Il destino è nel rock

C’è un gioco che faccio da ragazzo. Mi diverto a identificare i miei stati d’animo con un genere musicale, perché io ho questa dipendenza dalla musica per cui non c’è momento della mia esistenza in cui non abbia in testa o nelle orecchie una canzone.
In principio sono stato funk, masticando ritmi e riff come se non ci fosse un domani. Il funk è contaminazione (e non voglio buttarla in lezioncina, quindi mi limiterò a galleggiare…) e negli anni ’70 la contaminazione era il seme da cui sarebbero nati i migliori frutti della nostra musica. Come insegnano le enciclopedie il termine funk col suo aggettivo funky nello slang degli afroamericani indica generalmente cattivo odore, “come l’odore sprigionato dal corpo in stato di eccitazione, e per estensione poteva significare “sexy”, “sporco”, “attraente” ma anche “autentico”, cioè originale e libero da inibizioni”.
Sono stati gli anni della scoperta, delle sperimentazioni più ardite (dalle relazioni col mondo all’equilibrio interiore), delle impronte indelebili nella personalità. Ho sempre pensato che noi siamo chi siamo stati, ma anche chi e cosa non siamo stati. Ad esempio nel mio periodo funk ha avuto un peso ritengo non secondario il non cedere alla scorciatoia delle droghe pesanti: non per merito personale, ma perché ho avuto la fortuna di scegliere il gregge giusto (comprese le pecore nere).
Poi è arrivato il periodo new wave. E molte cose cambiarono. L’abbigliamento, le sperimentazioni diventarono più borghesi. La musica, oltre ad ascoltarla la guardavo: sono gli anni del trionfo dei video musicali. Capelli più corti, bavero alzato e vino di pessima qualità: non so perché, ma questa cosa del vino mi rimase impressa. Ebbi un black-out del gusto e bevvi Lancers: ancora oggi il mio fegato non me lo perdona.
Prima di compiere atti indecenti, tipo passare al Mateus rosé, virai nella fusion. Il jazz rock fu il periodo più divertente della mia vita. Anche perché suonavo molto e avevo compagni di avventure davvero inauditi (uno lo era a tal punto che, in un momento di euforia, decise di rubarci gli strumenti e scappare). Suonavo e scrivevo, scrivevo e suonavo. Mi meravigliavo di essere pagato per scrivere e mi rammaricavo di non essere pagato per suonare. Perché la caratteristica fondamentale del mio periodo fusion fu il sovvertimento dei ruoli classici, dei canoni della vita per come la conoscevo sino ad allora: mi impegnavo di giorno, raccoglievo i veri frutti di notte, praticamente non dormivo mai. Fumavo come un turco ma correvo come un furetto. Mangiavo quando capitava, né carne né pesce of course, ma stavo da dio. Due amici  – Fabio che assecondò la mia vena musicale e Germana che mi nutrì nottetempo nel suo ristorante – furono un simbolo della mia epoca: l’uno jazz, l’altra rock.
E siamo al punto.
Dopo una serie di rimaneggiamenti in cui tornavano ciclicamente il funk, la new wave, la fusion e varie altre suggestioni mi sono ritrovato a 55 anni con una nuova consapevolezza: il mio destino è rock. Continua a leggere Il destino è nel rock

Bowie, il paradiso negli inferi

Non c’è discografia da citare, non c’è neanche un esempio da fare. Di David Bowie ognuno di noi ha un ricordo unico e singolare. Non esiste, a mia memoria, artista più variopinto e meravigliosamente indecifrabile. Era rock, era pop, era soul, era punk, era attore, era pittore, era mimo, era tossico, era extraterrestre, era manipolatore dei media, era libero, era schiavo della popolarità, era avanti, era unico nella moltitudine, era eterno ancora prima che morisse.
Non ha avuto fans, ma adepti. Perché Bowie ti includeva nella sua musica come se dovessi aderire a una setta: ogni giorno un miracolo, ogni album un sortilegio, ogni ricordo una colonna sonora. Il suono asciutto dei suoi dischi – chiamiamoli ancora così nonostante cambi il formato, erano e rimarranno dischi – si riconosceva sin dall’attacco del primo ascolto. Sentivi un giro di basso, i primi due colpi di rullante, il graffio di una chitarra elettrica e dicevi: “Cazzo, questo è Bowie”.
Per molti era un trasformista, per tutti gli altri era il dio di una trasformazione che ti portava a credere che anche negli inferi c’è un angolo di paradiso. Dove il rock sgretola i confini tra bene e male, tra bianco e nero, tra vita e morte.

Spettinati dal rock

Malaluna

Alla fine degli anni Ottanta, quando eravamo spettinati dalla vita, ci ritrovammo in un locale di Palermo che sparava rock all’impazzata. Eravamo un manipolo di musicofagi schitarrati, perditempo notturni di varie etnie palermitane. Trascorremmo in quel locale molte estati e molti inverni, sempre a bombardarci di musica e risate, a spartirci birre e sigarette giacché allora il salutismo ci interessava quanto la Critica della ragion pura di Kant. Quel posto si chiamava Malaluna ed era gestito da Ezio, un tipo leggiadramente distaccato dalle cose terrene, una specie di guru senza dottrina che galleggiava in quei locali come il refrain di una canzone dei Police cantato da qualcuno lontano e invisibile: insomma lui c’era ma non imponeva la sua presenza. È forse stato questo il segreto di quel magico accordo che ci tenne tutti insieme per qualche anno: uno al Malaluna faceva quello che voleva, sapendo che era esattamente ciò che voleva l’altro. E tutto andò liscio perché nessuno di noi fece mai nulla di male. Continua a leggere Spettinati dal rock

100 anni di rock in meno di un minuto


Cliccate sull’immagine per vedere il grafico interattivo (via Concert Hotels).

Quand’ero un giovane chitarrista

Da giovane ero un chitarrista rock di quelli scatenati. Nel 1981, con un gruppo chiamato Focke Wulf, pubblicai un 45 giri. Era un disco di suoni ruvidi, al limite dell’ascoltabile. La formazione era quella classica, basso, chitarra, tastiere e batteria: Maurizio Orlando (che si dava il cambio con Giovanni Caminita), io, Walter Catania e Marcello Sacco. Pazzi da catene.
Di quel disco ho perso le tracce per colpa del tempo, della distrazione e di qualche trasloco di troppo. Giorni fa ho ricevuto una e-mail dall’Inghilterra da Guido Ratti, titolare di un piccolo negozio di dischi, che iniziava così: “Ti scrivo da Londra dove abito e lavoro da circa 20 anni. Quando Berlusconi è andato al governo decisi di cambiare aria”.
Ratti mi informava che in una fiera di Utrecht aveva trovato il 45 giri dei Focke Wulf e che, facendo una rapida ricerca sul web, era arrivato a sino a me per chiedere notizie di quel reperto (non ho neanche una copia conservata). Ho dovuto ravanare nei ricordi per soddisfare la sua curiosità di appassionato, mascherando l’invidia nei confronti di una persona che vive di musica, tra la musica. Lui mi ha ricompensato col migliore regalo che potesse farmi: una foto con lui e il disco dei Focke Wulf.  Mi sono quasi commosso.

Sharona

Questo è il sito della signora Sharona Alperin, agente immobiliare a Los Angeles. La canzone My Sharona della band The Knack era proprio dedicata a lei. E lei ne ha fatto un inno a se stessa e alla sua professione (note biografiche comprese).

Della vergogna e altre amenità

La foto è di Paolo Beccari

di Verbena

Della vergogna e altre amenità.
Io non mi vergogno di arrossire, qualche volta.
Io non mi vergogno di non aver mai marinato la scuola.
Io non mi vergogno di essere antifascista e di farlo sapere al mio capo che vota Silvio.
Io non mi vergogno di non ricordare più i sette re di Roma.
Io non mi vergogno di barattare qualunque serata vip per un buon film.
Io non mi vergogno di non avere un animo rock.
Io non mi vergogno di rubare le caramelle gommose dalla stanza del capo, sempre quello.
Io non mi vergogno di guidare piuttosto male e di orientarmi pure peggio.
Io non mi vergogno di essermi addormentata addosso alla vicepreside, in discoteca, durante la gita a Vienna.
Io  non mi vergogno di amare la cipolla, cruda.
Io non mi vergogno di sorridere agli uomini belli, per strada, se li incontro.
Io non mi vergogno di andare in giro senza trucco, se non mi va.
Io non mi vergogno di usare solo profumi costosi.
E non mi vergogno di fare buon sesso, che dio lo benedica.

La fortuna di avere un maestro

salvo_licataQuesto post scaturisce dalla riflessione di qualche giorno fa, e in particolare da un’incitazione di D’Artagnan (dalle cui posizioni dissento quasi sempre, ma sulle quali sventola la bandiera del pluralismo di questo blog).
Non so quanti di voi abbiano avuto un maestro nella vita professionale. Io sono stato fortunato perché, molti anni fa, ho incontrato la migliore figura che un giovane apprendista possa aspettarsi: un ottimo maestro e un pessimo esempio.
Si chiamava Salvo Licata e si trovò a capitanare un gruppetto di aspiranti giornalisti che aveva appena addentato i vent’anni e guardava il mondo dell’informazione dal buco della serratura. Nella prima metà degli anni Ottanta, Salvo divenne caposervizio di una televisione privata. Lui che veniva dalla carta stampata aveva umilmente imparato le nuove tecniche dell’immagine. E prestava alla tv il suo fiuto per la notizia, la sua voglia di raccontare le storie nascoste di persone non importanti.
Odiava l’ovatta istituzionale e le domande complicate. Scavava nelle frasi tutti i significati possibili e ne estraeva un distillato prezioso: quello della verosimiglianza, più abbordabile e meno etereo della verità. Era un diffidente e il peggio (meglio) di sé lo dava quando si trovava a tu per tu coi politici e, peggio (meglio) ancora, coi loro galoppini. Un pomeriggio mi trovai a far da traduttore tra i suoi grugniti e il ringhio del portaborse di un potentissimo  europarlamentare democristiano che chiedeva spazio, senza argomenti plausibili, nel tg della sera. Finì che lo cacciò in malo modo: nella mia memoria rimane una scena epica.
Un maestro infligge più pene di quanto dispensi complimenti. Quando una mattina mi presentai in redazione con un abbigliamento che Salvo non gradiva (transitavo dalla fase rockettara a quella sfascio-vegetariana), lui telefonò a mia madre: “Signora, ha visto com’è uscito di casa suo figlio stamattina?”. Quando iniziai (accadde solo una volta e mai più!) un pezzo su una ricorrenza con la frase “Come ogni anno…”, lui sbraitò a un millimetro dal mio naso: “E perché uno dovrebbe starti a sentire?”. Quando arrivai con dieci minuti di ritardo mi cacciò via con un cenno, senza sprecare parole. Però quando gli comunicai che avevo cominciato a leggere Pirandello, dedicò una mezza mattinata ad ascoltare le mie impressioni. E ogni volta che la giornata fu difficile ci portò tutti a cena. E quando l’azienda decise che doveva fare alcune assunzioni, seppi (mai da lui, ovviamente) che aveva parlato di me come mai mi sarei aspettato.
Un maestro ti manca quando non c’è più. Ti manca la telefonata improvvisa, quando ormai sei avviato nella tua professione e quando lui è in pensione, fuori dal giro. Ti manca la mezza parola che riannoda il filo di un discorso iniziato vent’anni prima. Ti manca la sua ruvida carezza e la sua intransigenza che ti ha fatto piangere (tu, che credevi di essere ormai uomo-maschio-realizzato e invece eri un orecchiante della vita ancor prima che del mestiere).
Ti manca sentirti raccontare le sue storie, un po’ favole un po’ cronaca, di bettole, preti, puttane, comunisti, teatranti, naufragi e salvatori.
E allora non ti resta che ritenerti fortunato anche se il destino ti ha riservato un ruolo diverso da quello che il tuo maestro aveva, a denti stretti, auspicato. Perché un vero maestro, se non ti boccia subito, si identifica e sogna anche per te. E’ questa umanissima fallacità che lo rende indimenticabile.