Che gioco è quello in cui, alla fine, tutti perdono? E’ la domanda – banale quanto volete – che mi ronza in testa da qualche anno, dopo la strage dell’11 settembre 2001. Da allora, ad ogni anniversario, le due parti fanno, a modo loro, bilanci trionfali. Da un lato il progressivo annientamento degli “Stati canaglia”, dall’altro una continua pressione (anche psicologica e mediatica) su Bush e il suo “popolo di infedeli”.
Ci sono ancora molti dubbi su ciò che accadde la mattina di sei anni fa nei cieli d’America, i più sorvegliati al mondo. Non riesco ad avere un’idea precisa degli scenari, perché mi sono ingozzato di ogni tipo di documento, articolo, video, fanzine, pizzino sull’argomento. Posso solo riferire ciò che la pelle trasmette, perché a quella devo limitarmi: sotto c’è la carne, e in questa storia la carne brucia tra le macerie.
Il popolo Usa ha dimostrato una coesione degna della sua tradizione (non antica, peraltro). Nei momenti difficili, tutti col Presidente, sempre. Poi gli si faranno le pulci.
Le bombe intelligenti perdono punti nella scala del QI anche se a lanciarle è un premio nobel. Figuriamoci se le tira un coglione.
La guerra preventiva è un segno di onnipotenza che genera orfani preventivi, fame preventiva, vendette preventive.
Alcuni giornali, all’indomani delle stragi, scrissero: “Siamo tutti americani”. Dalle mie parti, per cultura, siamo più arabi che americani. Non lesiniamo aiuti e solidarietà, non abbiamo pulsioni da kamikaze. E soprattutto se vogliamo fare il pieno di benzina, ci affianchiamo con l’auto e paghiamo, non occupiamo militarmente tutto il quartiere per prenderci il distributore.
L’11 settembre è una buona occasione per riflettere sulle vittime senza colore. A Manatthan come a Kabul, la cenere è grigia.