Escher, la felicità dell’impossibile

“Coloro che tentano di raggiungere l’assurdo, otterranno l’impossibile”.
M. C. Escher

Io vado pazzo per Maurits Cornelis Escher, il famoso grafico e incisore olandese che ha scardinato le porte della logica per farne un giardino proibito di paradossi, di costruzioni impossibili, di prospettive che negano l’esistenza della tridimensionalità.
Stamattina, in un raptus di “assurdo/impossibile” (vedi citazione sopra), ho fatto il pieno alla mia vecchia auto, ho fatto tutti gli scongiuri possibili, dato che il mezzo è davvero mezzo e io avevo un’insana voglia di tornare a casa intero, e fatto una corsa a Catania per vedere questa splendida mostra. Quattro ore di auto, tra andata e ritorno, per un’ora di godimento.
Sapete che vi dico? Ne è valsa la pena.
Tornato a casa ho accarezzato il catalogo gentilmente regalatomi dalla curatrice e ho iniziato a sfogliarlo come si fa con un libro prezioso. Vi sarà chiaro che, inspiegabilmente, ho una perversa attrazione per le acrobazie prospettiche (e via con le metafore…) di Escher: potrei stare ore a guardare la sua Relatività, potrei perdermi nella famosissima Metamorphosis considerata il suo capolavoro (una sorta di Guernica senza rivoluzione, ma con un’intelligenza rivoluzionaria da brivido), o rimbambirmi davanti alla Galleria di stampe che il maestro non potè completare perché non riusciva a chiuderla graficamente e/o logicamente nella sua parte centrale (il completamento fu effettuato, postumo, a opera di due matematici nel 2003). Alla fine mi sono consolato con una Mano con sfera riflettente che ho adottato come screensaver dello smartphone, e con la felice consapevolezza di una scelta: da dieci anni ogni notte, prima di addormentarmi, do un’occhiata all’immagine che sta accanto al mio letto: Giorno e notte. Di Maurits Cornelis Escher, naturalmente.
Evidentemente non è un caso.

Libri, buone notizie

Buone notizie per il mondo dei libri. Secondo i dati dell’Associazione italiana degli editori c’è, per il secondo anno consecutivo, una crescita del mercato: più 2,3 per cento rispetto al 2015. Mentre cala un po’ il numero effettivo dei lettori (maschi e femmine) che comunque sono oltre 23 milioni, cresce la quota dei lettori ultrasessantenni e resta stabile quella dei “lettori forti” (almeno un libro al mese) che sono 3,2 milioni. Aumentano le vendite di ebook, ma parliamo di un mercato che sta nel 10 per cento.
Insomma, una volta tanto possiamo rimandare la nostra lamentela quotidiana.

Il felice diritto di essere tristi

Stamattina alla radio ho parlato di tristezza. Ed è finita, come era giusto, con grandi sorrisi. C’è il podcast e se avete tempo e voglia lo potete scaricare qui. Ora però mi piace mettere nero su bianco un paio di pensieri che magari non susciteranno risate ma, mi auguro, semplici pensieri fecondi.
Sono, siamo invecchiati con un pregiudizio: la tristezza è disdicevole, va bannata perché è indice di debolezza.
Com’è tal dei tali?
Bah, un tipo triste.
Che è uno scambio frequente e plausibile quando si parla di sconosciuti. Ma quando questo genere di emozione si infiltra nelle pareti delle nostre vite, e non per tragedie né per eventi luttuosi in genere, è lecito darle una dignità.
In generale non sono mai stato uno triste. Ho sempre detestato le persone che detestano la tristezza: pensate alla politica e ai grandi messaggi di ottimismo che tengono a contrapporre chi ostenta un entusiasmo (magari beota) a chi si abbandona a una perplessità realisticamente tristarella.
Ascolto molta musica, da sempre. E appartengo alla larga schiera di quelli ai quali la musica ha salvato la vita, più di una volta: del resto come pensavate che fossimo sopravvissuti agli anni Settanta?
Conosco molto bene l’assioma secondo il quale quando sei felice ti piace la musica, ma quando sei triste ti interessi dei testi. Eppure lo confesso: sono un triste improvvisato e impresentabile, e dei testi spesso non me ne frega niente.
Se ci pensate bene, quest’emozione è un cortocircuito di memoria e di attualità, è un quadratino della carta millimetrata di un’esistenza. C’è, ma si potrebbe ignorare. Non si misura per estensione, ma per gradi di mancanza. Come sappiamo un millimetro in meno spesso cambia le sorti di un chilometro.
Ecco perché la tristezza – e non la malinconia che come diceva Victor Hugo è “la gioia di sentirsi tristi”, e che quindi è un gol a porta vuota per chi ha una confidenza con le emozioni di un grado appena superiore a un Matteo Salvini – è un’occasione. Vera e determinante. Per guardarsi dentro senza l’ansia di dover fare ordine. Per marcare la differenza dai robot che si muovono con sicurezza sia nella luce che nel buio. Per ricominciare o per guardarsi dal farlo.
La tristezza è il più meraviglioso dei diritti. Te lo prendi da solo e nessuno te lo può negare.

Un pugno nello stomaco

Con coraggio Il Post ha scelto di pubblicare le foto atroci del bombardamento chimico in Siria. Per un semplice motivo: nell’era della post-verità o di quella che potremmo chiamare veritezza, cioè un surrogato di verità che soddisfa solo le nostre aspettative, è fondamentale riprendere in mano il pallino della realtà. A Khan Sheikhun c’è stato davvero un attacco chimico. E ci sono state decine e decine di morti, molti dei quali bambini. Nonostante il governo siriano abbia negato ogni responsabilità, molti testimoni sul campo – di agenzie attendibili come Getty Images e Associated Press (tra le più importanti del mondo)  – dicono che l’attacco è stato compiuto dal governo del presidente Bashar al Assad o dalla Russia, suo alleato di ferro.
Questa foto è un pugno nello stomaco. E mi faccio quasi ribrezzo nel pubblicarla. Però può servire a ristabilire una verità.

Ne parlo anche qui. Ascolta il podcast.

 

Fumare controvento e altri riti inutili

“Dio ama i poveri…”
“È per questo che ne ha fatti tanti”.

La citazione è tratta da “L’elenco telefonico di Atlantide” di Tullio Avoledo, un gran bel libro che lessi nel momento in cui mi parve un gran bel libro.
E il tema è proprio questo.
Noi non siamo solo quello che leggiamo (semicit.), ma siamo anche quando lo leggiamo. Nello specifico io non sono un bulimico della lettura, anzi. Uso la lettura, purtroppo, in modo opposto e contrario rispetto ad altro, al cibo ad esempio.
Se sono felice mangio meno e leggo di più. E viceversa. Questo per dire che per quanto riguarda i libri esiste uno scacchiere temporale relativo per ciascuno di noi. Che non segue cronologie legate all’età anagrafica, ma piuttosto la luce dei nostri occhi, il taglio delle ombre di un’epoca.
Ci sono libri che potevate leggere solo in quel momento preciso, quando avevate un sabato sera inutilmente libero, tutto per voi, quando eravate padroni del mondo e invece vi sentivate poveri affittuari di un angolo di weekend. E ci sono libri che avete letto quando credevate di essere ispirati, quando per sfogliare un paio di pagine cercavate uno spazio nell’agenda, quando vi aspettavate di distillare da quelle parole un insegnamento determinante.
Credo poco all’ispirazione della lettura, per me quella vale solo a malapena per la scrittura. Credo piuttosto in un magico accordo che è anche un minimo elisir di lunga vita: leggere e/o scrivere è un punto che ha precise coordinate di luogo e di tempo.
Il libro che mi ha cambiato la vita lo lessi in un’appassionante missione sciistica, in cui il mio primo pensiero era portare le ossa sane a casa ogni sera. Ero concentrato in una personale impresa sportiva eppure quel libro, che pure era un saggio quindi mica un romanzone ruffiano, mi deconcentrava a tal punto da rimettermi in armonia col mondo. Era il tassello nel legno tenero di una maturità abbozzata, insospettabilmente solido.
Altri libri – non scrivo i titoli perché è il concetto generale che voglio rappresentare – mi hanno arricchito, mi sono rimasti dentro, mi hanno divertito o sconvolto perché le loro pagine erano scalini sui quali inerpicarsi in quel momento.
Ricordo a memoria incipit di romanzi non memorabili, ho dimenticato le trame di pietre miliari della letteratura. Ci sono narrazioni nelle quali mi sono immerso solo perché chi me le leggeva – sono stato un feticista della lettura ad alta voce – era una determinata persona e non un’altra.
Leggere e/o scrivere è un vizio. E come ogni vizio risente dei riti. C’è chi adora fumare controvento, io quando fumavo non accendevo mai una sigaretta se l’aria non era immobile. Un vizio che ha le sue controindicazioni: se non hai il  quando giusto magari ti ritrovi intossicato di parole inutili che possono essere più dannose del catrame nei polmoni.
Insomma di ogni libro che ho letto magari non ricordo il titolo, la trama, però ricordo quando l’ho letto. È un puzzle di sensazioni che si ricompone a ogni passo di memoria. Un atto che dà comunque ristoro perché quel che le anime semplici chiamano soddisfazione, gli altri chiamano consolazione.

Il giudice e il suo boia (che non sono io, ma il suo vizio)

Stamattina ho postato sul mio profilo Facebook la foto e il testo che vedete sopra. Si tratta di un’immagine presa dal profilo del giudice finito nell’inchiesta sul giro di cocaina a Palermo: per lui c’è stato, prima il trasferimento al settore Civile (come se si trattasse di un luogo di ricreazione) poi l’avvio di un procedimento disciplinare.
Le truppe cammellate degli amici del giudice sono andate alla carica, com’era prevedibile, del sottoscritto con argomenti risibili e anche un po’ sgangherati: diffamazione (ma di che?), sciacallaggio (per ottenere cosa? Un buono aperitivo?), benaltrismo (ci sono altre cose più importanti di cui occuparsi: il prezzo delle cartine?), mi faccio pubblicità (con una causa così ovvia?).
Ora, premesso che ontologicamente c’è sempre qualcosa di più importante di cui occuparsi quando uno si occupa dell’amico tuo, c’è un tema ben più importante da affrontare, secondo me.
Ed è il tema che dovrebbe affrontare il CSM.
Questo signore, nei confronti del quale non ho nulla di personale, ma verso il quale – per il rispetto che ho della magistratura – devo mettere in campo tutta la mia intransigenza professionale, oltre ad aver tenuto un comportamento quantomeno incauto nella gestione dei suoi vizi (chiama “compare” il suo spacciatore, tira fuori il tesserino professionale quando gli agenti lo sorprendono e altre amenità), non mostra di avere piena contezza del suo importantissimo ruolo. E la foto postata pubblicamente sul suo profilo Facebook – chiunque la poteva vedere, non ho rubato nulla – mentre fuma con il cartello del divieto ben in vista alle sue spalle, è un elemento di valutazione. Lo è per colpa sua, perché è riuscito a rendere rilevante qualcosa che per chiunque altro sarebbe una fesseria.
A mio parere questa foto che lo mostra mentre fa una cosa sanzionata dalla legge è un tassello che purtroppo va inserito nella sua naturale collocazione quando si tratta di decidere se un professionista del suo livello ha un atteggiamento corretto o meno.
Non ci sono chiacchiere su temi così importanti. Non ci si affida al blabla dei social per stabilire dove sta il diritto. Il mio ruolo professionale è, è stato e sempre sarà, quello di segnalare. Senza pregiudizi.
Al magistrato dico: buona fortuna. Ai suoi amici: stategli vicino.

 

Se vostro figlio torna a casa pestato

Il padre che pubblica le foto del figlio minorenne pestato da delinquenti minorenni innesca polemiche lunghe come la teoria di dubbi sulla reale utilità di quel gesto.
Da un lato l’esigenza di dare una scossa, di rispondere a choc con choc, dall’altro evidenti limiti di privacy e di esigenze di tutela dei minori.
Bene, questa è la parte che conosciamo tutti.
Ora prendiamoci però la piccola libertà di riflettere su un altro aspetto.
Il mondo, come lo conoscevamo sino a dieci anni fa, non c’è più. Tutti, ripeto tutti, siamo stati catturati dall’orbita di questa nuova giostra che travolge e stravolge: il privato è pretesto per rendere più appetibile il pubblico (e viceversa), la condivisione è la forma di intrattenimento più gettonata, lo smartphone è l’unico oggetto del desiderio che non teme il logorio della vita moderna, il sistema di relazioni è fondato su una rigida scelta di campo – meglio quel gestore di telefonia o quell’altro?
È chiaro che, nonostante le umane resistenze di chi è cresciuto nel mondo analogico, non si può cercare di svuotare il mare col secchiello. Quindi è inutile lanciarsi in crociate che sottendono giustizie sociali di altre ere geologiche.
Un minorenne che vive nei social, tra i social, per i social non può che trovare lì il suo destino o, se preferite, la sua nemesi (il discorso vale anche per i maggiorenni, ma in questo momento la riflessione è legata ai ragazzini). Per questo non riesco a non immedesimarmi nel padre di quel ragazzino che torna a casa pestato e umiliato, e che racconta tutto all’unica autorità che dio, o madre natura, gli ha messo di fronte: un papà attonito. Un papà che ha il dovere di fare tutto quello che può per il suo bambino. Ecco, se quest’uomo ha ritenuto di fare un passo ardito nel mondo che è più di suo figlio che suo, vuol dire che ha capito che il coraggio è una forma d’inquietudine: ognuno ha la sua. Ci si nasce e chi non ce l’ha non la troverà online.

Pensiero debole, minchiata forte

C’è un insulso movimento di pensiero, che naturalmente sboccia sui social, secondo il quale un assassino – crudele e selvaggio come un assassino che dà fuoco a un essere umano – non ha diritto a un avvocato. Deve marcire in galera, deve essere bruciato a sua volta, occhio per occhio canino per canino.
I portatori (neanche tanto sani) di simili geni di incongruenza potrebbero limitarsi a dire: ok è vero, esiste la legge però a me la legge fa allergia quindi sono per il taglione. Invece ne fanno una campagna di opinione che, con le dovute cautele, ha la stessa plausibilità di un programma politico di Francesco Benigno.
Ma l’allergia verso la legge non può essere invocata solo quando c’è di mezzo il sentimento più a basso costo che esista, e cioè la vendetta. Perché chi di allergia ferisce…
Che ne direbbero questi geni del pensiero social se la stessa allergia colpisse anche il mondo che li circonda e non soltanto i loro alacri polpastrelli? In fondo un assassino, un truffatore, un rapinatore, un corruttore soffrono della stessa loro patologia. Anche loro si ribellano, a volte a muso duro, alle regole. Solo che loro almeno non dilagano su Facebook. Mica fessi, quelli.

Dire grazie a chi lo merita

La campagna del radicale Marco Cappato che con l’associazione Luca Coscioni porta avanti la battaglia per una morte dignitosa è anticamente bella.
Anticamente perché in un’era di mobilitazioni da mouse, con migliaia di rivoluzionari da tinello che non alzano il culo dalla sedia manco per affacciarsi alla finestra e respirare un po’ di realtà, uno che va in Procura per autodenunciarsi per il reato di aiuto al suicidio (rischiando una paccata di anni di carcere), dopo aver accompagnato un uomo in Svizzera per il suo ultimo viaggio, compie un gesto di antica importanza. Di coraggio radicale, se volete: autentico, che si tocca con mano, che commuove. E che dimostra che per accarezzare il cuore dei vivi non servono i finti videoclip coreani sul giovane mendicante che diventa una star della medicina e guarisce aggratis chi gli aveva dato l’elemosina.
Bella perché è una campagna drammaticamente meravigliosa. Forte e amorevolmente crudele come solo la storia dei radicali ha saputo metterne su.
Insomma Marco Cappato indagato è il migliore motivo per guardare al futuro con ottimismo analogico. Se proprio qualcosa il fantasmagorico popolo del web volesse fare per mettere a buon profitto l’impegni di Cappato, dell’associazione Coscioni e di quei galantuomini che lottano per un ideale scomodo e anticamente bello,
potrebbe limitarsi a leggere, imparare, rileggere e riflettere. Senza lasciarsi trascinare da un hashtag, ma solo da un’eventuale anarchica emozione.

Chi difende i cocainomani?

Lo so che a molti dà allergia che si parli dei vizi dei ricchi o delle debolezze degli amici, però a me questa storia della cocaina a fiumi a Palermo mi dà i tormenti. Un po’ ne ho scritto qui e ne ho parlato altrove. Un po’ l’ho lasciato sedimentare nel caos dei miei pensieri.
Ecco uno spunto.
Abbiamo crocifisso i commercianti che pagavano il pizzo, lo abbiamo fatto nel nome del rispetto delle regole e tutti noi, al di qua della barricata, sappiamo che ci fa orrore il solo pensiero che qualcuno foraggi la criminalità organizzata in una città in cui la criminalità organizzata ha combinato quello che ha combinato.
Ora si scoprono cocainomani insospettabili (???) che vengono guardati con sufficiente e nemmeno troppo malcelata benevolenza perché in fondo sono cazzi loro, e non fanno male a nessuno, e sniffare non è reato penale, e c’è di peggio nell’universo, e via blaterando.
Ebbene no. E non bisogna fare i bacchettoni per ricordare che chi paga il pusher finanzia Cosa Nostra. O credete esclusivamente all’invenzione anarchica di Breaking Bad?
In più, a voler essere pignoli, ci può essere qualche commerciante che – pur sbagliando clamorosamente – ha scelto di cedere all’estorsione per salvaguardare posizione economica e posti di lavoro. Mentre il cocainomane agisce solo per esclusivo e personalissimo tornaconto, per egoismo insomma.
Tutto qui.