Questo post scaturisce dalla riflessione di qualche giorno fa, e in particolare da un’incitazione di D’Artagnan (dalle cui posizioni dissento quasi sempre, ma sulle quali sventola la bandiera del pluralismo di questo blog).
Non so quanti di voi abbiano avuto un maestro nella vita professionale. Io sono stato fortunato perché, molti anni fa, ho incontrato la migliore figura che un giovane apprendista possa aspettarsi: un ottimo maestro e un pessimo esempio.
Si chiamava Salvo Licata e si trovò a capitanare un gruppetto di aspiranti giornalisti che aveva appena addentato i vent’anni e guardava il mondo dell’informazione dal buco della serratura. Nella prima metà degli anni Ottanta, Salvo divenne caposervizio di una televisione privata. Lui che veniva dalla carta stampata aveva umilmente imparato le nuove tecniche dell’immagine. E prestava alla tv il suo fiuto per la notizia, la sua voglia di raccontare le storie nascoste di persone non importanti.
Odiava l’ovatta istituzionale e le domande complicate. Scavava nelle frasi tutti i significati possibili e ne estraeva un distillato prezioso: quello della verosimiglianza, più abbordabile e meno etereo della verità. Era un diffidente e il peggio (meglio) di sé lo dava quando si trovava a tu per tu coi politici e, peggio (meglio) ancora, coi loro galoppini. Un pomeriggio mi trovai a far da traduttore tra i suoi grugniti e il ringhio del portaborse di un potentissimo europarlamentare democristiano che chiedeva spazio, senza argomenti plausibili, nel tg della sera. Finì che lo cacciò in malo modo: nella mia memoria rimane una scena epica.
Un maestro infligge più pene di quanto dispensi complimenti. Quando una mattina mi presentai in redazione con un abbigliamento che Salvo non gradiva (transitavo dalla fase rockettara a quella sfascio-vegetariana), lui telefonò a mia madre: “Signora, ha visto com’è uscito di casa suo figlio stamattina?”. Quando iniziai (accadde solo una volta e mai più!) un pezzo su una ricorrenza con la frase “Come ogni anno…”, lui sbraitò a un millimetro dal mio naso: “E perché uno dovrebbe starti a sentire?”. Quando arrivai con dieci minuti di ritardo mi cacciò via con un cenno, senza sprecare parole. Però quando gli comunicai che avevo cominciato a leggere Pirandello, dedicò una mezza mattinata ad ascoltare le mie impressioni. E ogni volta che la giornata fu difficile ci portò tutti a cena. E quando l’azienda decise che doveva fare alcune assunzioni, seppi (mai da lui, ovviamente) che aveva parlato di me come mai mi sarei aspettato.
Un maestro ti manca quando non c’è più. Ti manca la telefonata improvvisa, quando ormai sei avviato nella tua professione e quando lui è in pensione, fuori dal giro. Ti manca la mezza parola che riannoda il filo di un discorso iniziato vent’anni prima. Ti manca la sua ruvida carezza e la sua intransigenza che ti ha fatto piangere (tu, che credevi di essere ormai uomo-maschio-realizzato e invece eri un orecchiante della vita ancor prima che del mestiere).
Ti manca sentirti raccontare le sue storie, un po’ favole un po’ cronaca, di bettole, preti, puttane, comunisti, teatranti, naufragi e salvatori.
E allora non ti resta che ritenerti fortunato anche se il destino ti ha riservato un ruolo diverso da quello che il tuo maestro aveva, a denti stretti, auspicato. Perché un vero maestro, se non ti boccia subito, si identifica e sogna anche per te. E’ questa umanissima fallacità che lo rende indimenticabile.