I licheni sulla nuca

Da Ribadesella a La Isla.

Doveva essere una tappa semplice, l’ultima così leggera – appena 16,6 km – prima della tortura di Villaviciosa – Gijòn di cui non anticipo nulla perché mi sudano i polpastrelli al solo pensiero. Per di più il mio hotel era, una volta tanto, in una posizione vantaggiosa rispetto all’itinerario classico, garantendomi uno sconto di quasi tre chilometri. È finita che di chilometri ne ho fatti 22, cioè quasi sei in più, cioè un’ora e mezza di cammino in più, cioè sono un cretino anche una volta di più. 

Eppure avrei dovuto capirlo che troppi automobilisti mi salutavano mentre camminavo lungo la carretera. E io rispondevo: gracias! E loro continuavano a salutarmi: mi pareva di scorgere la sillabazione sulle loro labbra: buen camino! Però al quarto chilometro di asfalto e zero marciapiede ho cominciato ad avere un leggerissimo sospetto. E guardando la cartina ho riavvolto il nastro. Ero sulla strada sbagliata. Avevo sparso “gracias” a destra e a manca, anzi alla derecha e all’esquerda, a una carrettata di vaffanculo e bestemmioni che manco ieri Salvini a Catania li ha riscossi.

Insomma ci ho messo qualche chilometro per recuperare la retta via. Retta si fa per dire, data la tortuosità di certi sentieri che sono esperienze estreme.
Funziona così.
Dall’asfalto parte una deviazione che di solito si mostra innocentemente come una stradina asfaltata. Alla prima curva, l’asfalto diventa pietrisco. Pochi metri dopo diventa terra che anela alla fangosità appiccicaticcia. Poi la trasformazione in sentiero la cui pendenza aumenta vertiginosamente. Sino al raggiungimento dello status finale: qui i sentieri non salgono, si impennano

Il tutto avviene nello scenario più consono, quello di un tempo variabile in una frazione di nanosecondo. Dal sole alla pioggia, lungo il Cammino del Nord, è un mutare che sfida le leggi dell’umana comprensione. Tipo: piove, neanche il tempo di mettere la giacca impermeabile e di colpo si chiudono i rubinetti del cielo e il sole ti manda 30 gradi che sotto le ascelle puoi fondere la ghisa. Ma è un’illusione. Mentre sei finalmente in maglietta – togli lo zaino, apri lo zaino, richiudi lo zaino, rimetti lo zaino –  ti arriva un sifone di acqua senza che tu possa scorgere il cazzo di nuvola dalla quale è stato sparato. Io sono arrivato a cercarla persino dietro agli alberi, per capire se per qualche strano sortilegio nelle colline delle Asturias esistesse un incantesimo della meteorologia, tipo spada nella roccia: la nuvoletta acquattata del viandante ramingo.

Insomma, il risultato di quest’oscillazione termica è che vivi col pile, sudando come beduino nel deserto e puzzando come un caprone di montagna già alle 9 di mattina. Quando, iniziando la benedetta giornata, guardi il cielo e ti domandi come proteggerai dalle intemperie quei quattro licheni che ti sono cresciuti sulla nuca.  

(16 – continua)   

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

   

Sesso e tenerumi nelle Asturias

Da Colombres a Poo.
Da Poo a Ribadesella.

Sono in cammino da diciassette giorni, cioè sono più che a metà della missione, ed è tempo di un mezzo bilancio. La parte più dura, quella iniziale dei Paesi Baschi, è filata via liscia in modo inaspettato: temevo di soffrire di più, ma probabilmente ero arrivato con un buon allenamento. La parte seguente, con i percorsi cittadini e col caldo delle spiagge, è stata quella in cui ho penato di più poiché mi ero anche disabituato alle auto, alla calca. Tuttavia nel complesso parliamo di tratti poco rilevanti nell’economia paesaggistica e orografica del percorso fatto sinora.  

Le endorfine fanno il loro sporco lavoro, alimentando giorno dopo giorno la dipendenza da sforzo fisico che gli sportivi conoscono bene. Quando anche il solo pensiero di mollare o di prendersi una vacanza (dalla vacanza!) ti sfiora, arrivano loro, le endorfine, a titillare un possibile senso di colpa o di inadeguatezza.
Insomma si va perché si va.

Devo confessarlo in fase di primo bilancio, l’unico problema per me è il cibo. Vi ho già detto dei miei capricci alimentari (non mangio carne rossa, pesce a forma di pesce, né altri esseri viventi che non siano travestiti da fetta di prosciutto o da petto di pollo…) e qui al Nord della Spagna le possibilità per me di avere un menù vario sono poche. Patate e asparagi, insalata e pizza (surgelata), formaggi e salumi. Una volta, in un paesino di montagna ho ordinato una specie di risotto coi funghi e sto ancora cercando nel web un tutorial che mi spieghi come staccarmelo dal palato. Ho perso qualche chilo – non certo per il cibo, dato che trangugio palate di calorie quattro volte al giorno – e il vero obiettivo è trovare la forza non di portare a termine il Cammino del Nord, ma di affrontare al ritorno i miei genitori. Avete presente cosa si scatena in una madre siciliana, bravissima in cucina, alla vista del figliol prodigo coi vestiti che gli vengono larghi? Lasciate perdere le questioni anagrafiche – che il figliolo in questione abbia 56 anni è un dettaglio ininfluente in questo annuncio di dramma familiare – e pensate alle conseguenze epocali: raddoppio delle portate per pranzi e cene almeno sino a Natale 2022; abolizione del democratico diritto di parola quando a tavola si discute di porzioni; trasformazione sine die delle telefonate da normali in videochiamate giacché “io devo vedere come stai, vedere!”.

Cuore di mamma, va bene. Ma stamattina mi è successa una cosa singolare, che se mia madre la sapesse si farebbe paracadutare entro poche ore, possibilmente col favore delle tenebre, qui a Ribadesella, con una cucina da campo nello zaino, scorte alimentari per mezza popolazione delle Asturias e mio padre col vino. Mentre mi riposavo tra una decina di chilometri e l’altra, una mia amica che non è siciliana mi ha scritto perché è in vacanza a Palermo con la famiglia e voleva la ricetta della pasta coi tenerumi

In quel momento tutto è cambiato.

L’Armageddon del mio stomaco si è risvegliato dal suo cimitero di patatas bravas bombardandomi con un senso di mancanza alimentare drammaticamente improvviso. Ho rivisto in pochi attimi i momenti cruciali della mia vita: il primo panino con le panelle, l’infanzia coi rigatoni e le melenzane in bianco di mia madre (sì, sempre lei!), il calzone fritto della maturità, la mia pasta frolla appena sfornata, le arancine di Santa Lucia…

Boccheggiando l’ho chiamata, la mia amica, che non capiva il perché di tanta concitata eccitazione (tipo Fantozzi con la lingua che sguscia all’angolo della bocca). E le ho detto tutto.
Proprio tutto.

Le ho detto quali parti prendere dei tenerumi, le ho detto dell’aglio, del pomodoro da tagliare a pezzi non troppo piccoli, del peperoncino, le ho detto di non buttare l’acqua di cottura delle foglie perché poi ci avrebbe calato la pasta… Tutto questo le ho detto senza prendere fiato, alle 11 di mattina, sudato e sfatto come un vecchio guardone della Favorita. E alla fine ho chiuso la comunicazione bruscamente. Sapete com’è… il maschio egoista che ha fatto quello che deve fare e si volta dall’altro lato.
Ma non era sesso.
Erano tenerumi.
Cioè meglio.

P.S.
Ora richiamo la mia amica e cerco di spiegare.

(15 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Piedi

Da Comillas a Colombres.

Stamattina il Cammino era davvero “affollato”, ho incrociato almeno una dozzina di persone sulla strada per San Vincente de la Barquera, un paese che è una specie di Mondello al cubo con una ristorantopoli che ha un solo pregio: i prezzi very popular. E, dapprima non confessandomelo poi liberandomi come in una seduta di autocoscienza, ho cominciato guardare la loro appendice cruciale: i piedi. Sapete che i piedi sono un argomento dirimente del Cammino giacché sono la parte del corpo più esposta a traumi e usura: per questo c’è tutta una letteratura di precauzioni, dalla vaselina al burro di karitè, dal ghiaccio al bicarbonato. Per non parlare delle scarpe. Io ho optato, data la mia formazione sportiva, per un paio da running di tipo A4 ben ammortizzate e soprattutto collaudate: mi hanno dato qualche pensiero nel fango e nel fuoristrada spinto, ma dato che il percorso del Cammino del Nord è per quasi due terzi su asfalto e con temperature che in questo periodo possono essere alte, ho scommesso su qualcosa di più leggero rispetto a una scarpa da trekking, impermeabile e più corazzata. Comunque lasciamo da parte i tecnicismi e andiamo al mio voyeurismo. Ho visto piedi con conseguenti scarpe che voi umani…  Insomma stamattina in questo raptus di socialità ho collezionato i tre esemplari più ricercati in tal senso.

Primo, l’uomo col sandalo e il calzino. Che io il sandalo purtroppo ce l’ho (e tornato a casa lo brucerò in una cerimonia pubblica) perché la sera sarebbe un suicidio camminare con le scarpe chiuse dopo una giornata interminabile, ma usarlo col calzino, se non sei tedesco, significa giocarsi al Bingo il senso del ridicolo.

Secondo, l’uomo in tappine (cioè in infradito, per i non siciliani). Ho beccato uno, stamattina, che quasi sanguinava consumando gomma e alluci sull’asfalto. Sopravviveva drammaticamente, tipo pesce preso a strascico, ma testimoniava l’incombenza di una fine imminente.

Terzo, la donna del cellophane (e qui ho un drammatico documento che vedete sopra). Signora in evidente sovrappeso che non riesce nemmeno a entrare in un paio di scarpe di misura a sua scelta e che s’inventa la più complicata delle sofisticazioni: il sandalo rinforzato coi sacchetti di plastica. Non so se arriverà a Santiago, di certo so che lo sapremo tutti nel prossimo Anno Santo.

P.S.
Questo post è stato scritto in un infrequentabile bar di Unquera (non vi date pena di cercarla sulle mappe, esiste solo per me e la mia stratega di viaggio) affacciato su un fiume che cova zanzare tipo Cocoon e in cui si servono solo cerveza gelata e pizza surgelata.
L’unica garanzia è che il suo autore era a piedi nudi.

(14 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

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Contro il logorio della timeline moderna

Da Santillana del Mar a Comillas.

Oggi, durante il mio cammino, ho postato su Facebook un breve video che testimoniava, spero abbastanza ironicamente, la mia fatica: ero brutto e sfatto come deve essere uno che ha già trecento chilometri sulle spalle e ne deve fare ancora più di cinquecento (punto al Nobel per l’autolesionismo e ne pubblico un frame sopra). Uso abbastanza i social come short version del mio diario di viaggio: l’extended version è, come sempre su questo blog, nel quale sono stipati i ricordi di molte avventure dell’ultimo decennio.

Sono in perfetta armonia col mezzo tecnologico in questa missione analogica poiché mi regolo secondo l’antica regola del cum grano salis.  Spesso mi muovo in zone non coperte telefonicamente, oppure sono in situazioni che richiedono grande attenzione, oppure sono estasiato da un panorama o massacrato da una salita/discesa. Se voglio testimoniare quel momento con una foto o con un filmato mi fermo, ne approfitto per prendere fiato, scelgo il grano di sale e scatto. Da buon purista del viaggio non mi piace la commistione con mezzi e tecnologie che mi distraggono dall’ambiente nel quale sono immerso, però io sto qui per raccontare.

E siamo al punto.

Chi vive di scrittura probabilmente potrà capirmi: faccio parte del partito di quelli che credono che la bellezza vada diffusa in ogni modo, che un’esperienza creativa, intensa come quella di un viaggio – per di più in solitaria – vada narrata. Perché siamo figli dei nostri tempi, non ci possiamo arroccare su posizioni di oltranzismo turistico.

Raccontare è un modo di vivere, non di duplicare esperienze, ma di credere che le avventure accadono a chi le sa narrare. E non  parlo di abilità tecnica, di mestiere, ma di propensione, di attitudine alla curiosità. Per raccontare un’esperienza – nel tinello di casa come al Polo Nord, e spesso nel tinello accadono coseee… – non servono né una laurea, né un corso di scrittura creativa, serve solo un punto di vista. Sei tu e nessun altro in quel momento e vuoi che il succo di quella verità nutra quante più persone possibile. Perché solo così ti sentirai meno solo davanti alla potenza della porzione di universo nella quale hai la fortuna di sopravvivere. Raccontare significa ascoltare gli altri, non è un retwitt, non è un copia-incolla. È un atto di consapevolezza che ci libera dalla cecità degli odiatori da tinello, dai segaioli delle fake news, dai depressi di una dittatura prêt-à-porter che avvelena i pozzi del sapere con la nonchalance di un selfie vista Papeete.    

Serve il coraggio di prendere in mano la penna della propria esistenza e scriverlo, quel romanzo. Senza che siano gli altri a farlo per te.

P.S.
Oggi la razione quotidiana di chilometri è stata ottima e abbondante, la Cantabria è molto bella e le sue colline spaccano le gambe. Ma il mio romanzo di oggi parlava d’altro

(13 – continua)

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Il mio dio sghignazza

Da Santa Cruz de Bezana a Santillana del Mar.

È il tema più delicato e ci ho pensato a lungo l’inverno scorso mentre mi preparavo al Cammino, nonché adesso un passo sì e uno no. Quello della religione è l’aspetto più intimo e, per quanto mi riguarda, più controverso di questa esperienza. L’ho scritto qui: non sono un pellegrino classico, piuttosto mi reputo un camminatore laico. Questa mia condizione, che è una scelta ponderata, ha due conseguenze pratiche evidenti.
La prima è logistica. Non devo espiare nulla, non cerco nessuna intercessione dell’Altissimo, quindi opto per sistemazioni comode. Perché mai scegliere il sacrificio se non si deve chiedere un tubo? Non dormo negli albergue per pellegrini dato che l’unica promiscuità che mi piace è quella superflua, e col riposo siamo nel recinto del fondamentale.

La seconda riguarda la coerenza. Ogni pellegrino chiede una credenziale, un cartoncino sul quale vengono apposti i timbri delle tappe che attestano il compimento del pellegrinaggio. All’arrivo a Santiago, mostrando questo pieghevole, si riceverà la compostela cioè il documento dell’avvenuto pellegrinaggio, una roba a metà tra la benedizione e il certificato di frequenza di un corso professionale. Ebbene, io non ho mai chiesto la credenziale (credo di essere uno dei pochissimi) giacché il mio dio non si occupa di timbri e depliant turistici.

Stare per intere giornate da soli, senza parlare con nessuno – ad eccezione della sera quando si torna a un surrogato di vita normale, di cui comunque vi dirò – ha un vantaggio di non poco conto: si affila la lama dell’intransigenza e si smussano gli angoli delle inutili ostilità, quelle che popolano i nostri pensieri e che, lo scopri con divertita sorpresa, sono perlopiù muri di fumo, ostacoli di burro.

Dopo quello muscolare e articolare (lasciamo stare quello psicologico di cui sopportate la pena), l’allenamento più fruttuoso al quale vi sottopone  il Cammino del Nord è quello per resistere ai luoghi comuni. Ironia della sorte cito a esempio la città della Cantabria in cui scrivo queste righe, Santillana del Mar. In spagna è conosciuta come la città delle tre bugie perché, analizzando e scomponendo il nome, non è santa (santi), non è piana (llana) e non ha manco il mare.
Il mio dio sghignazza.

(12 – continua)

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M come mare, minchiate, Michelangelo

Da Güemes a Santa Cruz de Bezana.

La giornata dell’acqua ci voleva. Uno che viene da un’isola non può resistere all’attrazione del mare. Il Cammino del Nord ha questa particolarità, gioca di prestidigitazione con l’oceano Atlantico. Te lo nasconde all’inizio, costringendoti a scalare montagne, spaccandoti la schiena con pietraie e sentieri da giungla. Te lo svela il giorno dopo, ma è un miraggio perché poi ti spinge nuovamente all’interno giusto il tempo di avvertirne la mancanza, e poi te lo restituisce nelle sue declinazioni più diverse, quel benedetto mare: dalla forma più consumistica a quella più selvaggia, l’una accanto all’altra, senza soluzione di continuità. Il tratto che va da Pobeña a Santoña a Santa Cruz de Bezana è un alternarsi di spiagge popolari e distese infinite di sabbia deserte: tutto libero, tutto senza recinzioni. Attenzione però, anche il concetto di ressa va ridimensionato a queste longitudini: qui le spiagge sono ancora larghissime, puoi percorrere centinaia di metri sulla sabbia prima di raggiungere l’acqua, maree permettendo. Gli spazi sono molto ampi e anche ad agosto il livello di folla è paragonabile, estremizzando, a una Mondello di fine aprile.

Comunque, dicevo, oggi è stata la giornata dell’acqua. 

Da due giorni cercavo (e trovavo) deviazioni che mi consentissero di camminare vicino all’oceano, anzi sull’oceano: è un richiamo ancestrale che solo noi che veniamo dal mare possiamo capire. Come quando in pieno inverno sentiamo il bisogno di andare a controllare, inspiegabilmente, i nostri confini liquidi. Figuratevi che io, che vivo in città, pur di soddisfare questo bisogno, faccio la spesa a Mondello, vado in palestra a Mondello, sposto il baricentro della mia socialità a Mondello, a dicembre, con la tempesta, il freddo e la salsedine che mi mangiano le corna.

Insomma, guidato dallo stesso insano impulso, stamattina ho scelto di abbandonare la carretera che doveva portarmi all’imbarco per Santander. E ho rischiato. Perché camminare sulla sabbia, con lo zaino in spalla e le piante dei piedi già quasi al trecentesimo chilometro, è una scelta ai confini della minchiata. Sull’infinita spiaggia per Somo mi sono tolto scarpe e calze e con colpevole cautela ho guadagnato la risacca dell’oceano. Una fatica per le articolazioni, una gioia per lo spirito. Fresco sotto, caldo sopra. Fresco fuori, caldo dentro. Mille preoccupazioni: e se finisco con lo zaino ammollo (in alcuni momenti avevo l’acqua alle ginocchia)? E se la caviglia destra si licenzia? E come mi toglierò tutta ‘sta sabbia di dosso? Tutti scrupoli esilaranti per voi che state lì, ma vi assicuro che qui, durante un cammino di ottocento e passa chilometri, l’unica maniera per illudersi di prevenire i contrattempi è armarsi di scrupoli mai conosciuti prima.

In tutto questo, la morale del giorno mi si è impigliata tra i pensieri mentre traghettavo su una specie di peschereccio da Somo a Santander (ancora acqua, eh). Deriva da un mio antico mantra: le cazzate sono una cosa seria. Ci ho pensato a lungo perché è una frase di Neil Simon che ho scritto sulla prima pagina dell’agendina che ho sempre a portata di mano, durante il Cammino.

Dice: se non si rischiasse mai nella vita, Michelangelo avrebbe dipinto il pavimento della Cappella Sistina.

(11 – continua)   

Le altre puntate le trovate qui.

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Senza alibi, una volta tanto

Da Islares a Santoña.
Da Santoña a Güemes.

Strapiombi. Ho sempre avuto un’attrazione per gli strapiombi. Una sorta di vertigine alla rovescia, il vuoto che mi incuriosisce anziché spaventarmi. Nulla a che vedere con una forma di attrazione patologica: di deviazioni psicologiche ne ho ben altre e, ritengo, molto più divertenti.

Questa è una passione che origina dall’infanzia, dall’arrampicata sugli alberi di cui ho già parlato qui, e che ieri ha trovato degno coronamento in un sentiero impervio tra Liendo e Laredo. Poche centinaia di metri scoperti, cioè senza nessun tipo di protezione, ma con un panorama mozzafiato (ho postato qualche filmato sui social). Ci sono costoni di roccia che finiscono sull’oceano Atlantico e laddove sono percorribili – sempre con grande attenzione – regalano emozioni indelebili. Parola di ex arrampicatore.

Anche stamattina il Cammino ha fatto la sua parte nel titillare questa mia attrazione: la partenza da Santoña sul colle del Brusco è uno dei tratti più ripidi che abbia mai percorso, ma la vista sulla spiaggia di Berria, dove ieri ho fatto il bagno, è qualcosa che ripasserò inverno dopo inverno, magari in un noioso mercoledì pomeriggio, inutilmente buio e piovoso (la foto sopra non rende, ma serve per capire). 

Questo per dire che il Cammino apre molti cassetti: alcuni li credevamo chiusi, di altri non conoscevamo manco l’esistenza. Quando ti ricapita di stare solo coi tuoi pensieri, in scenari inauditi, sotto effetto di endorfine per gran parte della giornata? E quando ti ricapita di non avere alibi e poter finalmente affrontare, senza rotture di coglioni, le discussioni più complicate, quelle con te stesso?

L’effetto straniante di questa esperienza, visto come sconvolgimento della percezione abituale della realtà, è ogni giorno più evidente. E non è una cosa facile da spiegare: uno pensa alla vacanza, alla distrazione, al chi se ne frega… No, qui la cosa è molto diversa perché sai che alla fine questo effetto non svanirà col ritorno alle solite cose. Sai che ti darà una tridimensionalità non usuale: parlatene con chi ha fatto ciò che sto facendo io e capirete perché molti di loro si buttano nel Cammino più volte. E non è fanatismo, ma il suo esatto opposto: tolleranza coltivata in modo estensivo, latifondismo delle idee.

Comunque è inutile recensire l’aria, o la si respira o niente. Quindi o vi mettete in marcia oppure accettate la posizione di retroguardia, che è quella di chi guarda gli altri che fanno, di chi accetta una verità ottriata.

Più si va verso Santiago – e siamo ancora distanti – più cresce l’empatia con gli abitanti del luogo. Soprattutto gli anziani, soprattutto nei piccoli centri. A Guriezo un signore sulla settantina mi ha incrociato e mi ha augurato il buen camino di rito. Poi, non contento mi ha agganciato con la mano – una mano fresca e pulita come quella di una persona che prima di uscire da casa si è lavata e profumata con la colonia – e mi ha chiesto da dove venivo. Gliel’ho detto e lui ha cominciato a raccontarmi la storia di un viaggio che lui aveva fatto molti anni fa in Italia, in pullman, da Genova a Roma a Palermo: lì sul ciglio di un sentiero, alle nove di mattina, lui con la sua camicia fresca e il suo sguardo pulito (perché le mani e lo sguardo sono collegati, sappiatelo), e io con la mia maglietta ancora umida di lavaggio e la mia faccia da boxeur senza pugni. Mentre raccontava, nel suo spagnolo fragrante, mi sono incagliato in una ipotesi canagliesca che riguardava il suo viaggio in Italia: l’ho visto su una specie di carro bestiame gommato, tra bancarelle di paccottiglia, ristoranti-truffa, gruppi vacanze al limite del criminale… Poi, però, all’angolo del suo occhio sinistro è apparso un luccichio. Quella memoria gli aveva risvegliato qualcosa. La memoria è un cane fedele a un padrone che non sei tu. La sua stretta si è fatta più forte fino a quando non ha pronunciato una parola che non ho capito ma che temo fosse un nome proprio di persona. Non ho avuto il coraggio di chiedere, di sottilizzare.

Ma chi cazzo siamo noi per esigere sempre spiegazioni? Ci è mai passato per la mente, in quest’èra di ultime parole usurpate, di furto aggravato della ragione, che se non capiamo qualcosa è solo colpa nostra, fottutamente nostra?

Quell’uomo mi ha lasciato andare solo dopo un lungo silenzio, e tra sconosciuti cinque secondi senza una parola, guardandosi in faccia, sono un’eternità che segna. Lui con la sua camicia fresca di prima mattina, e io con una faccia da boxeur in vacanza ora illuminata di un luccichio all’angolo di un occhio.
Che ho nascosto come un ladro, per liberarlo durante il mio Cammino.
Senza alibi, da solo.

(10 – continua)

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Grazie, fuck you, au revoir

Da Pobeña a Islares.

Finalmente il ritorno della bellezza.Dopo i “panorami” di ieri, al confronto dei quali la zona industriale di Termini Imerese è patrimonio Unesco, ho riconquistato la vista dell’oceano. E l’ho fatto seguendo uno dei tratti più belli del Cammino del Nord, quello che ti regala i cinque chilometri incantati del Paseo Itsalur, una passeggiata a strapiombo sull’Atlantico (nella foto sopra) per la quale bisogna pagare dazio: una rampa di 119 scalini a freddo, come inizio di giornata.  

E qui va aperta una parentesi.
In un ambito in cui ogni giorno, bene che vada, si consumano muscoli e articolazioni per cinque-sei-sette ore, la vera moneta non è l’euro, ma il chilometro. Nello specifico, la posada in cui alloggio stasera è, come spesso accade, in una località sperduta. Per cena io posso scegliere: o rifugiarmi in un bar a poca distanza e trangugiare panini decrepiti e birra oppure mettere le gambe in spalla e camminare per due chilometri e mezzo verso una radura che si trasforma in piazza e accoglie tutte le anime di questa montagna vista mare (che stasera sono tutte qui e sono una folla di non più di cento persone). Questa indicazione me l’ha data il proprietario della posada, un anziano che si esprime a gesti e disegni: per indicarmi la via ha scarabocchiato su un foglietto qualcosa di amabilmente incomprensibile (infatti il reperto è già in archivio) e mi ha dato una pacca sulla spalla. Una via di mezzo tra un “buona fortuna” e un “non rompere i coglioni”.

Insomma, decrittato il post-it di Hammurabi, arrivato sul posto e “pagato” i 2,5 chilometri in più che con quelli del ritorno fanno cinque, ho messo mano all’altro portafoglio, quello della lingua. Nel Cammino quelli come me parlano un nuovo esperanto, un tragico incrocio tra inglese, francese, spagnolo e ovviamente italiano. È una vera forma di credito/debito giacché è alla base di ogni scambio sociale, economico, umano. Tra Paesi Baschi e Cantabria l’idioma trasmigra nella gestualità, un po’ come da noi, e il popolo dei pellegrini comincia a ingrossarsi (al momento si cammina ancora in perfetta solitudine, ma temo di essere stato fortunato). C’è il magico incrocio delle lingue, che detto così pare una cosa da film porno, ma che in realtà è qualcosa di molto più complicato e che determina la nascita di una nuova lingua ufficiale: quella della sopravvivenza.

Chiedi “quanto costa” in francese perché le tue vacanze sulle nevi della Savoia ti hanno abituato a slogare il portafoglio. Spieghi da dove vieni in inglese perché “where you came from?” era la frase-salvezza nelle tue prime vacanze da adolescente nel buco nero della vita di relazione. Ordini da mangiare in spagnolo perché “jamon y queso” è più facile da sillabare di “prosciutto e formaggio”. E dici “grazie”, “fuck you”,  “au revoir”,  “bocadillo” nello stesso discorso (capita, eh!) perché le parole hanno un suono e non c’è nazionalità che possa toglierglielo. Musica, null’altro che musica.

Alla fine tu capisci che c’è un mondo anarchico e reale che resiste alle miserie istituzionali dei piccoli duci che vorrebbero costruire la storia in mutande e cellulare da Milano Marittina, e lo fa con l’unica arma che Dio o un dio gli ha dato: viaggiare, ovvero conoscere gli altri, ovvero imparare dalle diversità, ovvero aprirsi anziché chiudersi.

Rideteci pure.
Ma per sicurezza segnatevelo.

(9 – continua)

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Pizza vista nulla

Da Bilbao a Pobeña.

Sono in un postaccio alla periferia di Muskiz, che già Muskiz di suo è un paese arroccato tra raffinerie e asfalto, figuratevi un luogo alla sua periferia. Bevo Estrella Galicia e in un sottofondo che tende all’invadenza c’è una compilation di neomelodici ispanici (che di certo non fanno lezioni di legalità in Spagna, ci metto la mano sul fuoco). Le due ragazze del bar sono gocce di miele in una tana di orsi, non parlano altra lingua che non sia la loro, tipo se dici beer oppure table (the beer is on the table, altro che the book…) loro ti guardano e ridono con una giovinezza alla quale si perdona tutto, pure la presa per il culo.

Sto celebrando la degna conclusione di una giornata da trenta chilometri di asfalto, tra zone industriali e cittadine appena apprezzabili. Questo tratto che mi riconduce all’oceano è forse il più brutto dell’intero Cammino del Nord, ma lo sapevo.

In questo viaggio sto perfezionando una tecnica (per me) molto complessa: sviluppare tolleranza. Sto migliorando, ma non ne sono apertamente orgoglioso. L’opposto che mi riguardava non era l’intolleranza, parola orribile dalle implicazioni indecenti soprattutto alla luce di questi tempi infami, ma qualcosa che ha a che fare con la diffidenza. Sono sempre stato diffidente, nei confronti delle persone, del cibo, della religione. Al limite del negazionismo per fondamentali argomenti tipo le acciughe nella pizza o il midollo nel risotto.

Quindi il gioco è il seguente: data una situazione fisicamente complessa con asperità sociali di vario livello, uno se ne può uscire senza scappare? Oggi la risposta è: si – può – fare (cit)!

Nei postacci in cui sono stato negli ultimi giorni – un paio rimarranno memorabili – sono riuscito a trovare sempre un elemento d’appeal, secondo una vecchia regola di giornalismo. Che dice: critica pure in modo atroce il ristorante, ma occhio ai gabinetti, se sono accettabili scrivi ‘ si mangia di merda, ma i cessi sono ottimi’. In tal modo si evita, anche platealmente, la trappola del pregiudizio. E il pregiudizio te lo metti in sacchetta quando, sono le 21, e hai accanto un giovane che potrebbe essere tuo figlio e fa cena/aperitivo con aranciata e patatine fritte. Aranciata e patatine! Che dalle mie parti gli danno un metadone di nero d’avola e tenerumi.

Per dire, in alcuni di questi piccoli centri baschi si mangia maluccio però, non sai come, c’è sempre un buon gin (da Bombay a salire) col quale concludere una cena al limite del commestibile. Ti danno delle polpette di prosciutto grasse e oleose, ma in compenso fanno insalate sublimi (sanno usare molto bene i peperoni e le cipolle) che da sole valgono il conto. Ti nutrono a panini, ma mantengono uno standard ufficiale di qualità che è quasi una bandiera. Hanno cittadine anche mediocri, ma il wi-fi pubblico è una bomba.

Insomma sfidano quella che tu chiami tolleranza e che il resto del mondo chiama, sottovoce, capriccio.  Stasera sfidando tutte le leggi a me note, ho chiesto una pizza margherita con salame piccante. Il loro salame è il chorizo ed è carnazza per me. Ho mangiato con gli occhi chiusi  e mi è piaciuto come un peccato mortale amnistiato.

Il Cammino è anche questo.

(8 – continua)

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Coraggiosi e/o kamikaze

Bilbao.

Con l’arrivo a Bilbao assaggiamo la città. E Bilbao è pure una città particolare. Piccola e compressa, non ha spazi liberi, è tutta scale e salite (le salite, ah!) tranne il lungofiume, ha un bel centro storico in cui è divertente sbevazzare, e ha il Guggenheim. Il Guggenheim è la pietra angolare di un ragionamento culturale che ha diviso non soltanto una nazione. Bello e controverso, il museo è l’investimento di una comunità (è stato realizzato esclusivamente con fondi baschi). Può piacere o meno – a me fa impazzire – ma comunque  attrae attenzione, ergo fa il suo lavoro.

Il Guggenheim è ciò che è moderno e coraggioso, ciò che è stato portato avanti grazie all’innovazione, che è arte più antica e più genuina di quanto si pensi. È soprattutto una colossale scommessa urbanistica, concettuale. In pratica è una spremuta di quel che manca nella mia terra dove le scommesse sono affidate a kamikaze culturali e vige la dittatura del “colpa tua, merito nostro”.

Tra qualche giorno lascerò la terra basca per entrare in Cantabria. Magari la smetterò di interrogarmi sulle origini misteriose di questo popolo. In tutto ciò risento di una strana sindrome che ha una componente genetica. Quando mio padre viaggia ha una singolare ossessione: capire come minchia campa la gente di quei luoghi (io che ho viaggiato con lui, vi assicuro che può mettere a dura prova il sistema nervoso quando, analizzata l’economia del luogo, lui tira fuori un “sì, però…”).

Ecco, io sono così per le origini, le beghe dinastiche, il bilancino della storia o addirittura della preistoria. Ora immaginate quanti pensieri, discussioni con poveri malcapitati nell’ora cruciale, quella dell’aperitivo, ho inanellato per analizzare gli albori di un popolo, quello basco, che nessuno conosce: la lingua non ha nulla di europeo, c’è chi dice che discendano dai sumeri; i più fantasiosi (che vorrei avere a cena almeno una volta alla settimana) fanno un collegamento col mito di Atlantide.

Insomma, forse a buon diritto, i baschi si sentono e sono altro. Li ho frequentati e, tastandone la fierezza altera e magari scostante, credo che l’indipendenza alla quale anelano sia una sorta di contentino: non è solo la Spagna che gli va stretta…

Insomma, oggi ho camminato poco sulle mie gambe (solo 10 chilometri) e molto su quelle della coscienza civile. Vorrei che la mia Palermo, che è più grande e più cruciale nello scacchiere del mondo attuale,  imparasse a essere fiera e coraggiosa. L’innovazione vera non dà mai consensi facili – nel mio piccolo ne so qualcosa – ma richiede una continua dose, anche omeopatica, di coraggio. Il coraggio non di chi innova – quella al limite è sana incoscienza – ma di chi glielo consente.

Ok camminiamo.   

(7 – continua)      

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.