Nuova testimonianza di pervicace esistenza di un antico manufatto cruciale per il tenutario di questo blog.
Grazie a Lucio Savagnone.
Nuova testimonianza di pervicace esistenza di un antico manufatto cruciale per il tenutario di questo blog.
Grazie a Lucio Savagnone.
Serata con amici musicisti. Si ascoltano vecchi brani, senza cedere alla nostalgia: per noi la musica del passato ha un tasso qualitativo innegabilmente superiore rispetto a quella che si ascolta per ora, quindi siamo serenamente rassegnati.
Poi qualcuno mette mano ai dischi. Sì, proprio quelli: i vinili. Si tirano fuori gli album, i 33 giri o long playing come si chiamavano. E sembra che il tempo si accoccoli accanto a noi.
Un’immagine mi colpisce, tanto che la blocco con uno scatto fotografico: il disco di Nat King Cole tra le mani del mio amico Gaetano sembra enorme, innaturalmente grande.
E – lo capisco – non è l’abitudine alla maneggevolezza del cd, ma la lente di ingrandimento del tempo. Che almeno in questi casi non è passato invano.
Da giovane ero un chitarrista rock di quelli scatenati. Nel 1981, con un gruppo chiamato Focke Wulf, pubblicai un 45 giri. Era un disco di suoni ruvidi, al limite dell’ascoltabile. La formazione era quella classica, basso, chitarra, tastiere e batteria: Maurizio Orlando (che si dava il cambio con Giovanni Caminita), io, Walter Catania e Marcello Sacco. Pazzi da catene.
Di quel disco ho perso le tracce per colpa del tempo, della distrazione e di qualche trasloco di troppo. Giorni fa ho ricevuto una e-mail dall’Inghilterra da Guido Ratti, titolare di un piccolo negozio di dischi, che iniziava così: “Ti scrivo da Londra dove abito e lavoro da circa 20 anni. Quando Berlusconi è andato al governo decisi di cambiare aria”.
Ratti mi informava che in una fiera di Utrecht aveva trovato il 45 giri dei Focke Wulf e che, facendo una rapida ricerca sul web, era arrivato a sino a me per chiedere notizie di quel reperto (non ho neanche una copia conservata). Ho dovuto ravanare nei ricordi per soddisfare la sua curiosità di appassionato, mascherando l’invidia nei confronti di una persona che vive di musica, tra la musica. Lui mi ha ricompensato col migliore regalo che potesse farmi: una foto con lui e il disco dei Focke Wulf. Mi sono quasi commosso.
Ora qualcuno vi rimbambirà con la storia della rockstar maledetta, sfruttata e incompresa. Chi invece con Michael Jackson è nato, cresciuto e invecchiato sa bene che le cose sono andate diversamente.
Jacko era un genio della musica, calcolatore e furbo. Un uomo forte della sua debolezza e delle sue debolezze. Un artista incapace di piegarsi alle ragioni dell’umana convivenza: il culto della parte proibita di sé, la distanza da un aspetto fisico legittimo, la droga della solitudine.
Jackson ha suonato, cantato e arrangiato pop, R&B, funk, soul, disco, dance. Ed è stato il più bravo. Prima che le classifiche musicali fossero monopolizzate dai grandi circuiti radiofonici, ha piazzato i suoi album ai vertici e ha costretto la storia ad occuparsi di lui, almeno come recordman (Thriller è ancora l’album più venduto di tutti i tempi).
Non è stato incompreso, ha voluto essere incomprensibile per tutto ciò che stava fuori dalla sua musica. Tanto lineari erano le sue architetture armoniche, tanto aggrovigliate apparivano le sue vicende personali.
Michael Jackson era, per sua stessa scelta, un innovatore infelice, un folletto deluso dalla propria bizzarria. Nei suoi piani – ne sono certo – non c’era la felicità, ma l’invenzione.
Forse se n’è andato troppo tardi.