno appena arrivato in albergo, in modo che la biancheria si possa asciugare entro la mattina dopo: è come se voi, tornando a casa dall’ufficio, prima ancora di mettervi le pantofole vi buttaste tipo giocatore di rugby su una tavoletta di sapone di Marsiglia e cominciaste a ravanare come forsennati tra mutande e calzini sporchi.

Ecco, il mio dopo che inizia a materializzarsi chilometro dopo chilometro lo immagino e non lo temo, anche se so che dovrò usare i guanti per gestirlo. Parlando con chi ha fatto questa esperienza prima di me e l’ha rifatta – perché il Cammino non è un viaggio turistico, ma una esplorazione di se stessi – ho assorbito molte indicazioni interessanti. Nulla di mistico per carità. Anzi, molto di pratico, reale. È come imparare una nuova lingua, che userai solo con chi ti vorrà ascoltare: una grazia del cielo per chi vive di rapporto con gli altri, di creatività, di comunicazione.

Il dopo di queste esperienze è sempre un inizio. Lo sappiamo prima di cominciare, altrimenti ci faremmo vacanze normali. Sto incontrando molte persone che cercano di cucire il passato e il futuro con un filo lungo più di 830 chilometri, senza rattoppare.

Mi piace pensare che chi fa il primo del milione di passi che lo accompagneranno – e perseguiteranno – nei meandri di se stesso è come quel tale che mentre gli altri si interrogano su come fare una cosa, lui pensando ad altro di più importante, la fa.

(23 – continua)      

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Tranquilli, non ci aspetta nessuno

Da Luarca a La Caridad.

Camminare per più di un mese, senza fermarsi mai, ha un vantaggio al quale si pensa solo quando si scarpina per più di un mese, senza fermarsi mai, e si cerca disperatamente un vantaggio a cui pensare. Per una volta si azzerano le ipocrisie, si abbandonano i laccioli delle convenzioni e ci si culla deliziosamente in un sano cinismo.

Non ci aspetta nessuno.

Non ce ne rendiamo conto, ma al di là dei vincoli di sangue (e spesso nemmeno quelli costituiscono un’eccezione), le cose cambiano in un modo talmente vertiginoso che manco un passe-partout potrebbe aiutarci ad aprire porte alle quali improvvisamente è stata cambiata la serratura. Paradossalmente l’elisir di lunga vita è proprio la coscienza della caducità delle cose della vita, almeno per quello che appartiene al vivere e non al sopravvivere.

Ci scherzavo su qualche giorno fa con un’amica via sms: “Manco Alexa mi riconoscerà al ritorno”. E non era un azzardo giacché la tecnologia, che sempre più vuole scimmiottare le cose umane, sa come gestire il senso di mancanza: provate a non usare un account di un social per qualche giorno e vedete come vi comincerà a tampinare.

Non ci aspetta nessuno.

E quel nessuno non è il genitore o il figlio che ha un nucleotide calamitato nel Dna che attrae o respinge a seconda della polarità (e spesso manco funziona troppo bene), ma è il 99,99 per cento del tuo resoconto sociale. È il collega di lavoro che ti saluta con un sorriso in cui l’unica cosa genuina è il tartaro dei denti, è l’amico che ti chiama perché dice che ha voglia di sentirti ma che poi ti infilza con un problema che “solo tu puoi risolvere”, è la persona alla quale manchi quando a lei mancano tutti gli altri. È l’ordinario travestito da straordinario, il superfluo che pare vitale sino a quando non lo guardiamo con altri occhi, o altri occhiali.

La verità è che proviamo vergogna a dirci queste cose perché, sbagliando, le cataloghiamo come possibili fallimenti. In realtà basta rompere il vincolo dell’ipocrisia, magari camminando con un benedetto zaino in spalla che è tutto insieme casa e lavoro, per capire la reale essenza della questione. Non aspettarsi nulla dagli altri è il miglior modo per lasciarsi sorprendere dagli altri. È il più grande atto di fiducia nei loro confronti. E in noi stessi.

P.S.
Si vede che la tappa di oggi era lunga e monotona, eh…  

(22 – continua)    

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Beh, si muore

Da Ballota a Luarca.

Talvolta capita di imbattersi in foto attaccate a un albero, o in mazzi di fiori depositati all’angolo di un sentiero. Sono le “vittime del Cammino”, quelle che giornalisticamente sono parte della cosiddetta “Spoon River” di Santiago. Si stima che negli ultimi trent’anni i morti siano stati intorno ai duecento. Nel 2017 due testate giornalistiche, La Voz De Galicia e FrancigenaNews, hanno fatto un po’ di statistiche e hanno constatato che si muore prevalentemente di infarto, ictus e, in questo periodo, di disastri causati dai colpi di calore (immagino l’ebollizione di pensieri di mio padre a tal proposito, ma questa è un’altra storia). Poi ci sono gli investimenti su strada, gli annegamenti e, pochissimi, gli omicidi. Famoso il caso di un maniaco omicida che modificava le indicazioni del Cammino a mo’ di trappola: lo arrestarono quattro anni fa ed è tragicamente una storia da film. Circa duecento morti quindi, in trent’anni. Il dato può impressionare se buttato lì, senza altri parametri.
E allora mettiamoli in campo, ‘sti altri numeri. 

Nel 2018, l’ufficio del Pellegrinaggio di Santiago di Compostela, secondo le stime ufficiali, ha accolto 327.378 pellegrini, la maggior parte sono donne: il 93,49 % sono arrivati a piedi, il 6,35 % in bicicletta, lo 0,10 a cavallo (il Galoppo di Compostela?), e lo 0,2 in carrozzina. Parliamo di pellegrini, cioè di persone che si registrano: da questi numeri è quindi esclusa quella parte di camminatori che, come me, marciano invisibilmente anarchici.

Quindi a fronte di una folla che si cimenta in un’impresa – parlo del Cammino del Nord o anche del Cammino Francese – qualcuno muore. È un mio problema, lo so, ma quello del rapporto con la morte è un tema per il quale non mi sento allineato col sentire comune (e non è un motivo di orgoglio). Secondo i miei parametri del dolore, la morte durante una missione, durante una gara, durante un’esperienza che ci vede concentrati è altra cosa rispetto al game over per il vaso che cade sulla testa dal terzo piano, al boccone che ci va di traverso (“assassinato dal pane e panelle”). È una morte contestualizzata, è l’addio al palcoscenico con l’orchestra che suona e non l’inghiottimento nel gorgo di un cesso del quale non abbiamo manco tirato noi la catenella. Mi è capitato più volte di polemizzare qui e altrove contro chi invocava, ad esempio, la sospensione di una maratona dopo la morte di un concorrente. Una bestemmia innanzitutto per la vittima che quella maratona voleva chiuderla col tempo migliore e che si sarebbe rivoltata nella tomba nell’apprendere di aver bruciato la gara a migliaia di persone che, come lei, si erano rotte il culo per un anno prima di cimentarsi in quella prova estrema. 

A tutto questo pensavo stamattina mentre, dopo Cadavedo, in cima a una salita mozzafiato ho trovato una foto attaccata a una ringhiera: “In loving memory of Kyriacos Zindilis”. Ero talmente stanco che ho fatto una foto indecente (concedersi la debolezza di essere palesemente deboli è una forza che sto sperimentando nel Cammino), ma l’ho fatta più per ricordarmi di non dimenticare che per altro.

Per i restanti chilometri roventi – oggi c’era un caldo tragicamente palermitano – mi è rimasto impresso il volto di quell’uomo sorridente. E mi sono immaginato i suoi ultimi frame. L’entusiasmo della partenza alla mattina, le chiacchiere, la stanchezza che arriva, il sudore tra la maglietta e lo zaino, la prova da superare, la felicità per la cima raggiunta, un doloretto ma chissà, il cielo, il sole in faccia come al mare, come in vacanza. E all’improvviso la concitazione attorno, degli altri che si chiedono cosa accade e lui che si compiace anzichè preoccuparsi: ve l’avevo detto che ce la facevo, è bellissimo, anche questo sole… poi non fa così caldo, tranquilli che ora si riparte, si ricomincia.

E lui tranquillo che ricomincia. Altrove, senza fatica.

(21 – continua)          

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Spuntò un bastone

Da El Pito a Ballota.

La notizia è un bastone. Che oggi ho raccattato e portato con me tutta la giornata e che, al momento, è nella mia stanza a riposare. Però il contesto della notizia è un incastro di tre riferimenti.

Il primo è che a me non piace camminare con le mani impegnate (rif.A).
Il secondo è che nel Cammino del Nord c’è il problema dei cani liberi, non sempre innocui (rif.B).
Il terzo è che, come alcuni di voi sanno, io soffro di Doc cioè di Disturbo ossessivo compulsivo (rif.C).

Stamattina, al ventitreesimo giorno di cammino, ho visto questo ramo spezzato, dritto e forte. Il rif.A mi suggeriva di lasciarlo lì: che poi inciampi (a me il bastone non aiuta nel camminare, come qualunque cosa che uno si porta appresso controvoglia), ti fai male e ci fai una figura di merda a spiegare che ti sei rotto perché non sai fare due cose contemporaneamente, camminare e scandire i passi col bastone. Ma era il rif.C a dare i maggiori problemi. Il mio Doc che si alimenta di rituali – dai colori all’igiene, dalle geometrie al cibo – è refrattario a certi cambiamenti.

Ve la faccio breve perché l’argomento è tanto serio quanto sterminato: la mia mente è in alcuni casi infastidita da ciò che è dispari, o meglio da ciò che non è simmetrico. Esempi: se in moto guardo lo specchietto di sinistra, automaticamente mi viene da guardare quello di destra; se faccio una rampa di scale che battezzano il piede destro per il primo passo, devo necessariamente pareggiare il conto fermandomi e riavviandomi con il piede sinistro.

Ecco, il bastone è dispari. E io lo passo ogni tot di tempo da una mano all’altra perché altrimenti i miei pensieri ne risentono. Tanto sono solo e nessuno si accorge di questa follia della quale voi ridete e io no.

Promettendo che un giorno vi racconterò alcuni risvolti esilaranti di questo problema che esilarante proprio non è, vi riporto alla scena iniziale, quella in cui ho visto il ramo.

Ho pensato: è ottimo per il rif.B. I cani liberi, nella mia esperienza nel Cammino, sono un problema. O meglio lo sono i loro padroni, che ritengono che il mondo venga dopo le esigenze del loro animale. Una settimana fa in Cantabria mi sono trovato davanti una coppia di ragazzi terrorizzata, lungo un sentiero, perché un cane bello grosso gli abbaiava contro accorciando la distanza. Il suo padrone rideva e fumava in mutande (eravamo nei pressi di un camping), e non faceva nulla per richiamare il cane. Mi sono avvicinato e gli ho detto di riprendersi l’animale perché quei giovani si stavano squagliando tra le felci. Lui, sempre fumando, ha borbottato qualcosa tipo: ma qui siamo in uno spazio aperto. Appunto, ho risposto io. E ho raccattato da terra un bastone di legno. Tutto ciò mentre il cane era ormai a pochi metri dai due poveri ragazzi ai quali si stava fermando il respiro in gola.

Ho alzato il bastone e a un certo punto ho capito che non dovevo dirigermi contro il cane, ma contro il padrone. Della serie: ok viva gli animali, ok i cani sono migliori dell’uomo, ok altre menate da video social virali, ma io oggi con te me la sbrigo. Ebbene la questione si è risolta improvvisamente con un fischio al cane e un guinzaglio che il tipo teneva, tipo riempitivo, nelle mutande.
Insomma ecco perché adesso quel bastone riposa nella mia stanza in hotel.

Perché il cammino è lungo e l’egoismo di certi uomini ha bisogno di argomenti solidi.

(20 – continua)

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I pensieri e il latte +

Da Avilés a El Pito.

Da Avilés a El Pito è tutto un estenuante saliscendi di colline verdi, l’unico vantaggio è che finalmente torna il silenzio dopo le tappe cittadine di Gijón e Avilés. E il silenzio durante il Cammino è tipo il “latte +” di “Arancia Meccanica”, una droga dolce e pericolosa, depurata dalla componente di istigazione alla violenza.  

Provo a spiegare.

Il silenzio è qualcosa a cui non siamo abituati, nel senso che lo conosciamo ma non lo sappiamo usare. Dormiamo nel silenzio, studiamo o ci concentriamo per fare qualcosa nel silenzio quando lo troviamo, ma non ci capita di vivere il silenzio. Il motivo per cui ho scelto di fare il Cammino del Nord da solo (tranne alcune piacevoli e occasionali condivisioni di passi ed esperienze) è proprio questo: io che sono un chiacchierone, un bordellaro di prima specie, volevo sperimentare il “latte +” della relazione con se stessi. Così mi sono imbarcato in questi trentatré giorni di dimostrazione pratica del fatto che nascere solisti non significa vivere da solitari e magari morire soli (anche se sull’atto finale eviterei ogni forma di facile entusiasmo).

Il fattore X che inocula nelle vene di questa mia modestissima sperimentazione il virus dell’imprevedibilità è legato alla natura degli spagnoli, che quando si mettono di impegno riescono a essere più rumorosi e fastidiosi degli italiani. Ad esempio, ora sto scrivendo nell’unico bar- ristorante di El Pito (il groove sta a Cudillero, nella foto, due chilometri e mezzo più avanti e soprattutto 150 metri di dislivello sotto) e sono circondato da maschi ubriachi e donne che giocano a carte, accomunati da una livella sensoriale: non parlano, urlano.  

Eppure il silenzio accumulato fa il suo lavoro poiché ti ha messo dentro tanti di quei semi che non ci sarà tempesta di rumore in grado di impedirgli di germogliare. Faccio un discorso serio, una volta tanto in questi diari di cazzeggio. La fatica, la solidità delle intenzioni, il miraggio dell’obiettivo, una volta sul Cammino, ti spiegano che non c’è nulla di eroico a fare tutti questi chilometri a piedi con lo zaino in spalla e la tua vita sul groppone. C’è solo qualcosa di grande, di infinitamente grande solo per te stesso.
Perché ti fai un dono unico – e quando ti ricapita un’occasione simile. Tu che vivi di link all’emozione di massa, ti ritrovi in uno stato di grazia che non è ascetismo ma, al contrario, comunione: con quel te stesso che magari non frequentavi da secoli, con una compagnia improvvisata, con un pensiero che non è solo tuo, con una prospettiva che ti faceva paura o peggio schifo.

Ogni giorno i miei amici mi scrivono per sapere come sto, dove sono arrivato e per verificare il mio stato vigile. Oggi mi hanno scritto: “Cominciamo a preoccuparci. Quando scatta il passaggio tecnico da viaggio a latitanza?”. Ho risposto semplicemente che è bello che qualcuno ti pensi, perché i pensieri ammuttano, cioè spingono.

È questa una grande lezione del Cammino. I pensieri sono benzina ecologica, sono fisica ancor prima di metafisica, sono una forza di propulsione.

(19 – continua)

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Il cretino

Da Villaviciosa a Gijón.
Da Gijón a Avilés.

Nel lungo cogitare durante questa teoria infinita di chilometri ho maturato una poco consolante certezza: in termini di fatica ciò che tu chiami maledizione, il mondo chiama relativismo. In pratica quando siamo davanti a una prova psico-fisica al di fuori della nostra ordinarietà non esiste una realtà oggettiva e assoluta che possa essere messa nel bagaglio, magari consolatorio, della nostra conoscenza.

Esempio. Devi percorrere trenta chilometri a piedi, ti ammazzerai la vita per i primi ventisette e gli ultimi tre saranno una tortura. Il giorno dopo ne devi percorrere “solo” quindici, ebbene gli ultimi tre saranno massacranti esattamente come quelli cruciali del giorno prima.

Questo è il relativismo della fatica. Che è la derivazione naturale da una legge di Murphy di nuovo conio. Che dice pressappoco così: la probabilità che tu ti dia del cretino mentre tutto il mondo beve spritz sotto l’ombrellone e tu spremi acqua dalle pietre di uno strapiombo rovente e deserto, è inversamente proporzionale alla stima che i tuoi congiunti manifestano per te. E qui scatta il fattore “mio padre” (dopo quello “mia madre” su cui abbiamo già dibattuto). Mio padre, che ovviamente ha grande affetto per me, mi ha sempre chiamato con un nomignolo di misteriosa origine: Gigetto. Che per uno che ha già un nome che è una abbreviazione, è un nickname al cubo. Ma vabbè.

Da quando sono partito per il Cammino del Nord e, riservatamente, da un po’ prima (ma questo è un mio sospetto), mio padre ha cambiato nomignolo. Mi chiama: il cretino. Perché per lui è inconcepibile che uno, dopo mesi e mesi di lavoro, se ne vada in vacanza a faticare. Quindi sono “il cretino”, magari sommessamente, magari con una abbondante spruzzata di ironia. Ma sempre “il cretino” sono.
Mia madre lo rimbrotta. Lui dice che non è per offendermi, ma per difendermi: difendermi da me stesso. Della serie, non è colpa sua. È che è cretino.

Tutto regolare sin qui. Solo che la genetica non ha sentieri ciechi, ma strade ben tracciate. Ed è così che lui e mia madre, i genitori del “cretino”, se ne vanno in vacanza a ottant’anni e passa non in spiaggia, non alle terme, non si fanno intruppare nel Gruppo Vacanze Piemonte del digestivo Antonetto. No, se ne vanno da soli a San Candido a scarpinare ogni giorno per chilometri e a collezionare piccole imprese che regolarmente testimoniano via whatsapp: qui siamo sulla strada per… qui siamo sulla cima di… qui siamo solo a metà percorso… Insomma – diciamolo – emulano in sedicesimi le gesta del cretino.
Io intanto butto sangue sulle mie misere trazzere vista morte nera (quella lenta, senza il famoso “prezioso liquido”, che non è certo l’acqua) inanellando chilometri e nuove umilianti declinazione delle leggi di Murphy.
Plausibilmente come un cretino.

(18 – continua)   

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Il minotauro su gomme

Da La Isla a Villaviciosa.

Cammina da così tanto tempo che fa pure confusione con le date. Dice di essere partito dall’Italia il 21, suppongo di luglio, ma potrebbe essere anche giugno, o chissà. Si chiama Tiziano e nel tempo che passa tra una maratona e un Cammino qualunque (ne ha fatti una mezza dozzina) fa il potatore a Cesena. Potatore “non giardiniere”, giacché dice di essere specializzato nel tagliare. E già la prima metafora attraversa la strada della nostra storia, rischiando di farle fare un testacoda. Che non sarebbe un disastro, visto che si tratta di una storia nella quale non c’è un inizio e manco una fine, ma solo un nel mentre.

Tiziano è partito quel 21 lì da La Spezia, ha percorso tutta la riviera ligure, poi si è bevuto la Costa Azzurra e poi, per rifiatare, ha preso un pullman per Lourdes. Dove ha trascorso un giorno a coltivare, in una specie di ritiro, la sua idea di religione. Poi se n’è andato a Irun, nei Paesi Baschi, dove ha cominciato un altro cammino, il Cammino del Nord.

Quest’uomo, che per un quarto è pellegrino, un quarto è camminatore, un quarto è esploratore, e un quarto è folle (capirete entro qualche riga perché), mi ha affiancato stamattina su un tranquillo rettilineo di Colunga, mentre con gli occhi ancora di sonno scrutavo il cielo cercando di capire quale sarebbe stata la razione di pioggia e fango che il Grande Manovratore di Nubi aveva in serbo per me. Al “buen camino” di rito, ho risposto “grazie”. E lui: “Italiano? Allora facciamo un po’ di strada insieme”. Non ho opposto resistenza, rimbambito com’ero dal sonno e dai postumi di una serata di sbevazzamenti con amici (in fondo sempre vacanza è!). Ci ho messo più del dovuto per capire chi, anzi cosa avevo accanto.

Tiziano lo zaino non se lo mette in spalla “perché la schiena si affatica”, ma lo traina grazie a un trabiccolo che tiene legato a una cintura. Insomma è un prototipo di quadrupede umano con due piedi e due ruote (come dimostra la foto sopra). Va così non solo su asfalto, come su una specie di quad di carne e alluminio a trazione anteriore, ma riesce a scalare sentieri rocciosi spaccandosi i quadricipiti femorali e dopandosi di un’unica consolazione: la schiena non si affatica.
Che è come dire: sparatemi al cuore, ma l’importante è che non mi venga mal di testa. 

Tiziano come me soffre il caldo ed è felice col freddo. Solo che io, a tal proposito, mi limito a scribacchiare qualche minchiata qui e a organizzare il mio abbigliamento tecnico ogni giorno in modo consono. Lui se ha caldo ai piedi, tira fuori il coltello e apre due buchi nelle scarpe.
Lo ha fatto e vi prego di credermi!
Insomma questo minotauro gommato è riuscito a sconvolgere la mia ordinaria visione delle cose – motivazioni, prospettive, anatomia, socialità – in soli due chilometri di vita condivisa. Il tempo di affiancarmi, ruggire con suole e pneumatici, pugnalarsi le scarpe, e sgommare via dietro a una curva. A mai più rivederci. Tiziano è così, l’ho imparato lungo un nastro di strada dalla lunghezza soggettiva (a seconda del passo).
Tiziano è un potatore,  non un giardiniere.
Lui taglia.  

(17 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.