Comunque i centimetri contano

Da Lourenzá a Abadìn.

Non invocherò la famosa questione di centimetri. Nossignori qui si discute di metri, diverse centinaia, quasi un chilometro.  La storia di oggi è la storia di un’illusione orografica, di un grande inganno topografico.

Tutto era cominciato in ritardo, come al solito. La stragrande maggioranza dei pellegrini/camminatori si mettono in marcia quando nella mia stanzetta d’albergo c’è ancora la nebbia, con le rane che gracidano e il sole che gira al largo. Io mi alzo con calma intorno alle 8,30, faccio colazione, raccatto le mie cose (con uno zaino-casa vi assicuro che non è operazione rapida), poi parto. Insomma inizio a vivere quando gli altri stanno morendo sulla seconda salita.

Mentre prendo il caffè e ingurgito calorie sotto forma di cornetto, pane o altro prodotto da forno d’annata (qui ci si imbatte in colazioni non sempre da gourmet, del resto è Cammino e non Promenade), consulto il mio manuale-guida per rinfrescarmi la memoria sul sacrificio che mi attende. Stamattina mi ha colpito una frase riferita a una salita: “L’ultimo quarto sarà decisamente duro!”. Solitamente questa guida tende a evitare i toni assoluti ed è solita derubricare i tratti drammatici a tratti difficili, senza mai usare i punti esclamativi. Stamattina lo beccai, ‘sto punto esclamativo. E per una sorta di autodifesa inconscia l’ho ignorato.

Cammin facendo ho macinato salite su salite e quel “decisamente duro” ha cominciato a riaffiorare. A ogni tratto in pendenza – e oggi c’era un nastro di almeno 7-8 chilometri di saliscendi – pensavo: “Beh, questo è ‘decisamente duro’”. In modo da giustificare la mia crescente fatica e contemporaneamente allontanare lo spettro di qualcosa di peggiore. Verso la fine di questa lunga strada tra le montagne ero quasi convinto di avere definitivamente alle spalle il tratto maledetto: del resto avevo faticato moltissimo, più del solito, devo ammettere. A un certo punto ero abbastanza in alto sul costone, e stare in alto significa avere le salite alle spalle a meno che uno non auspichi altro tipo di ascensioni che in vita sono un po’ difficili da compiere senza adeguato sussidio tecnologico. Ed è accaduto l’imprevedibile. Passo dopo passo la strada ha cominciato a scendere verso il fondo valle, io mi chiedevo che cazzo ci fosse lì sotto, la casa di Biancaneve, un villaggio di gnomi, la stazione di partenza di una teleferica. Niente, si scendeva vertiginosamente, perdendo tutto il vantaggio accumulato in litri e litri di sudore nelle tre ore precedenti. Poi, prima di una curva a destra il colpo di scena, tipo lama nel buio in un film di Dario Argento: un cartello, dipinto a mano (nella foto sopra): “Ultreia animo!!!”, che significa “andiamo avanti, forza”. Ancora punti esclamativi, ma stavolta non li potevo ignorare. Infatti dietro quella maledetta curva il mondo cambiava e diventava verticale. La più pesante salita di questo Cammino: dura per una congerie di motivi, perché arriva alla quarta settimana di fatica ininterrotta, perché arriva dopo pranzo (pranzo, beh…) quando tu vorresti farti un pisolino, perché arriva a tradimento, perché arriva e hai ancora dieci chilometri da fare.

Non è eroismo, ma semplice sopravvivenza. Vorresti buttarti per terra se non fosse che per la pendenza ti prenderebbero in caduta libera a Bagheria entro un paio d’ore. Vorresti superare i due pellegrini che ti camminano davanti con un’andatura che è più lenta della tua in modo da disturbarti (il ritmo è tutto in queste prove), ma non sufficientemente lenta da consentirti un sorpasso, insomma ti rompono i coglioni al cubo. Vorresti un elicottero, un aiuto da casa, uno skilift, un letto, vorresti la musica giusta ma in quel momento c’è una rivolta delle playlist nel tuo smartphone, vorresti una maglietta pulita e non quello straccio fradicio che hai addosso, vorresti divano tv birra e rutto libero, vorresti urlare al mondo che tu non sei un pellegrino, che non vuoi espiare niente, che manco la credenziale hai (probabilmente sei l’unico cretino che non chiederà nulla a San Giacomo contando sul fatto che se quello è santo non ha bisogno di suggerimenti o ed è immune alle raccomandazioni). E invece sei lì inchiodato a quello sterrato che ti tira giù mentre tu sali su. “Ultreia et suseia”, c’è scritto in un altro cartello lungo questa via crucis di terra e sassi al limite del ribaltamento. Lo guardi che sei a un passo dall’infarto e l’ultima kilocaloria succhiata da una caramella che ti fa pure schifo perché è di pappa reale e tu non sai manco cos’è la pappa reale, la dividi tra il brandello di quadricipite femorale destro che ti è rimasto funzionante (il sinistro va a traino tipo Di Maio col primo partito che passa) e l’ultimo neurone non fulminato da caldo e fatica: solo allora realizzi che “ultreia e suseia” non è il grido di battaglia di un pastore sardo incazzato, ma l’invocazione ad andare “avanti e più in alto”.
Più in alto??? 

(25 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Il doping per lo spirito

Da Ribadeo a Lourenzá.

Cortocircuiti della modernità. Mentre scarpinavo sulle salite della Galicia sono stato coinvolto, complice la felice connessione del mio iPhone (che mi regala la musica con la quale mi drogo senza ritegno) dalle notizie che arrivavano dall’Italia: la crisi di governo e, molto più importante, la scomparsa di un caro amico, Ariberto (di cui ho scritto qui).  

Giornata strana oggi.

Un percorso nel profondo del nulla, attraverso paesini che non sono paesini, ma quattro case fantasma incatenate da trazzere.
Un cielo che manda giù pioggia giusto il tempo di scafandrarti per poi cuocerti alla griglia, anzi come dicono qui a la plancha, sotto un sole caino.
Un’immersione nella natura selvaggia di immensi boschi turbata da uno stop forzato, nel cuore di una montagna, perché stanno abbattendo alberi per l’industria della carta (e questo apre un dualismo doloroso nella coscienza del giornalista-camminatore).
Un bar, l’unico nel raggio di dieci chilometri e passa, che dovrebbe darti elementi solidi di ristoro, ma che invece è una specie di bettola in cui due galiziani fumano, bevono e non vogliono essere disturbati: sgomma, che qui non abbiamo niente per te.

Ma è anche la giornata in cui un contadino si ferma col trattore perché ti vede su un sentiero sbagliato e ti riporta sulla retta via, e mai metafora fu più luminosa: dandoti un buen camino e il cinque, in una inusitata doppietta di sacro e profano, di antico e moderno, di reale e ultra-reale.
È la giornata di un’anima ansimante che vedi in cima alla salita. È in difficoltà, te ne accorgi perché si fa raggiungere entro poche centinaia di metri. Scopri che è un ragazzo, uno molto più giovane di te, e va piano perché ha la mano destra impegnata. Direte voi, cammina con le mani? No, ha un rosario (nella foto sopra) e scandisce i suoi passi con una nenia che avverto ma non sento.
Mi piace pensare che sia una specie di doping per lo spirito.
Mi piace pensare che sia per Ariberto che, in quel frammento di giornata, per me è ancora vivo mentre se n’è andato nella discrezione a lui consona più di una settimana fa.

(24 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.