I trucchi della pro-loco

Da Abadìn a Vilalba.
Da Vilalba a Xeixòn.

Cominciamo dalla fine. Sono in un hotel-ristorante a vocazione più che campagnola, dalle parti di Guitiriz in Galicia. È ora di cena, intorno a me in una sala semideserta ci sono due coppie e una donna sola. Nessuno di loro veleggia al di sotto degli ottant’anni. Il più giovane, temo in un raggio di tre chilometri quadrati, è il cameriere, Ramon (naturalmente!), che riempie il riempibile con la sua presenza amplificata, la sua voce, la sua gestualità da torero. Ensalada, olè! E l’asparago abbracciato a lattuga e pomodoro vola sul tavolo come un boccale di birra nel far west. Qui non c’è un menù scritto, tutto passa attraverso l’ugola di Ramon. Che avendo scoperto il sottoscritto in sala, si diverte a tradurre in italiano – a suo modo – ogni frase scambiata con gli ottuagenari. I quali, facendo buon viso a cattivo gioco, sorridono e annuiscono perché segretamente hanno spento tutti gli apparecchi acustici. Saranno anziani, ma non fessi.

È la degna conclusione di una due giorni coi chilometri all’ammasso e con l’umore che resiste, nonostante la fatica si faccia sentire (sono comunque oltre il settecentesimo chilometro in un mese di marcia senza soste). È come se il Cammino ti dotasse di anticorpi, ti regalasse una resistenza che non è fisica, ma ironica: un modo di guardare al disagio come a un’occasione per masticare tra i denti un chewing-gum al sapore di “chi se ne frega”.

Ieri ho incontrato un signore, avanti con l’età, (qui i giovani o li nasconde la pro-loco oppure si travestono da vecchi per assecondare la moda del luogo) che passeggiava sotto il sole alle tre del pomeriggio. Aveva cappello di paglia, bastone, camicia ben stirata. E camminava sereno sotto le martellate della calura galiziana. Affiancandolo gli ho chiesto “come va?”. E lui: “Passeggio sennò dopo pranzo mi viene sonno e la notte non dormo”.

Semplice logica di campagna che in una dozzina di parole azzera sessant’anni di servizi dei telegiornali sugli anziani e il caldo: probabilmente qui li mettono a essiccare come i pomodori e magari si conservano meglio. Di fatto la Galicia è più fresca delle nostre contrade. Non fresca a tal punto da debellare un’epidemia che, man mano che ci si avvicina a Santiago, mette a dura prova un organo sensibile e sottovalutato in questi frangenti: il naso. Col passare dei chilometri e dei giorni la cura nel lavare gli indumenti deve aumentare poiché il sapone è sapone, ma le magliette sempre tre sono. Stamattina ho avuto la sfortuna di finire sottovento rispetto al pellegrino sbagliato, e ne è venuto fuori un rarissimo caso di scatto in salita. In apnea per giunta.

Era la tappa più lunga del Cammino del Nord, quasi 33 chilometri, ma nonostante il caldo che mi ha costretto a muovermi a zigzag per cercare l’ombra degli alberi – tipo ubriaco – non è stata la più terribile. Merito anche di un pisolino schiacciato sul fieno, nel nowhere di una landa dove zanzare, formiche, vermi e mosche hanno firmato una pax sindacale che consente allo stanco viandante di riposare in modo da ritrovarlo più forte quando, rimessosi in piedi, bisognerà tornare a rompergli i coglioni.
Che geni questi della pro-loco.

(26 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Comunque i centimetri contano

Da Lourenzá a Abadìn.

Non invocherò la famosa questione di centimetri. Nossignori qui si discute di metri, diverse centinaia, quasi un chilometro.  La storia di oggi è la storia di un’illusione orografica, di un grande inganno topografico.

Tutto era cominciato in ritardo, come al solito. La stragrande maggioranza dei pellegrini/camminatori si mettono in marcia quando nella mia stanzetta d’albergo c’è ancora la nebbia, con le rane che gracidano e il sole che gira al largo. Io mi alzo con calma intorno alle 8,30, faccio colazione, raccatto le mie cose (con uno zaino-casa vi assicuro che non è operazione rapida), poi parto. Insomma inizio a vivere quando gli altri stanno morendo sulla seconda salita.

Mentre prendo il caffè e ingurgito calorie sotto forma di cornetto, pane o altro prodotto da forno d’annata (qui ci si imbatte in colazioni non sempre da gourmet, del resto è Cammino e non Promenade), consulto il mio manuale-guida per rinfrescarmi la memoria sul sacrificio che mi attende. Stamattina mi ha colpito una frase riferita a una salita: “L’ultimo quarto sarà decisamente duro!”. Solitamente questa guida tende a evitare i toni assoluti ed è solita derubricare i tratti drammatici a tratti difficili, senza mai usare i punti esclamativi. Stamattina lo beccai, ‘sto punto esclamativo. E per una sorta di autodifesa inconscia l’ho ignorato.

Cammin facendo ho macinato salite su salite e quel “decisamente duro” ha cominciato a riaffiorare. A ogni tratto in pendenza – e oggi c’era un nastro di almeno 7-8 chilometri di saliscendi – pensavo: “Beh, questo è ‘decisamente duro’”. In modo da giustificare la mia crescente fatica e contemporaneamente allontanare lo spettro di qualcosa di peggiore. Verso la fine di questa lunga strada tra le montagne ero quasi convinto di avere definitivamente alle spalle il tratto maledetto: del resto avevo faticato moltissimo, più del solito, devo ammettere. A un certo punto ero abbastanza in alto sul costone, e stare in alto significa avere le salite alle spalle a meno che uno non auspichi altro tipo di ascensioni che in vita sono un po’ difficili da compiere senza adeguato sussidio tecnologico. Ed è accaduto l’imprevedibile. Passo dopo passo la strada ha cominciato a scendere verso il fondo valle, io mi chiedevo che cazzo ci fosse lì sotto, la casa di Biancaneve, un villaggio di gnomi, la stazione di partenza di una teleferica. Niente, si scendeva vertiginosamente, perdendo tutto il vantaggio accumulato in litri e litri di sudore nelle tre ore precedenti. Poi, prima di una curva a destra il colpo di scena, tipo lama nel buio in un film di Dario Argento: un cartello, dipinto a mano (nella foto sopra): “Ultreia animo!!!”, che significa “andiamo avanti, forza”. Ancora punti esclamativi, ma stavolta non li potevo ignorare. Infatti dietro quella maledetta curva il mondo cambiava e diventava verticale. La più pesante salita di questo Cammino: dura per una congerie di motivi, perché arriva alla quarta settimana di fatica ininterrotta, perché arriva dopo pranzo (pranzo, beh…) quando tu vorresti farti un pisolino, perché arriva a tradimento, perché arriva e hai ancora dieci chilometri da fare.

Non è eroismo, ma semplice sopravvivenza. Vorresti buttarti per terra se non fosse che per la pendenza ti prenderebbero in caduta libera a Bagheria entro un paio d’ore. Vorresti superare i due pellegrini che ti camminano davanti con un’andatura che è più lenta della tua in modo da disturbarti (il ritmo è tutto in queste prove), ma non sufficientemente lenta da consentirti un sorpasso, insomma ti rompono i coglioni al cubo. Vorresti un elicottero, un aiuto da casa, uno skilift, un letto, vorresti la musica giusta ma in quel momento c’è una rivolta delle playlist nel tuo smartphone, vorresti una maglietta pulita e non quello straccio fradicio che hai addosso, vorresti divano tv birra e rutto libero, vorresti urlare al mondo che tu non sei un pellegrino, che non vuoi espiare niente, che manco la credenziale hai (probabilmente sei l’unico cretino che non chiederà nulla a San Giacomo contando sul fatto che se quello è santo non ha bisogno di suggerimenti o ed è immune alle raccomandazioni). E invece sei lì inchiodato a quello sterrato che ti tira giù mentre tu sali su. “Ultreia et suseia”, c’è scritto in un altro cartello lungo questa via crucis di terra e sassi al limite del ribaltamento. Lo guardi che sei a un passo dall’infarto e l’ultima kilocaloria succhiata da una caramella che ti fa pure schifo perché è di pappa reale e tu non sai manco cos’è la pappa reale, la dividi tra il brandello di quadricipite femorale destro che ti è rimasto funzionante (il sinistro va a traino tipo Di Maio col primo partito che passa) e l’ultimo neurone non fulminato da caldo e fatica: solo allora realizzi che “ultreia e suseia” non è il grido di battaglia di un pastore sardo incazzato, ma l’invocazione ad andare “avanti e più in alto”.
Più in alto??? 

(25 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.