La strana sindrome

Da A Brea a Santiago.

È la mia sindrome del Cammino. Non la conoscevo sino a questo pomeriggio quando alle 16,59, con l’ingresso in Praza do Obradoiro dinanzi alla Cattedrale di Santiago, è ufficialmente terminata la “passeggiata” che avevo iniziato a Irun, 830 chilometri di trazzere e montagne a sud-est, alle 9,33 del 25 luglio scorso. Arrivato alla meta ho provato una strana sensazione di stanchezza improvvisa, come se anziché 25 oggi ne avessi percorsi 250 di chilometri. Allora mi sono tolto lo zaino dalle spalle e mi sono coricato per terra. E non ero più stanco, ma ero affamato e non di cibo. Di musica. Dovevo ascoltare una canzone, alla quale non avevo minimamente pensato sino a quel momento: questa canzone, “Purple Rain” di Prince. Ecco la sindrome: ti illude di essere stanco per inocularti un sentimento quando sei fisicamente inerme, sdraiato per terra in mezzo alla strada come un animale randagio anche abbastanza puzzolente: un sentimento di inquieta serenità.
La mia sindrome del Cammino è tutta qui, in questo improvviso senso di tranquillità che sai sarà detonante perché a starsene da soli a faticare per 35 giorni si impara una sola cosa: a pensare. E vi assicuro che non è fanatismo o paranoia, al contrario è la consapevolezza di una lucidità che speri non ti abbandoni più. Sei leggero, ma saldo per terra. Sei pieno di quello che vuoi e non imbottito di quello che devi volere. Hai finalmente una storia tua, tutta tua, che da sola basterà a saziarti per gli anni a venire. A chi vive di creatività, il Cammino del Nord dovrebbe essere prescritto dal medico.

Non sono tutte rose e fiori, però. C’è qualche effetto collaterale che va tenuto sotto controllo. Quando metti un paio di occhiali nuovi, con una correzione migliore, vedi dettagli nitidi che prima ti sfuggivano. Allo stesso modo quando hai l’occasione di isolare le emozioni, capisci che il film è cambiato, la storia appunto.

La faccio breve e magari domani, in un post conclusivo, ci metto un po’ di ideuzze e di consigli per chi vuole anche solo ipotizzare di fare un’esperienza del genere.

Il Cammino non è un elisir di lunga vita, al contrario è fisicamente tosto e ti distrugge legamenti e articolazioni. Ma è una sorta di enzima che catalizza reazioni di cose che abbiamo dentro. Se non le abbiamo, niente. Non ti aiuta a capire cosa finalmente vuoi dalla vita, ti fa un servizio ancora migliore: ti aiuta a capire cosa non vuoi.

P.S.
Non mi sono commosso all’arrivo, ma quando mi sono sdraiato ho sorriso come Matthew Fox (minchia paragone!) nella scena finale di “Lost”. Esausto, coi pensieri lucidi. E non sono quelli

(28 – continua)

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Il valzer del moscerino

Da Sobrado ad A Brea.

Doveva essere una tappa lunga e noiosa. Dopo un inizio di stradine di campagna, il Cammino si incanala in un infinito rettilineo senza variazioni di panorama, tra eucalipti e piantagioni di mais. E soprattutto senza bar e luoghi di ristoro. Un nulla verde, ma sempre un nulla (nella foto sopra un contenitore d’acqua lasciato da un’anima pia per gli assetati che verranno). Sarà per questo che, scelti musica e pensieri giusti e armato di bocadillo di mezzo metro come carburante solido, ho cominciato a camminare senza curarmi del panorama. Unico problema la pendenza dei bordi della strada che alla lunga ti massacra le caviglie (infatti la stragrande dei “pellegrini di lunga distanza” cammina sbilenca). Rimedio presto trovato, grazie al mio doc che odia ciò che è dispari e asimmetrico: mezzo chilometro da un lato della carreggiata, mezzo dall’altro.

Solo che in questa estenuante cavalcata solitaria nelle lande del nowhere spagnolo l’attenzione è fatalmente calata, come una sorta di palpebra psicologica, e al 22 chilometro (anzi per precisione al 22,1) ho sbagliato strada in prossimità di un incrocio. Non ce ne erano molti, di incroci. C’erano molti alberi, molte mucche, molto asfalto, moltissime mosche (ne parlo tra breve perché ci vuole una trattazione a parte), ma di incroci ce ne erano davvero pochi.

Eppure sbagliai, preso dagli Steely Dan e da un pensiero natalizio (io quando sono felice penso sempre al Natale che verrà anche, tipo, il primo gennaio). Sbagliai come un cretino.

Finii così a oltrepassare la collina sbagliata, e passare una collina significa salire e soffrire per ore. Risultato: sei chilometri in più rispetto ai 31 e mezzo schedulati. Sei chilometri in più di cui cinque in collina, poiché ho dovuto rifare la collina sbagliata per salire su quella giusta. Insomma un’ora e un quarto di fatica supplementare.

Ma la vera piaga – e ve lo dico col tono della celebre scena del film Johnny Stecchino – è stata quella delle mosche. Mai vista una concentrazione simile, da farsi strada col machete. Saranno le vacche coi loro scarti naturali, saranno i pellegrini con la loro traspirazione innaturale, ma qui in Galizia c’è la Woodstock delle mosche: tutte lì a rotolarsi nel fango, ad accoppiarsi e prolificare come se non ci fosse un domani ronzante, a danzare nude nel sole. A ora di pranzo non potevo fermarmi per sbranare il bocadillo perché temevo che aprendo la bocca avrei ingerito in forma alata più dell’immaginabile. Quindi, seguendo alla lettera il Manuale delle Giovani Marmotte, da buon marmottone navigato, ho adottato due provvedimenti.

Primo, cercare una zona ventilata per disorientare gli odiosi insetti. Secondo, coprirmi quanto più possibile, soprattutto la testa

Il primo espediente è risultato vincente. Ho raggiunto una zona fuori dal percorso – ergo, distanza in più da coprire, fuuurbo! – su una altura. Effettivamente, a rischio di prendermi una polmonite per il ventazzo, sono riuscito a mangiare senza condimenti indesiderati.

Il secondo espediente invece ha innescato un altro mezzo disastro. La mia bandana gialla – minchia gialla, che io ne avevo una bellissima scura usata a Capo Nord e l’ho lasciata a casa perché volevo “colorare” la mia avventura, cretino again – scoraggiava sì le mosche togliendo loro un fertile atterraggio sulla mia capa incolta e sudata (ci penso ora e dico in coro con voi: che schifo!), ma al contempo attirava tipo calamita atomica tutti i moscerini del Patto Atlantico. Dico solo che ho percorso sei chilometri in più per l’errore di cui sopra e non sono le gambe e i piedi ad averne risentito. Ma le braccia e le mani, per quanti insetti ho scacciato e schiacciato. Insomma sono il Bolsonaro dei moscerini, e non mi pento        

P.S.
Domani, se il Padre di tutti i camminatori mobili e immobili vuole, arriverò a Santiago. Dopo 33 giorni, 800 e passa chilometri, un milione e centomila passi e ventisette post qui. Forse mi commuoverò o forse mi farò una risata, forse mi andrò a coricare alle sette del pomeriggio o forse berrò sino a notte fonda, forse tirerò la somma di tutti questi pensieri chilometrici o forse guarderò il cielo e basta, forse la racconterò o forse me la racconterò.
Di sicuro, ma proprio sicuro sicuro, vi ringrazierò. Perché molti di voi mi hanno stupito, e il motivo è una gioia che sarà mia e soltanto mia. Per sempre.

(27 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.