Il doping per lo spirito

Da Ribadeo a Lourenzá.

Cortocircuiti della modernità. Mentre scarpinavo sulle salite della Galicia sono stato coinvolto, complice la felice connessione del mio iPhone (che mi regala la musica con la quale mi drogo senza ritegno) dalle notizie che arrivavano dall’Italia: la crisi di governo e, molto più importante, la scomparsa di un caro amico, Ariberto (di cui ho scritto qui).  

Giornata strana oggi.

Un percorso nel profondo del nulla, attraverso paesini che non sono paesini, ma quattro case fantasma incatenate da trazzere.
Un cielo che manda giù pioggia giusto il tempo di scafandrarti per poi cuocerti alla griglia, anzi come dicono qui a la plancha, sotto un sole caino.
Un’immersione nella natura selvaggia di immensi boschi turbata da uno stop forzato, nel cuore di una montagna, perché stanno abbattendo alberi per l’industria della carta (e questo apre un dualismo doloroso nella coscienza del giornalista-camminatore).
Un bar, l’unico nel raggio di dieci chilometri e passa, che dovrebbe darti elementi solidi di ristoro, ma che invece è una specie di bettola in cui due galiziani fumano, bevono e non vogliono essere disturbati: sgomma, che qui non abbiamo niente per te.

Ma è anche la giornata in cui un contadino si ferma col trattore perché ti vede su un sentiero sbagliato e ti riporta sulla retta via, e mai metafora fu più luminosa: dandoti un buen camino e il cinque, in una inusitata doppietta di sacro e profano, di antico e moderno, di reale e ultra-reale.
È la giornata di un’anima ansimante che vedi in cima alla salita. È in difficoltà, te ne accorgi perché si fa raggiungere entro poche centinaia di metri. Scopri che è un ragazzo, uno molto più giovane di te, e va piano perché ha la mano destra impegnata. Direte voi, cammina con le mani? No, ha un rosario (nella foto sopra) e scandisce i suoi passi con una nenia che avverto ma non sento.
Mi piace pensare che sia una specie di doping per lo spirito.
Mi piace pensare che sia per Ariberto che, in quel frammento di giornata, per me è ancora vivo mentre se n’è andato nella discrezione a lui consona più di una settimana fa.

(24 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Dopo

Da La Caridad a Ribadeo.

Stando ai calcoli, che gestisco tra Garmin al polso, guida nella tasca dello zaino e taccuino alla mano, sono a 621 chilometri percorsi, per un totale di circa 840 mila passi. La schiena e le gambe reggono bene, la testa fa quel che può (del resto anche in tempi di pace…), insomma si va oltre la fatica. Che, come ho già raccontato, è una questione di puro relativismo quindi è acqua passata. 

Santiago si avvicina, già si incontrano le grandi croci rosse (nella foto sopra) in cemento o in legno che furono messe lungo il Cammino nell’anno Giacobeo 1993 e il pensiero che si insinua è quello del dopo.

Il dopo, tadaaah!

So che mangerò tutta la pasta che mi è mancata, so che mi toccherà raccontare, e volentieri, questa esperienza secondo i codici del mio lavoro, so che dormirò nel mio letto, so che finalmente avrò almeno una quarta maglietta da indossare, so che mi muoverò per la prima volta dopo 35 giorni su un mezzo meccanico e non sulle mie gambe, so che riprenderò i ritmi del lavoro.

Ma so anche che dovrò affrontare un’impresa ardua per un Doc come me: scardinare i riti. Attualmente la mia giornata è un perfetto sistema di efficienza sportiva, regolare come le fasi di un motore a scoppio: sonno, cibo, 25 km, cibo, sonno… Sorvolo su (im)prevedibili dettagli personali e su incombenze che a voi possono sembrare primitive tipo quella di fare il bucato ogni santo giorno appena arrivato in albergo, in modo che la biancheria si possa asciugare entro la mattina dopo: è come se voi, tornando a casa dall’ufficio, prima ancora di mettervi le pantofole vi buttaste tipo giocatore di rugby su una tavoletta di sapone di Marsiglia e cominciaste a ravanare come forsennati tra mutande e calzini sporchi.

Ecco, il mio dopo che inizia a materializzarsi chilometro dopo chilometro lo immagino e non lo temo, anche se so che dovrò usare i guanti per gestirlo. Parlando con chi ha fatto questa esperienza prima di me e l’ha rifatta – perché il Cammino non è un viaggio turistico, ma una esplorazione di se stessi – ho assorbito molte indicazioni interessanti. Nulla di mistico per carità. Anzi, molto di pratico, reale. È come imparare una nuova lingua, che userai solo con chi ti vorrà ascoltare: una grazia del cielo per chi vive di rapporto con gli altri, di creatività, di comunicazione.

Il dopo di queste esperienze è sempre un inizio. Lo sappiamo prima di cominciare, altrimenti ci faremmo vacanze normali. Sto incontrando molte persone che cercano di cucire il passato e il futuro con un filo lungo più di 830 chilometri, senza rattoppare.

Mi piace pensare che chi fa il primo del milione di passi che lo accompagneranno – e perseguiteranno – nei meandri di se stesso è come quel tale che mentre gli altri si interrogano su come fare una cosa, lui pensando ad altro di più importante, la fa.

(23 – continua)      

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.