Paradossi di Sicilia

viadotto-Scorciavacche-Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

Paradossi di Sicilia. Nelle linee tracciate dal destino, mai che nelle nostre lande se ne scorga una retta, mai che la logica non sia costretta a mille e mille acrobazie. Il vecchio proverbio – cosa fatta capo ha – va rivisto: cosa fatta rompicapo ha. E la cronaca di questi giorni è gravida di esempi.
Prendete il caso dell’autostrada A19 interrotta. Dopo quasi tre settimane di disagi, i siciliani hanno avuto due sorprese. La prima: l’Anas (…) ha deciso di affrontare l’emergenza senza fretta, come se si dovesse sostituire una lampadina in galleria. La seconda: per avere un treno che collega Palermo a Catania in un tempo non biblico doveva incrinarsi un viadotto.
E che dire dei lavoratori “in nero” della Regione, 36 precari dell’assessorato al Territorio che si occupavano di valutazioni ambientali? Sembrava un tipico caso di precari sedotti e abbandonati, e invece ecco il colpo di teatro: si scopre che l’amministrazione pubblica gli ha dato la busta paga per un anno, ma non lo stipendio (figurarsi i contributi…), roba che avrebbe fatto venire i sensi di colpa pure a un gabellotto di Villalba. Ma non alla Regione che divide et impera con serena fermezza: quindi via quei precari, che tanto sono pochi e in termini elettorali non valgono nulla, e porte aperte ai Pip condannati per gravi reati che tornano tra le braccia dell’amministrazione dopo il consueto fuoco di paglia di intransigenza crocettiana.
Più che paradossi, nodi che diventano grovigli. Avete letto del caso di Pippo Fallica, redivivo dirigente di Forza Italia che per campare, in periodo di sfortuna politica, si è ritrovato a fare il portaborse del Pd all’Assemblea Regionale? Lui si dice spiazzato. Lui.

Un Brunetta piccolo piccolo

L’insulto ai precari da parte del ministro Brunetta è la cartina di tornasole dell’arroganza di una certa politica. Ho avuto modo di sperimentare personalmente la protervia del signore in questione quando, un paio d’anni fa, mi occupai dello spam che il tizio aveva fatto per pubblicizzare un suo libro. In un colloquio di cui conservo ancora la registrazione (e che prima o poi renderò pubblico, quando i tempi saranno maturi e il de cuius sarà depotenziato, che ci volete fare tengo famigghia), Brunetta si esibì in una serie di salti mortali imperfetti, come quelli del circense che fa finta di non avere rete di salvataggio ma che in realtà sta volteggiando nel tinello.
Mi colpì la spocchia di un piccolo uomo che sa di aver torto – e in quel caso aveva torto, come poi i fatti dimostrarono – ma che deve azzannare in virtù di una mandibola e, peggio ancora, di una dentiera non sue. Il rango di ministro per uno come Brunetta è un’occasione imperdibile: lasciarsi logorare dal potere è il vizio ideale per chi non sa ammettere i propri errori. Solo che – unica perfezione del destino – il potere passa, gli errori rimangono.

Vendola, il nuovo che avanza

Ieri sera da Fazio c’era Nichi Vendola, che è uno che mi piaceva per un’inconfessabile pulsione modaiola sinistrorsa: quando non si sa che pesci prendere e si è avversi al centrodestra ci si rifugia dalle parti del governatore della Puglia che è uno colto, verboso quanto basta e dalle tonalità giuste, un po’ come negli anni ottanta si votava Pannella quando si era a corto di trovate originali.
Tutto regolare, tutto previsto. Intervistatore gregario, intervistato solista, domande soft, risposte da bignamino. Mi sentivo come quando leggo un romanzo ultra popolare (di quelli che a me piacciono tantissimo e non me ne vergogno): mi cullavo nell’attesa comoda di un finale scontato.
Poi però Vendola ha pronunciato due parole: classe operaia.
E lì tutto è cambiato.
Mi sono reso improvvisamente conto che stavo vivendo uno psicodramma dove le coordinate spazio-temporali non esistevano più.
Si parlava della Fiat di Marchionne, uno che è in grado di far paracadutare tremila operai dell’est Europa in provincia di Torino e di rendere operativa una linea di assemblaggio ferma da otto mesi con un paio di sms ben piazzati. Uno che si mostra in camicia e maglioncino e che ti sodomizza il primo capitano d’azienda che gli capita senza neanche sbottonarsi la patta. Uno che chiede una cosa a Washington e che ancor prima di riscuotere la risposta è a Tokio.
Si parlava di quell’uomo lì. E Nichi Vendola, colto e verboso quanto basta per non farci rimpiangere Pannella quando non sappiamo per chi votare, tira fuori l’argomento della “classe operaia” senza avere il sospetto di usare l’alabarda in un conflitto nucleare.
Qualcuno dovrebbe spiegare al governatore della Puglia che la classe operaia esiste e lotta insieme a noi, ma non può essere più definita così. Non ci sono più quegli elementi di rilevazione che ce la facevano distinguere, austera e solenne nella sua povertà, come venti-trent’anni fa. Oggi quelle persone possono essere chiamate lavoratori o impiegati o precari o diversamente felici. Fanno parte di un bacino immenso di cittadini insoddisfatti, malpagati e sfruttati da inventori di miracoli e finti messia in maglioncino di cachemire.
A quelli che parlano ancora di “classe operaia” si dovrebbe spiegare che il vero miracolo italiano si verifica ogni qualvolta queste persone riescono a metter su la pentola con la pasta per il pranzo.
Detto questo mi rendo conto che per me Vendola, da ieri, è il nuovo che avanza. Cioé che rimane, che eccede.

Precari in Sicilia

In Sicilia si sta consumando l’ennesimo misfatto sul tema dei precari. Che non è quello di promettere assunzioni in cambio di qualcosa, ma quello di far sì che migliaia di persone che non fanno niente tra poco continueranno a farlo con lo stipendio a vita.

Forti coi deboli

La storia della giornalista Clelia Coppone, protagonista di un piccolo caso al Giornale di Sicilia, insegna tre cose.

1) Su consulenze e collaborazioni esterne di molti colleghi professionisti, alcuni dei quali ricoprono ruoli chiave nelle principali aziende editoriali siciliane, sarebbe ora che si facesse un po’ di chiarezza. Magari publicando elenchi e compensi, e andando a rileggere le collezioni dei giornali per evidenziare eventuali strane coincidenze.

2) Il precariato selvaggio è frutto in minima parte anche di una certa superficialità degli stessi precari. Se uno sceglie di lavorare persino quando c’è uno sciopero in atto, fa una scelta precisa che indebolisce tutta la categoria. Ed essere costretti a cambiare casacca quando gli eventi precipitano può provocare un certo imbarazzo.

3) Il dormiveglia è un momento delicato. Il segretario regionale dell’Assostampa Alberto Cicero ha detto che per lui quello di Clelia Coppone è un caso isolato. Poi lo hanno svegliato.

Professione precario

Illustrazione di Gianni Allegra
Illustrazione di Gianni Allegra

Sono tempi difficili. Migliaia di lavoratori, per colpe di chiunque tranne che proprie, hanno perso il lavoro. Il precariato è diventato il mestiere ufficiale. E nel segno di una crisi che tutto avvolge e molto nasconde, ci si piange addosso rimanendo immobili.
Ancora una volta – del resto questo è un blog, mica un servizio pubblico – devo citare un’esperienza personale.
L’altro giorno mi ha chiamato un’amica, direttore di un mensile che fa capo al più importante gruppo editoriale italiano. Lei mi ha esposto i suoi dubbi sul futuro dell’editoria. Abbiamo parlato dei nostri rispettivi progetti (i suoi molti più rilevanti dei miei), poi mi ha fatto una domanda: “Conosci persone che sappiano scrivere e che abbiano voglia di lavorare?”.
La sua domanda è stata la conferma a un convincimento che ho segretamente coltivato, in questi ultimi anni: una buona porzione di questa crisi di occupazione è figlia della mancanza di professionalità.
Il discorso vale ovviamente per i mestieri in cui la specializzazione ha un valore pari alla duttilità del lavoratore (che, per essere chiari, può decidere di mettere a disposizione la propria esperienza in cambio di un compenso riveduto al ribasso per evidenti fattori congiunturali).
Quasi un anno fa ho firmato la lettera di dimissioni da un’azienda per la quale ho lavorato ininterrottamente dal 1984. Non avevo un altro lavoro che mi attendeva, mi ero semplicemente rotto le scatole di un sistema che ritenevo scriteriato. Sono della linea di pensiero che tende a derubricare le scelte a semplici scommesse. Sono stato fortunato: oggi lavoro col massimo della libertà, guadagno il giusto (anche un po’ meno) e continuo a preoccuparmi per il futuro esattamente come facevo vent’anni fa.
Un parte, solo una parte, dei disoccupati di questo Paese sono figli (e purtroppo anche seguaci) dell’assistenzialismo che governo e opposizione tendono ad alimentare nel segno di un populismo che poco ha a che fare con la soluzione del problema. Gli aiuti una tantum, le elargizioni su larga scala che sulla porta di casa si traducono in spiccioli non portano a niente di utile.
Probabilmente già domani saremo costretti a cambiare ottica: lavori a progetto, massimo rendimento, sperando in una coltura intensiva dei talenti e nella responsabilizzazione al cento per cento. E’ una missione che riguarda ognuno di noi, senza colori politici né pregiudizi.
Non so quanto il nostro Paese sia pronto.

La favola del sindaco invisibile

Gianni Allegra per i lettori di questo blog
Gianni Allegra per i lettori di questo blog

Con un atto di ammirevole coraggio, il sindaco di Palermo Diego Cammarata è apparso in pubblico per raccontare alla popolazione una favola di Natale travestita da messaggio di fine anno. Coraggio sì, e anche un’indomabile fantasia. Il primo cittadino, smessi i panni magici che ne fanno un eroe dell’invisibilità, ha affrontato con determinazione tutti i punti dolenti della sua amministrazione.
I conti sballati che rischiano di portare il comune al tracollo sono un’invenzione della magistratura contabile, comunista, controrematrice e deviata (i colonnelli della P2 erano la Banda Bassotti al confronto).
Il pasticciaccio delle Ztl è stato causato dall’assenza di Put (che non è quello che potreste pensare, ma l’acronimo di Piano Urbano del Traffico): che volete che sia aver riscosso il pagamento di un balzello senza un’adeguata copertura normativa?
L’immondizia che inonda le strade è in realtà un metodo per limitare l’inquinamento: più difficile la circolazione, meno auto in giro.
L’azzeramento di manifestazioni culturali è una strategia per rilanciare l’economia dei bar (Ficarra e Picone insegnano): perché perdere tempo con una mostra quando con un paio di cocktail Martini si viaggia con la fantasia che è un piacere?
La stabilizzazione dei precari è irrinunciabile: se si mandano a casa 3.500 lavoratori che per di più tengono famiglia, come si gestisce il consenso elettorale? L’unica politica del rigore conosciuta è quella di certi arbitri che fischiano a casaccio…
Infine il sindaco Cammarata ha chiuso la sua esibizione cantando: “A mille ce n’è, nel mio mondo di fiabe da narrar…”.
Applausi e brindisi, dicono. Sul brindisi nessun dubbio.