Settimo: non rubare (emozioni)

Nella logica complicata dei dieci comandamenti c’è una teoria di indicazioni, prescrizioni, divieti. In realtà ne basterebbe uno solo: evita di fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Tuttavia un’alternativa interessante è stilare (con un sorriso) un decalogo personalizzato che ha il vantaggio di non essere imposto da nessuno e di derivare da un minimo di esperienza. Ecco il mio.

  1. Presta solo ciò che ti puoi consentire di perdere. Attenzione compresa.
  2. Lavati i denti almeno tre volte al giorno. Le cazzate di una bocca sporca infastidiscono il doppio.
  3. Impara a cucinare. Ti sarà utile quando capirai che mangiare bene è un buon modo di sopravvivere specialmente se non è solo il tuo stomaco a essere vuoto.
  4. Non comprare vino al di sotto dei dieci euro. Il vino del contadino pestato coi piedi lascialo al contadino (che tanto manco lui se lo beve).
  5. Celebra l’amore con la consapevolezza inconfessata che la migliore storia d’amore è quella che finisce. Il resto è gara di sopravvivenza.  
  6. Non uccidere chi dice “un attimino”. Bisogna saper resistere alle provocazioni… e la vita è un attimino.  
  7. Non rubare emozioni. Tesaurizza le tue.
  8. Non condividere nulla di ciò che non conosci o che non hai verificato. L’ignoranza de relato mette a dura prova il rispetto del sesto comandamento.
  9. Cerca di desiderare il meno possibile la donna d’altri. Sono guai comprati peggio di un tre per uno da Lidl.
  10.  La prudenza è una virtù quando si è alla guida di qualcosa o di qualcuno. In altri casi è utile quanto un costumino di cemento se decidi di farti una nuotata in mare aperto.

La santa certezza del due di picche

L’articolo pubblicato oggi su Repubblica Palermo.

“Mi vuoi sposare?”. “Manco per sogno”. La short version della disavventura di un giovane catanese che si è presentato all’arrivo della sua fidanzata all’aeroporto Fontanarossa con palloncini e richiesta di matrimonio a sorpresa e si è visto rifilare un due di picche, ci riconsegna una realtà che gode ancora di un’adeguata dose di rassicurante incertezza. I social, attraverso i quali queste vicende diventano virali, ci hanno abituati infatti a una lettura bidimensionale delle emozioni annunciate: su Facebook tutto è bene quel che finisce come ci si aspetta che finisca. E invece la vita vera ha sempre un colpo di coda che ci sorprende. Non sapremo mai cosa c’è davvero dietro quel rifiuto, se più costrizione o libertà, se più saggezza o ingenuità, se la mamma che si è portata via la presunta promessa sposa scagliandosi contro il ragazzo è più guerriera o più imperatrice. Di certo c’è il sapore agrodolce che rimane quando l’amore che era in bilico scivola nella più genuina delle certezze. Quella di dire no, quando tutto il mondo si aspetta il contrario.     

Il maratoneta solidale

L’articolo pubblicato oggi su Repubblica Palermo.

L’uomo che fa correre le maratone ai disabili è un alieno. E non perché ci vogliono forza e resistenza pazzesche per spingere qualcuno in carrozzella per decine di chilometri, ma perché solo un extraterrestre della solidarietà poteva inventarsi un altruismo così concreto e divertente nel Paese dei porti chiusi e delle bocche aperte.

L’esempio di Vito Massimo Catania, da Regalbuto, è di un fulgore imbarazzante per noi italiani rimbambiti dall’opacità di un sentire comune che ha paura delle differenze. Lui, il runner solidale premiato da quell’altro alieno del presidente Mattarella, si è stufato di vincere gare da solo poiché ha capito che la condivisione è ben altro che un tasto di Facebook. E allora corre, corre per regalare passi a chi non li ha. Taglia traguardi per donare soddisfazioni a chi a un certo punto si è trovato a corto di speranze. Ebbene sì, Vito Massimo Catania, l’uomo che spinge in silenzio le carrozzelle al limite dell’umanamente possibile, è il perfetto contraltare di una nazione governata da panzoni bulimici ed egoisti.   

Libertà

Lo spunto me lo ha dato, qualche giorno fa, la morte del professore Fernando Aiuti, l’immunologo che più di altri riuscì portare avanti la lotta all’Aids con il rigore e la libertà concesse dalla scienza. E se sul rigore nulla quaestio, sulla libertà il campo è aperto. Apertissimo.

L’applicazione della libertà ai temi più svariati e complessi della nostra vita è il vero tema.

Come Aiuti ha interpretato il suo ruolo di scienziato, con rigore e fantasia, cioè con un registro e il suo contrario, così credo che i nostri momenti migliori siano quelli in cui la libertà mostra il suo confine più raggiungibile: che non è un ossimoro, ma il frutto di un’applicazione costante sul metodo per una soddisfazione più o meno istantanea.

Espongo brevemente la mia esperienza.

Quando al lavoro mi sono annoiato, ho mollato tutto e ho scelto una collocazione in cui, pagando, avrei avuto maggiore libertà. Non mi sono assicurato il divertimento, ma la soddisfazione di fare ciò che mi piace nel modo più conveniente (per me e conseguentemente per il mio datore di lavoro) sì.

Quando ho creduto in un sentimento al di sopra della cintola, l’ho fatto sapendo che un legame duraturo non era una prigione bensì un’assicurazione sulla vita. Non mi sono garantito l’amore eterno, ma la soddisfazione di dire che ci ho provato (e di constatare che certe polizze è meglio non riscuoterle) sì.

Quando mi confronto con persone in difficoltà, io che tengo la bontà a distanza con la canna, tendo a misurare il loro grado di affidabilità con la loro resistenza all’ira, alla rabbia. Perché la vera forza della libertà – l’ho imparato solo di recente – è quella della fusione fredda. Risentimenti, vendette, insofferenze, patemi, allergie, odio, repulsione, sono ingredienti che vanno maneggiati con l’occhio del chimico, o del pasticciere: un milligrammo in più o in meno e tutto è perduto.

Capisco che la vera libertà, all’alba dei miei 56 anni, è quella di non pensare chi sarà al tuo capezzale quando te ne andrai, ma quella di abbracciare chi ti chiede discretamente cosa farai il prossimo weekend, chi ti consiglia il film che vorrebbe vedere con te, chi ti chiama perché ha una bottiglia da condividere, chi ti regala sere esilaranti gratis, chi non rinvia ma anticipa, chi se anche ti ha voltato le spalle quando meno te lo aspettavi si scusa goffamente, chi c’è al posto di altri che se la sono data a gambe.

La libertà è trasversale.

E, ontologicamente, è per pochi sopravvissuti quindi preziosissima.         

Prima il cassonetto

Cerco di essere chiaro. La decisione di Orlando di sospendere l’applicazione del decreto sicurezza sugli stranieri è un’espressione di alta civiltà che mira ad arginare una svolta razzista da molti cittadini inopinatamente invocata. E non valgono argomentazioni superficiali tipo “vabbè è una legge regolarmente approvata eccetera” giacché in passato anche (altre) leggi razziali furono “regolarmente approvate” e finì come finì. Non mi dilungo sui principi di incostituzionalità ventilati (tipo la discriminazione per chi ha il permesso di soggiorno in scadenza) ma sottolineo l’esilarante parallelismo tra munnizza e migranti, come se un’emergenza fosse in concorrenza con l’altra. Prima dell’accoglienza ci sono i cassonetti, strepitano i cripto-razzisti da cultura social. Non è così che funziona il mondo. Il mondo con la sua congerie di sentimenti è multitasking: è bianco e nero, è destrorso e mancino, è cultura tra le macerie e ignoranza da salotto, è ricchezza di argomenti e povertà di idee. Tutto contemporaneamente. Brandire lo slogan “prima il cassonetto” come conseguenza logica del “prima gli italiani” significa aver abboccato alla becera fandonia secondo la quale trenta morti di fame, al gelo di una deriva in pieno Mediterraneo invernale e incazzato, sono una minaccia per la sicurezza nazionale. Mentre la vera minaccia l’abbiamo tra noi, come un cavallo di Troia. Ed è la nostra violenta ignoranza.

Il miracolo del clochard ammazzato

L’articolo pubblicato oggi su Repubblica.


C’era una volta un clochard francese che stava a Palermo sotto i portici di Piazzale Ungheria. Si chiamava Aid Abdellah ma per tutti era Aldo, un uomo gentile, un artista che viveva in simbiosi col suo gatto Helios. Non era un disperato, era uno che aveva fatto una scelta di felice determinazione, quindi era esattamente l’opposto di un disperato. Parlava tre lingue ed era colto. Quando s’imbatteva in ragazzini storti, e capitava vivendo per strada, li ammoniva ma sempre col sorriso: “Andate a scuola”. Aldo aveva un solo difetto: era un uomo buono.

Una notte un paio di quei ragazzini storti cercarono di rubargli dei soldi, lui si oppose e loro lo uccisero con una spranga di ferro portando via il bottino: 25 euro.

Con la sua morte si compì un miracolo di cui si parlerà per lungo tempo, se è vero che gli saranno intitolati i portici che erano la sua casa. Il miracolo di una comunità di palermitani che quando Aldo era ancora in vita, quindi fuori dalla comoda scia dell’emozione post mortem, si occupavano di lui con la discrezione che lui stesso esigeva senza chiederla. Vero altruismo fatto di parole – ma non altruismo a parole –, del caffè che la mattina una barista gli portava, della chiacchiera disinteressata, del sorriso sincero tra amici che non si sono mai detti amici per non inciampare nel formalismo di un rapporto codificato. La Palermo che si muoveva silenziosamente attorno ad Aldo, e a quelli come lui, è una città nella città: gente intellettualmente operosa e non importa se con la laurea o con la licenza elementare; artigiani del buon fare; nemici della lamentela che nasconde l’inerzia. La città della tolleranza silenziosa che non ostenta, non urla nemmeno davanti alla morte perché sa che è facile amare qualcuno quando quello è due metri sottoterra.

Questa comunità venne alla luce quando Aldo non ci fu più. E fu un miracolo nelle lande dell’ira on demand e della desertificazione di buone azioni selfie-free. L’emergere dalle viscere di un sentimento antico come il rispetto, di un manipolo di sopravvissuti al cattivismo imperante che, come zombie felici e discreti, si ripresero qualche metro di marciapiede e lo illuminarono di vero altruismo. Questo per Aid Abdellah che per tutti era Aldo e che non era un disperato.

Uscita di sicurezza

C’è una teoria molto personale che i miei amici più cari, diciamo quelli che si contano sulle dita di una mano, conoscono bene perché è (stato) un tema di grande discussione.

È la teoria dell’uscita di sicurezza.

Consiste in questo. Quando sei felice, realizzato, appagato, soddisfatto e via gongolando, non dimenticarti mai di guardarti intorno e di visualizzare l’uscita di sicurezza. Non la imboccherai, non ti servirà mai, magari ci riderai su, ma è fondamentale vederla. Perché è facile cercarla quando sei in difficoltà o in stato d’allarme, lì non c’è bisogno di nessuna teoria: bastano due gambe forti e la determinazione di dirsi “pronti, via… scappare”.

La vera visione strategica della felicità (o del suo surrogato), la weltanschauung realmente efficace del sentimento applicato alla cronaca, cioè ai cazzi di ogni giorno per evitare di finire lobotomizzato nella logica “Famiglia del Mulino Bianco”, è quella che ci rassicura quando non ne abbiamo bisogno.

Capisco che è un concetto non semplice da spiegare, ma credo anche che sia semplicissimo da intuire. La teoria dell’uscita di sicurezza non ci mette in fuga, ci evita l’intorpidimento dei sentimenti, ci comunica con la sua semplice evidenza che tutto è possibile anche quando non ci serve altro di possibile (o ci illudiamo che così sia). La felicità (o il suo famigerato surrogato) vive di contrasti, non è mai assoluta: è un tramonto dopo una giornata assolata e prima del buio; è un bacio che vuole diventare altro o che mai lo sarà; è persino una delusione che non si è trasformata in disastro. C’è un solo modo per darle la giusta cornice, ammirarla in un orizzonte di libertà dove c’è un minuscolo puntino, una porticina, che dà su un’uscita che probabilmente non imboccheremo mai. Ma che c’è, esiste ed è meraviglioso che ci sia.  

Crash

Stamattina la mia amica Barbara mi ha chiamato in causa su Facebook per una catena di segnalazioni di film, una cosa di quelle tipo “un film al giorno, posta una foto eccetera”. Io non amo questo tipo di giochi social, ma quel post mi ha innescato un pensiero. E quel pensiero si è solidificato: ho cercato il film che avrei voluto suggerire, il mio film, e non l’ho trovato su Netflix, Sky e Amazon. Allora ho esteso le ricerche e alla fine l’ho beccato su Google Play Film. E l’ho comprato per non doverne mai più avvertire la mancanza.

È un grande film. Ha vinto tre oscar nel 2006, ma non è questo che ne fa un capolavoro. La grandezza sta nel fatto che è un film che sembra essere stato scritto per questi nostri giorni, pur arrivando dal decennio scorso. È il più lacerante film sulla rabbia che abbia mai visto. Parla della diversità e dello scempio della tolleranza. È un film sulla speranza che nasce dal dolore e sullo scontro delle esistenze, sul pregiudizio e sulla precisione chirurgica con la quale il destino può sbagliare.

Si chiama Crash. Ed è il mio film.

La strada

Quando impari che c’è un rosé che ti può piacere, a patto che abbia le bollicine.

Quando pur di arrivare alla fine di un libro scegli di non dormire per una notte intera.

Quando chi c’è c’è e chi non c’è non è un caso che non ci sia.

Quando lo sport non è più schiavitù da endorfine, ma divertimento.

Quando il sentimento diventa una questione tua e solo tua.

Quando tutto si acquieta con Purple Rain e tutto si scatena con Back in Black.

Quando vedi qualcuno parlare di sé in terza persona e ti guardi intorno per capire con chi cazzo sta parlando: e quello se ne accorge.

Quando per prendere una decisione (più o meno importante) la prima riunione che convochi d’urgenza è quella con te stesso.

Quando hai il privilegio di poter scrivere quello che vuoi, ma scrivi quello che è giusto che tu voglia.

Quando gli amici non si contano, ma si pesano.

Quando i programmi dei comici sulla politica sono quelli televisivi e non quelli di governo.

Quando ti decidi a esercitare il tuo diritto al non perdono.

Quando perdoni e non sai bene perché, ma è forse un effetto delle scie chimiche.

Quando hai una minima occasione per esercitare un potere e la prima cosa che ti viene in mente è fare qualcosa che faccia sghignazzare chi ti sta intorno.

Quando magari ti piace essere riconosciuto, ma ancora di più mimetizzarti.

Quando una ruga non è più una rottura di coglioni, ma la cicatrice di un’infinita risata.

Quando le chiamate non risposte non ti danno più ansia.

Quando l’invidia è solo il refuso di un’insalata.

Quando sei pronto per il giro del mondo e manca solo per il mondo che non ti ha ancora proposto un programma compatibile con la tua Millemiglia.

Quando la bontà non è interessante se non c’è una persona debole di mezzo.

Quando l’ex potente che non ti ha mai salutato ti chiede un piccolo favore, e tu glielo fai col sadismo di chi vola alto ma mira al di sotto della cintola.

Quando la migliore parola non è quella che non si dice.

Quando la migliore parola non è quella che si vuol sentire dire.

Quando la libertà prevede una sola eccezione, essere padroni di se stessi…

… allora la strada è quella giusta, questo so.

Buon Natale, cari.

Niente, grazie

L’extended version dell’articolo pubblicato su Repubblica.

C’è sempre un mistero insondabile nel cuore di un clochard, nell’ultimo degli ultimi che sopravvive di carità quindi di una solidificazione dell’amore. Riguarda un inizio o una fine, uno spettro o un traguardo, una fuga o un riparo. Le storie di chi ha scelto di vivere senza storia sono la crosta più insondabile del pianeta della mente dove ricchezza e povertà hanno lo stesso valore, amore e odio si annullano a vicenda, fiducia e incredulità evaporano nel calore artificiale dell’alcol o chissà quale altro additivo. E invece, nonostante noi e i nostri filtri di benessere a portata di mano inguantata, c’è un livello di libertà tra il tutto e il nulla, lo Yin e Yang del sistema di relazione convenzionale, che rende possibile e affascinante ciò che altrimenti potrebbe essere catalogato come follia.

Il mistero di Aldo, il barbone ucciso sotto i portici di piazzale Ungheria a Palermo, si è disvelato subito dopo la sua morte quando una piccola processione di cittadini non griffati socialmente ha lasciato trasparire l’affetto per quell’uomo che passava le notti in un giaciglio di cartone. La barista che ogni giorno gli portava la colazione, l’artista che gli chiedeva cosa gli servisse per poi sentirsi rispondere “niente grazie”, il negoziante che ogni mattina scambiava quattro chiacchiere con lui.

In un miracoloso do ut des di dignità, Aldo e le persone che gli elargivano attenzioni erano attenti ciascuno a non invadere la coscienza dell’altro. Solo chi non conosce la landa del disagio interiore, chi non è mai incappato nel buio della mente, chi non ha mai ascoltato le domande mute di chi invoca rispetto per una scelta anche folle, può derubricare tutto in emergenza abitativa o assistenziale. Non c’è nulla di più difficile che aiutare chi non chiede l’aiuto che merita, non c’è nulla di più meraviglioso che dare una mano senza che la mano si veda (a patto di non simulare).

Il mistero di Aldo si è disvelato tranciando i cavi del perbenismo più becero, quello che elemosina ma non nutre, e configurando una forma altissima di rispetto, quella per la scelta in sé qualunque essa sia. Sapete una cosa? La gente è migliore di quanto possiamo pensare. Il male della menzogna, il rifiuto inorganico del pensiero (quello più inquinante), la violenza dell’ignoranza hanno un impatto fortissimo sul tono emotivo dell’opinione pubblica. Perché un popolo preoccupato, soprattutto se artificialmente, è più sensibile a rassicurazioni basic che non necessitano di troppi argomenti.

La carovana di umanità garbata al capezzale di cartone del clochard ammazzato (pare da due balordi minorenni) ci rivela oggi che si può marciare silenziosamente in ordine sparso per un ideale di carità discreta. Nell’Italia del “prima gli italiani” c’è un manipolo di anarchici che guardano l’altro, il più debole, senza ostentare sui social, che non si trincerano dietro un’elemosina di cittadinanza ma chiedono semplicemente “che ti serve?”. E come epitaffio la risposta: niente, grazie.