Chi si è fregato le discese?

Da Markina a Guernica.
Da Guernica a Lezama.

Sono stati due giorni di montagna. Di salite e discese e di quel calcolo complicato che non torna mai: sono misteriosamente più le prime delle seconde. Mi sono sempre chiesto, soprattutto nelle ultime 48 ore, dove vanno a finire le discese che mancano?

Che poi si fa presto a dire discesa. In realtà chi mastica un po’ di montagna e di corsa in altura sa che le discese ripide sono più faticose delle corrispondenti salite. Ed è anche una bella metafora, se volete. Spendiamo una vita evitando la fatica che ritroviamo proprio laddove non credevamo di incontrare: beh, take it easy.

Ho camminato per giornate intere senza incontrare anima viva. Questa prima parte del Cammino del Nord è scarsamente popolata, per fortuna. La stragrande maggioranza di quelli che dicono di aver fatto il Cammino di Santiago (come molti politici di ieri e di oggi, ad esempio) in realtà hanno percorso solo gli ultimi chilometri. Le poche occasioni di socializzazione sono quelle della sera, quando si torna a un barlume di civiltà (ci sono tappe in luoghi inesistenti ma affascinanti) e lì viene fuori la forza subliminale del Cammino nella catalizzazione dei rapporti umani. Ci si riconosce senza essersi mai visti, ci si affianca senza presentazioni. Un paio di birre, i piedi nudi, qualche sedia che si aggiunge e si socializza. Ma in modo completamente diverso da quello consono. Il Cammino è una way of life che toglie fronzoli e accende gli occhi della mente. Ho incontrato storie inaudite, ognuna delle quali varrebbe un libro o un film. O una preghiera, per chi ci crede.

C’è il ventenne olandese che è indeciso tra le sue due passioni: la musica o la finanza. È in cammino per capire quale sarà il destino che lo aspetta, e non state qui a banalizzare che potrebbe fare entrambe le cose perché nella sua visione non esiste il pannicello caldo. O musica o numeri. Way of life.

C’è il grafico pubblicitario spagnolo, felicemente sposato e altrettanto felicemente da solo in cammino, che insegue un’ idea di cui non ha idea. Una specie di hippy con iPhone e sandali che mi chiama hermano per via dell’età e dei capelli: l’una aumenta, gli altri diminuiscono. Siamo quasi coetanei, ma lui ha fatto più e meglio di me. Way of life.

C’è poi una ragazza francese che lungo questi chilometri sta decidendo il destino suo, della sua famiglia e di una comunità. Ha un buco nero da colmare o da richiudere. Nella vita di chi racconta credo che non ci sia nulla di peggio che dover scovare l’orrore nella bellezza, e la storia di questa donna mi accompagnerà per sempre. Lei è l’unica di noi a sapere chi si è fregata la sua discesa.
Way of life.

(6 – continua)  

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.


Se il vitello si dà arie

Da Deba a Markina.

La questione è semplice e spiazzante. Le distanze tra una tappa e l’altra vengono stabilite dalle guide (di cui avremo modo di parlare nei prossimi giorni) prendendo come punto di riferimento gli albergue per pellegrini. Io non sono un pellegrino, almeno nel senso classico. Lo spiego una volta per tutte, dato che alcuni me lo hanno chiesto sui social. Sono un camminatore laico, uno che sta sperimentando su se stesso un’esperienza speciale: non ho un’illuminazione religiosa canonica e non me ne frega niente della benedizione finale. Il mio dio non si perde in dettagli turistici. Inoltre non dormirei mai in una camerata insieme con altre sei-otto persone, non mi laverei mai in docce comuni e tantomeno mi metterei a turno per andare in bagno: per giunta in vacanza. Ditemi quello che volete, ma dopo aver scarpinato per una trentina di chilometri ci mancherebbe solo dividere il sonno con una banda di russatori e fare la doccia tipo servizio militare. Sarò capriccioso e snob, ma ho (ancora) un discreto livello di amor proprio.

Gli albergue quindi. Sono il punto di riferimento del Cammino (degli altri). E, rovescio della medaglia, i miei hotel e B&B sono abbastanza distanti dalle rotte ufficiali. Ciò spiega la cosa molto semplice e spiazzante di cui sopra: più chilometri da percorrere.

L’esempio di oggi è chiaro. Da Deba a Markina avrei dovuto percorrere 24 chilometri e 700 metri. Ne ho percorsi 32 e 250. Occhio, otto chilometri in più in montagna significano almeno due ore di cammino che non ci dovevano essere. A tutto ciò si aggiunga che la tappa era una delle più dure, dato che si sale in altitudine e che dall’ottavo chilometro si viaggia in autosufficienza perché non ci sono più ristori e fonti d’acqua. Insomma, roba da farsi prendere dalle visioni: col tempo che cambia da pioggia a sole, la temperatura che si impenna in un fiat da 18 a 30 gradi, un bivio cruciale preso alla cieca con conseguente errore di percorso (prezzo da pagare: due chilometri in più), un unico essere umano che incontri in tutta la giornata e che invece di darti una dritta su come ritrovare la via smarrita ti comincia a rintronare di minchiate, perché ha scoperto che sei siciliano come un suo amico, tale Calogero, che da quelle parti ha messo su un’industria specializzata nella conservazione del pesce e bla bla. Che a me fa pure schifo, il pesce conservato.  E poi, ciliegina sulla torta, la visione arriva. Un vitello esuberante  blocca un sentiero stretto e viscido. Tu gli dici: togliti da lì, che figurati io manco ti mangio, se tu fossi un asparago potresti temere, togliti da lì ripeto, e poi non sei manco un toro. E invece quello ti guarda e ti ricorda, cretino che non sei altro, che hai una maglietta rossa, uno zaino pesante sulle spalle, solo due zampe e gli occhiali appannati per la fatica. Ebbene sì, il vitello poteva chiudere la partita con una sventagliata di coda. Invece mi ha guardato sbuffando mentre, come un ladro, strisciavo su una parete fangosa a pochi centimetri dal suo orifizio più allarmante.

Pensiamo sempre a finali avventurosi per le nostre vite. Mai che ci scappi il timore, pure reale e fondato, di restare fulminati dal peto di un vitello. 

(5 – continua)  

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Appeal zero, of course

Da Zarautz a Deba.

Il terzo giorno di viaggio, da Zarautz a Deba, è stato faticoso per uno strano fenomeno di addizione. Strano perché mi ha preso alle spalle in questo mood di sottrazione. 

Si sono sommate due forze diverse. Da un lato la fatica accumulata ed esasperata dalla mancanza di recupero. Dall’altra una soave forma di assuefazione alle cose che normalmente ti disturbano, tipo la pioggia, il fango, un muscolo che duole.

La fatica, come i maratoneti sanno bene, è una droga. Le endorfine liberate durante uno sforzo prolungato sono una cocaina naturale che snebbia le idee, fertilizza la creatività, pompa autostima. A proposito di autostima, c’è un divertente siparietto che facciamo con alcuni amici improvvisati, qui durante il Cammino. Ci guardiamo, la mattina infagottati nei nostri mantelli impermeabili con gli occhi gonfi e i lineamenti stanchi (tipo la foto sopra), oppure la sera coi nostri orribili sandali e la nostra maglietta da “tempo libero” (sempre la stessa), e ci diamo voti che convergono in un unico risultato: appeal zero.

Insomma, maschi e femmine, siamo il miglior preservativo di noi stessi. Infatti generalmente ce ne stiamo ognuno per i cazzi nostri, per amor proprio.

L’immagine più sexy che ci si scambia è quella dei nostri piedi dopo che ognuno di noi ritiene di aver sperimentato il miglior trattamento segreto: chi dice vaselina, chi dice burro di karitè, chi dice acqua e bicarbonato.

Tornando alla fatica, qui non c’è una competizione. Nel Cammino la fatica è un investimento, non un dazio da pagare. Perché io non so se ce la farò a percorrere tutti questi chilometri – nessuno lo sa – però so che devo far fruttare ogni passo con questo maledetto zaino che affatica più le spalle che le gambe. E investire costa.

L’assuefazione invece ti intorpidisce, ti incanta. Non senti più la pioggia che ti martella le ossa tipo il tizio della Plasmon e intanto quella lavora sul tuo sistema scheletrico. Non ti curi del fango e intanto quello lavora sul tuo involucro penetrando nelle pieghe più impensabili. Non ti curi del doloretto all’adduttore (che da maratoneta ti avrebbe fatto suonare una sirena d’allarme che avrebbero sentito da qui a Bagheria) e intanto quello sta apparecchiando al tuo fisioterapista una stagione autunno-inverno coi fiocchi.

Ecco l’insieme di queste due forze dà la dimensione dell’eccezionalità di una missione così. Che forma e, come dicono i miei amici, deforma. Gioiosamente.

(4 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Primo, trattarsi bene

Da San Sebastiàn a Zarautz.

Scarpinando per i sentieri scoscesi (e scoscesi è dire poco) che da San Sebastiàn conducono a Orio, tappa intermedia prima della destinazione Zarautz, ero concentrato sulle pietre viscide, sui torrentelli di fango, sulle cadute da evitare.

Da queste parti la pioggia d’estate è un fenomeno frequente a causa dei sistemi nuvolosi dell’oceano Atlantico che vengono bloccati dalla Cordigliera Cantàbrica e che danno origine al Favonio (cioè il Föhn) che spinge le masse umide verso l’alto innescandone la condensazione. Ergo, per uscire dal pieroangelese,  piove spessissimo e per giornate interminabili. Intanto tu cammini, fatichi, stai concentrato sul terreno, sulla tua tenuta e pensi.

Pensi. Pensi in modo completamente diverso dal solito.

È come se finalmente ti avessero tolto quel freno a mano di cui non ti rendevi conto. Come se il grande manovratore del tuo cervello si fosse preso un giorno di ferie e avesse lasciato il comando a un anarchico pacificato, giovane, un po’ fuso e sublimemente perverso.

Credo che il Cammino sia una delle più potenti centrali mondiali produttrici di pensieri trasversali. Come in “Tempi Moderni” con Charlie Chaplin che avvita bulloni: solo che lì è catena di montaggio, qui è catena montuosa.

Insomma mentre macinavo chilometri obliqui – nulla è dritto qui – circondato dall’acqua (dal cielo, sulla terra, sullo sfondo, dentro le scarpe e, ahimè, sugli occhiali) creavo link per similitudine e contrappasso e scoprivo nuove ragioni nel ricordo.

Così per la rapidità nel saper saltare in discesa da una pietra all’altra ringraziavo le stagioni di presciistica vissute da ragazzino con il tosto maestro Cicero.

Così per superare le chiazze di fango recuperavo l’illusione del “passo leggero” di quando eravamo ragazzini e pensavamo che il peso corporeo fosse un dato relativo, a seconda dell’indole. 

Se hai vissuto c’è sempre un rimedio noto ai problemi ignoti, o meglio c’è sempre un’occasione per capitalizzare quel po’ di buono che hai messo in saccoccia. Basta trattarsi bene, che si sia da soli a cena o in seducente compagnia. Un esempio di buona cura di sè e del prossimo qui la danno molti spagnoli che disseminano il Cammino di piccoli aiuti per i viandanti, pellegrini o semplici camminatori che siano: dal nulla, magari nel cuore di una strada di campagna, spuntano banchetti con acqua, frutta e qualche genere di conforto a disposizione di chiunque (nella foto sopra). Perché esiste un senso di comunità che non ha a che fare coi confini geografici o con le campagne elettorali.

A cosa è servita la mia porzione di Cammino di oggi? A star solo per 22 chilometri senza che nessuno mi disturbasse mentre assaporavo le ragioni promiscue che mi avevano portato lì.

Quand’è così, dopo un po’, che sia pioggia o sole non te ne frega niente. L’importante è arrivare, ma solo dopo che l’ultimo pensiero, quello più tosto, si sia dipanato per bene.

(3 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Quelli che fuggono

Da Irùn a San Sebastiàn.

La prima tappa da Irùn a San Sebastiàn è stata durissima. Salite estenuanti in perfetta solitudine, nebbia sul monte Jaizkibel, borraccia a secco troppo presto. Comunque me lo aspettavo, la mia guida mi aveva avvertito per tempo, soprattutto sull’unica scelta che l’itinerario mi avrebbe proposto. Strada A più corta ma spaccagambe con 300 metri di pendio al limite del ribaltamento (pensate con lo zaino, uff!), strada B più lunga ma senza il picco di fatica. Ovviamente ho fatto la scelta più scriteriata. Transeat.

Verso il 10 chilometro ho incontrato una ragazza di Strasburgo che aveva qualche dubbio sull’itinerario (ci sono tratti soprattutto dopo la prima vetta sui quali si procede quasi alla cieca sul profilo della cresta). Abbiamo fatto strada insieme silenziosamente. Poi, scesi a valle a Pasajes, prima di affrontare un’altra montagna abbiamo fatto tappa al bar per riposare e rifocillarci. È lì che abbiamo iniziato a parlare. E mi ha spiegato che lei è in cammino non per raggiungere, ma per sfuggire. È, questo, un senso comune a molte persone che intraprendono questa esperienza. L’ho ascoltata per il resto dell’itinerario perché, uscita dalla sua solitudine forzata, voleva espellere dei pensieri, come tossine, come cibo maldigerito. Lo ha fatto con calma – qui tutto deve essere lento – ma con una familiarità impensabile in altri contesti. Funziona così questo strano incantesimo fatto di passi e parole, di sconosciuti e di salite, di deserto e pensieri affollati. Un rito antichissimo eppure dirompente, coi tempi che corrono, quello della solitudine intermittente, della conoscenza analogica.

Quel che ho capito oggi, all’esordio spezzagambe di un’impresa niente affatto semplice (almeno per me), è che invece io non fuggo da nulla, ma vago libero pronto intercettare impulsi che magari non conosco. È una sensazione che ho provato poche altre volte, sempre in corrispondenza di situazioni più o meno estreme, e che mi ha sempre dato la spinta che non sapevo di cercare. La fuga l’ho sempre usata in situazioni ordinarie, non mi è mai interessato adottarla come strumento eccezionale: probabilmente perché sono fortunato. Forse ci si abitua a tutto, alla fatica, agli effetti speciali, persino al sentimento. Alla curiosità mai.

A margine, San Sebastiàn è un posto incantevole con la sua spiaggia che sbuca dal nulla dopo sei ore di cammino e la sua pioggia oceanica che ti prende alle spalle proprio quando hai detto “ma che bell’arietta qui, altro che afa siciliana”. La tortilla in compenso è buonissima.

(2-continua)    

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Ricordati di desiderare

Quando qualche mese fa ho deciso che avrei fatto il Cammino del Nord mi sono imbattuto in un errore di valutazione. Pensavo ai chilometri, circa 830, a come sarei riuscito a mettere un passo dopo l’altro in quei benedetti 33 giorni senza mai una sosta più lunga di una notte. Pensavo ai pensieri che avrei dovuto scegliere, i più fecondi in prima fila, tutti gli altri dietro. Pensavo alla musica che avrei selezionato, alle playlist imbastite con pazienza in cui ritmo e supporto di meditazione stringono un patto di non belligeranza. Pensavo al quando, al dove, forse – non confessandomelo apertamente – anche al perché.

Pensavo cioè a ciò che avrei avuto davanti, e non a quello che avrei avuto dietro. Più precisamente sulle spalle. Ho coltivato quindi l’illusione che il bagaglio, più precisamente lo zaino di 50 litri, sarebbe stato facile da riempire: quel che c’entra c’entra, il resto vaffanculo.

Erroraccio di valutazione.

Solo alle 5 di stamattina, quando a fatica ho cacciato dentro lo spazzolino da denti come se fosse un ferro da stiro, ho pagato lo scotto di una inusitata filosofia della sottrazione applicata alla compressione fisica.

Scandisco il concetto, anzi lo riformulo per i posteri: fare un bagaglio di 8 chili per un mese di sopravvivenza è la vera impresa, altro che ottocento e passa chilometri a piedi. Perché la scala delle priorità si allunga proporzionalmente alla voglia di libertà. Più cerchiamo la leggerezza, più ci inventiamo un accessorio fondamentale per conseguirla. Se sogniamo il mare, pensiamo al costume, ma subito dopo arrivano la crema solare, la maschera, eccetera… Se sogniamo una passeggiata in montagna, pensiamo alle scarpe da trekking, ma subito dopo arrivano quelle più leggere perché se magari fa caldo e il terreno lo consente… massì, perché non concederci un doppio paio?

Insomma la leggerezza cozza con la reale pesantezza dell’apparato che abbiamo messo su per raggiungerla.

Il Cammino segna la svolta, un cambio radicale.

Otto chili e non rompere il cazzo, ti dicono le tue spalle. Che poi sono loro quelle che dovranno sbrigarsela: i sogni pesano, eccome. Adesso non so se sono riuscito a mettere dentro tutto il necessario, confido nella buona sorte e nello spirito di adattamento che non è mai stato il mio marchio di fabbrica. So però che per prima cosa ho stipato un breve elenco di desideri. Li ho messi lì, nella tasca laterale, quella a portata di mano insieme al taccuino e alla mia musica. Il primo è una sorta di comandamento: ricordati di desiderare.

Qui Irún. Si parte.

(1-continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Fottitene, adesso guido io

L’ho già scritto: ci sono viaggi che non si progettano, ma ti chiamano. Sono idee che vengono fuori nel bel mezzo di un inutile pomeriggio invernale, o che esplodono ascoltando i racconti di qualcuno che conosci appena, o ancora che germogliano, senza fretta, lungo i viali di un’esistenza.

A un viaggio chiediamo sempre qualcosa: uno schiaffo, una coccola, un sussurro, un lieto fine, una sorpresa. Chiediamo di farci spegnere il cervello o di accendere i sensi. Ci sono molti modi di ritrovarsi senza essersi mai persi: viaggiare è quello più entusiasmante e per certi versi anche il più pericoloso.

Quest’estate farò il Cammino del Nord, 835 chilometri a piedi con lo zaino in spalla da Irùn a Compostela, ma non lo farò sposando l’ortodossia religiosa che anima molti pellegrini. Lo farò con me stesso, immagino serenamente, scommettendo un euro sul mio senso del limite e sperando di non perdere la monetina. Potrei dirvi dell’allenamento che, nonostante quel che sta scritto su molte guide, è fondamentale per saper usare insieme gambe e testa (accoppiata complicatissima). O di uno zaino dove devi stipare al massimo otto chili di vita per i 35 giorni che seguiranno. O ancora dell’ago e filo che devi avere il coraggio di usare per eliminare le vesciche sotto i piedi.    

E invece vi dico cosa può passare per la testa di uno che cammina sotto il sole, magari in salita, per cinque, sei, sette ore al giorno.

Ci sono due tipi di persone, quelli che amano raccontarsi una storia e quelli che si raccontano storie. I primi differiscono dai secondi per un dettaglio che riguarda l’autostima: godono di quello che fanno, anche quando nuotano controcorrente o quando non hanno il minimo consenso garantito. I primi viaggiano liberi, i secondi non sono liberi neanche quando vanno al cesso. Se vi è mai capitato di ribellarvi a voi stessi, capite di cosa sto parlando. Nel mio piccolo ho sempre mantenuto la democraticissima anarchia di alzarmi una mattina, dire “questo non sono io” e agire di conseguenza. Senza bizantinismi, ma col buon senso dello scriteriato consapevole. Risultati non garantiti, of course.

Un viaggio, estremo o meno (ho una pericolosa propensione…), è un modo delicato di afferrare la nostra narrazione per i capelli e dirle in un orecchio: fottitene del mondo, adesso guido io. Per poi buttarsi a capofitto nella prima trazzera che ti porti lontana dal ruolo che ti sei costruito, dall’immagine che hai difeso, dalle belve del circo di cui tu dovresti essere domatore.

Una scommessa.

Se la accetti corri il rischio di valorizzare la differenza tra chi si professa e chi è, tra chi vive e chi vivacchia, tra chi ammira la luna e chi si ferma al dito (che potrebbe utilizzare comunque meglio). Il mondo è pieno di pigri che, credendosi potenti o furbi, accettano di farsi scrivere la storia da altri, che a loro volta si sentono potenti o furbi. La storia scritta per procura.

Mettiamola così, il viaggio che ti chiama è un buon modo per allontanarsi dai ghostwriter delle emozioni e un pessimo modo di seminare consensi alla moda. Uscirne sano e salvo è un dettaglio.