Restare in tema

minoranza_aUno dei contraccolpi più fastidiosi – e, a lungo andare, anche un po’ pericolosi – della pseudo-comunicazione liquida, cioè quel flusso di informazioni non certificate che arriva dal web, è la quasi impossibilità di stabilire una conversazione a tema.
Uno prende un argomento e dice: ragazzi, oggi che ne dite se parliamo di questo e non di quest’altro? Dopo un paio di commenti annoiati (le discussioni non deraglianti richiedono un grado di conoscenza e/o fantasia tali che, se mancano, l’effetto sbadiglio è garantito) arriva quello che con l’aria dell’imbucato alla festa delle media si butta a capofitto su quest’altro e non su questo.
Fateci caso quando, magari alla fine di una giornata di lavoro, vi accoccolate sulla vostra timeline in cerca di relax. Se mai doveste scegliere di seguire una discussione, provate a contare quanti cercano disperatamente di rimanere aggrappati allo spunto iniziale e quanti sbrodolano i cazzi loro prendendo come pretesto non l’argomento sul tappeto, ma l’esistenza stessa di un tappeto sul quale esporre, non richiesti, la loro non richiesta mercanzia. E se mai cercherete di far notare che sono fuori tema o, Dio vi preservi, in clamoroso errore, sarete voi a essere messi all’angolo. Quando il non sapere è maggioranza, la ragione non ha più ragioni.

Asini senza paracadute – reloaded

La storiella di ieri si è arricchita di particolari, alcuni dei quali un po’ penosi, che meritano qualche riga, tanto per non trascurare nulla.
Se ci fosse un reato del copia-incolla, ci sarebbe gente che meriterebbe l’ergastolo. Tipo quello che legge solo i titoli e si fa un film tutto suo: uno che magari pensa che “il Miglio verde” sia un documentario sugli Ogm.
La parola d’ordine è non.
Non leggere.
Non approfondire.
Non dubitare.
Non lasciarsi tentare dalla prudenza.
Non aspettare.
Quindi nella foga di far finta di ragionare su un tema, è tutto un inciampare di link, un accavallarsi di opinioni che spaziano dalla fame nel mondo alla cena pantagruelica vista Instagram. E soprattutto una rarefazione di argomenti da Nobel per la Fisica: evidentemente il sotto vuoto spinto ha misteri ancora non svelati.
Ingiuria! Si grida all’ingiuria per il titolo di un noto post. Ma la regola del non è implacabile. Guai a leggere che la parola asino è legata al famoso modo di dire “asino che vola”, pure citato nel testo. No, asino è qualcuno che va difeso! C’è una vittima da salvare con la barella del copia-incolla. Quindi arriva puntuale il link, o il suo inciampo, su una sentenza che ha visto condannata una docente che aveva dato dell’asino all’alunno. Peccato che l’ingiuria è stata depenalizzata qualche mese fa e che che l’imputata non è stata condannata per aver definito asino l’alunno “…(epiteto che potrebbe, in linea di principio, riconnettersi ad una manifestazione critica sul rendimento del giovane, con finalità correttive), ma anche bugiardo, handicappato e nullità”.
Bastava leggere, invece di fermarsi al titolo.
Ok, fine della storia. Ma una morale ce la dobbiamo regalare, con tutta onestà. In un non luogo come il web dove la polluzione del commento e l’onanismo della minchiata hanno spesso il sopravvento sui sopravvissuti di buona volontà, non sarebbe meglio mettere un timer alla tastiera? Scrivi una cosa e invii, ma scatta un orologio che ti ricorda che hai ancora tempo per tornare indietro, per ripensarci. Per capire che hai commesso un errore, indifendibile. Che se le lucciole e le lanterne non sono la stessa cosa, non è colpa delle lucciole (oddio, e le lanterne?), ma di chi vaga nel buio del mondo credendo di brillare di account eterno. Senza riuscire a staccare gli occhi dall’estasiato volo dell’asino.

Asini senza paracadute

tm2tm1

Il fatto nudo e crudo. Il Teatro Massimo nella sua nuova campagna pubblicitaria ha una foto in cui due ragazzi tengono tra le mani un portabiglietti pieghevole. Qualcuno ha visto in quest’immagine un dettaglio esilarante, se fosse stato vero: i due che tengono in mano un depliant capovolto. Solo che così non è. Il Teatro ci ha persino scherzato su. E poi basta aver tenuto almeno per una volta tra le mani un portabiglietti (di teatro, di aereo, di nave, voucher) per capire di cosa si tratta.
Niente. Sfottò sulla comunicazione 2.0 (proprio oggi in cui sui giornali si parla della comunicazione 2.0 del Teatro, guarda un po’). Addirittura il pippone sulla città disamministrata, in cui per le anime candide e amanti del vero/buono/giusto, vivere è un incubo.
Peccato che le filippiche poggiano su un presupposto che, semplicemente, non c’è. Tutto è al suo posto in quella foto, come è chiaro a chi guarda con occhi sereni. Se pure l’illusione ottica avesse suscitato un dubbio, bastava non dico staccare gli occhi dal volo estasiato dell’asino ma porsi una semplice domanda: è mai possibile che solo io sono furbo e tutto il mondo è fesso?
Oppure bastava controllare, verificare, dinanzi a un simile apparente strafalcione (della serie, notizie troppo belle per essere vere). Ma questo attiene al giornalismo, lo capisco.
Come dite?
Ah.
Trattasi di gente del mestiere, giornaliste insomma.

The sound of lasagna

Visto grazie a Mauro Caruso. A cui ho pure rubato il titolo.

Obama, Renzi e la stele dell’ignoranza

Obama e Renzi

Guardando la diretta Facebook della conferenza stampa congiunta di Barak Obama e Matteo Renzi mi ha colpito un dettaglio ormai non più secondario: i commenti degli utenti italiani. Tutto un miscuglio di schifezze, di offese a raffica, di qualunquismo becero. La frase più ricorrente, piena di una violenza subliminale, strisciante come quella dettata dalla non conoscenza, è: tornatene a casa che abbiamo problemi più gravi.
Non funziona così. Non funziona così da nessuna parte del mondo civilizzato. A parte quel briciolo di orgoglio nazionale che dovrebbe accompagnare il capo di un governo, un governo qualsiasi purché sia vagamente democratico, nelle sue missioni diplomatiche, c’è una ragione molto più valida per ritenere gli attacchi a raffica all’istituzione (badate, non parlo di Renzi come persona) un esempio di somma inciviltà: il criterio della rappresentatività.
Si può essere d’accordo o no con un governo, si può aver votato o no la parte politica che decide le nostre sorti, ma non si può dileggiare un’istituzione nel momento in cui fa l’istituzione. Persino con Berlusconi, che era un impresentabile guascone, l’asticella dell’odio gratuito era più alta. Con Renzi, nell’epoca in cui tutti sanno tutto perché non si occupano altro che del dire su tutto, questa vergogna italiana – perché lo sapete che è una tipicità italiana, vero? – ha raggiunto il suo apice. Sino a quando non saremo un popolo unito davanti ai suoi simboli, saremo solo l’eterna regione ai confini dell’impero. Sino a quando non impareremo che il dissenso non è offesa e dileggio, ma ragionamento e strategia, saremo solo un’accozzaglia di nickname sulla stele che più ci meritiamo. Quella dell’ignoranza.

Buona musica, Maurilio caro

Maurilio PrestiaSe ti accorgi che stai scrivendo più di morti che di vivi ci sono due cose da fare. Congratularti con te stesso perché ancora sei di questa terra e brindare alla salute di quelli di cui ancora non hai scritto. Ecco, questa è una tipica frase che avrebbe scritto Maurilio Prestia che tutti celebrano oggi come organizzatore di concerti, ma che io ricorderò sempre come giornalista, come critico musicale.
Negli anni Ottanta eravamo giovani e ci muovevamo sulla scia dei critici di maggiore esperienza, Gigi Razete, Fabio Caronna, il fiammeggiante Pippo Ardini. Io e Maurilio scherzavamo sempre sul fatto che non ci incontravamo mai di giorno, del resto era la notte il nostro orticello. Erano tempi di musica a go-go, soprattutto per il jazz e il rock. In certe sere recensivamo anche due concerti in contemporanea – lui per il L’Ora, io per il Giornale di Sicilia – organizzandoci per tempo: ne seguivamo uno l’uno e a notte fonda davanti a birra e sigarette ci scambiavamo gli appunti. Un paio di volte facemmo un gioco ancora più perverso: siccome i concerti erano in location abbastanza vicine tra loro, ne seguimmo un tempo l’uno per poi scambiarci il posto durante l’intervallo.
Era uno spasso Maurilio. Era uno spasso lavorare con lui, che in realtà doveva essere un mio concorrente, ed era uno spasso lavorare a quei tempi con interlocutori come Arturo Grassi e Totò Rizzo, i due pazzi che credettero in uno come me, capellone, vestito di mille colori, chitarrista fallito e fissato col giornalismo.
Me la ricordo, la prima sera in cui mi mandarono a seguire un concerto. Era al Brass e c’era Maurilio, che non scriveva ma ascoltava. Io partorii trenta righe lunghe una notte, l’indomani mattina consegnai il pezzo a Totò che, perfidamente non mi disse nulla. Anzi mi disse: “Aspettiamo Arturo”. Passeggiai sotto la sede del giornale per quattro-cinque ore. Poi tornai alla carica.
“Bravo, 7 e mezzo”, mi disse Totò. Ma non pubblicarono il pezzo: in realtà si trattava di una prova e quel concerto l’aveva seguito l’allora titolare, Fabio Caronna (che io non avevo mai visto, quella sera, perché troppo preso da vergare appunti su appunti, manco avessi dovuto scrivere la biografia di Miles Davis).
Fui felice lo stesso. Quella sera me ne uscii galleggiando sulla mia nuvoletta di orgoglio: presto sarei stato un critico musicale vero! Avrei firmato sul Giornale di Sicilia! E mi avrebbero persino pagato (pochissimo, ma chi se ne fregava…)!
Alla prima cabina telefonica chiamai Maurilio e ce ne andammo a Mondello a cazzeggiare e a parlare di musica. E a impastare birra e sigarette con l’incoscienza felice di chi ha appena addentato i vent’anni.
Quanta musica c’era. E che silenzio che c’è oggi.
Buona musica, Maurilio caro.

Porca Vacchi, che semplicità!

Cosa ti piace di lui?
“La semplicità…”.

Così la fidanzata di Gianluca Vacchi intervistata da Libero aggiunge una categoria alle “Lezioni americane” di Calvino. La semplicità.
Seguono alcuni esempi di calviniano rigore.

gianluca-vacchi-giorgia-gabriele-839737

38742f1e05da11e3b84422000a1fa53a_7-580x580

gianluca-vacchi-8-644644

 

 

Il meno bello della diretta

Diretta facebook

Facebook pullula di dirette web. Neanche il tempo di aggiornare la timeline che ti spunta una diretta sul tramonto di Monte Pensatè, incardinata tra una diretta su come si cucina la pasta con le sarde e un’altra su quello che si leggerà domani sul giornale. In quest’abbuffata di immagini sgranate, in questo groviglio di auricolari, in quest’orgia di byte senza padrone, c’è tutto il paradosso dei social e del loro pubblico distratto. Facebook non è più lo strumento per comunicare, ma il regista della comunicazione stessa che impone nuove strategie. Strategie che pochi hanno studiato (e magari capito), ma che tutti sposano ciecamente. Perché si deve fare e non farlo significherebbe rinunciare a una possibilità.
Le conseguenze sono due.

Continua a leggere Il meno bello della diretta

La minchiata più grande è quella che deve venire

 

Dunque c’è un medico radiato dall’ordine dei medici che sostiene una tesi che lui stesso ha ammesso che era precostituita e fallace. E inspiegabilmente, o forse no (ma sul forse no dovremmo scrivere un’enciclopedia) il propalatore di queste menzogne ha già incassato centinaia di migliaia di euro per imbastire il suo teorema folle contro il vaccino. Parliamo di Vaxxed, un documentario diretto da Andrew Wakefield, che spara scemenze a raffica sull’inesistente legame tra vaccino trivalente (morbillo – parotite – rosolia) e autismo.

Il senatore Bartolomeo Pepe, ex grillino oggi convertitosi al gruppo Gal di Tremonti (il che basterebbe a farsi un’idea del personaggio, perché uno che passa da Grillo a Tremonti va ascoltato non sugli scranni di Palazzo Madama ma sul lettino di un analista bravo) aveva programmato la proiezione della nota opera in Senato, ma per una rara convergenza di buone intenzioni e di altrettanta buona creanza spiccia, l’evento è stato annullato.

Continua a leggere La minchiata più grande è quella che deve venire

Radio e libri for dummies

 radio e libriNon devo parlare di social, non devo parlare di social, non devo parlare di social… Me lo ripeto – e lo scrivo – mentre penso a quel che leggerete sotto queste righe. E spero di riuscirci, se deraglio punitemi… chessò, chiudete questa pagina.
Stamattina mentre correvo, c’è stato un momento in cui mi sono sentito felice: era finalmente arrivata la discesa, il Golfo di Mondello mi era apparso in tutta la sua azzurra bellezza, avevo ancora una buona scorta di acqua, ma non erano queste la cause di questa sensazione meravigliosa. No, il fatto determinante era che ascoltavo la radio, la musica era quella giusta (per me), c’era un programma che parlava di libri e io pensavo ai miei libri fondamentali.
Con la complicità delle endorfine da sportivo, ho capito cos’è veramente che fa bene al mio cervello: radio e libri. Sì, proprio così.
Radio e libri.
Non starò qui a rimbecillirvi sui vantaggi della radio rispetto alla tv e sul primato del libro su ogni altra forma di lettura. Darò piuttosto il mio personale contributo alla causa “felicità rapida e improvvisa”. Se fate sport o anche no, se siete incasinati o anche no, se siete annoiati o anche no, se cercate un la o anche no, provate ad accendere la radio. Ognuno ha la sua combinazione, qualche anno fa diedi la mia (oggi mi permetto di suggerirvi Radio Time dalle 12 alle 13 ma solo perché c’è il sottoscritto che blatera e prova a inanellare qualche idea di senso compiuto). La radio aiuta a non sentirsi soli quando magari lo si è davvero e non ingombra le menti affollate di pensieri. La radio è condivisione autentica (non devo parlare di social….) e lubrifica gli ingranaggi logici.
Quanto ai libri, ogni commento è sbrodolamento. Quindi vi do la mia cinquina di imperdibili, soprattutto per i giovani. Sono tentato di fare un elenco più lungo, ma mi trattengo, magari ne parliamo un’altra volta, con categorie più specifiche. Dunque, ecco i miei cinque.

Il giudice e il suo boia di Friedrich Dürrenmatt.
Le lezioni americane di Italo Calvino.
Il nome della rosa di Umberto Eco.
La variante di Lüneburg di Paolo Maurensig.
De Profundis di Oscar Wilde.

Letto, approvato e sottoscritto.