Pagine al vento

Le persone che seguono i tg, i giornali, non ne vogliono più sapere delle notizie. Lo dice uno studio molto serio, su scala mondiale. Tra le cause, da un lato c’è una convergenza sociale ed economica: i social, le bolle di disinformazione, i dilettanti allo sbaraglio, l’università della vita. Dall’altro, il fatto che noi giornalisti facciamo giornali fatti per noi, per una sorta di autoerotismo nel quale ci sono le notizie che ci piacciono e quelle che non ci piacciono.
Il podcast con un paio di storie personali.

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Gery Palazzotto
Gery Palazzotto
Pagine al vento
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Per via di due culi

Vi racconto una storia che parla di culi. Proprio così, di culi e di futuro. Tranquilli, niente di scabroso. È una storia che inizia oltre duemila anni fa e che arriva intonsa sino ai giorni nostri.

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Gery Palazzotto
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Per via di due culi
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Ingrati

Ci sono discorsi difficili da imbastire senza inquinarli di personalismo. Perché uno dei servizi migliori che chi vive e campa di parole può fare è, secondo me, cercare di restituire a chi legge concetti universali. “Restituire” è la parola giusta giacché  i concetti sono un bene comune e se qualcuno se ne trova privo è segno che qualcosa non ha funzionato nel meccanismo di distribuzione.

Prendete il concetto di gratitudine.

Un concetto antico, che fa parte dell’ortodossia religiosa (di oriente e occidente), eppure sempre attuale, oggetto di mille discussioni. Nelle alleanze politiche, nei rapporti sentimentali, nelle strategie lavorative, persino nella socialità distratta, la gratitudine è un relè di relazioni, un perno intorno al quale ruota il sistema di causa-effetto che condiziona le nostre esistenze.
Ci sono mantra in stile Confucio che ci intimano di non fare del bene se non abbiamo la forza di sopportare l’ingratitudine, ma al contempo siamo fatti di carne e sangue e la riconoscenza è comunque benzina per il motore delle sane relazioni sociali.
Sta tutta qui la moderna saggezza di questi tempi che nulla hanno di saggio. Nel saper stravolgere le parabole, nello sconquassare i luoghi comuni, nello stracciare i pregiudizi religiosi per rassegnarci: il migliore premio per chi fa qualcosa di buono per gli altri è sapersi regalare la preparazione al voltafaccia finale.

Ho imparato – perdonatemi l’accenno di personalismo di cui al primo rigo – che si presta solo ciò che si è in grado di perdere. Una volta un ex amico mi chiese dei soldi e glieli diedi. Me li chiese di nuovo e glieli diedi ancora. Quando gli domandai com’era finita lui sparì senza vergogna, nonostante un’amicizia trentennale. L’ho (intra)visto in giro per feste e festini, so che quei soldi li ha impiegati al peggio e in cuor mio mi dispiace non tanto perché non me li ha restituiti (ho capito che è un truffatore inside), ma perché non se li è goduti. Con l’età che avanza, tendo a perdonare sempre più chi si dimentica del bene ricevuto e sempre meno chi fa finta di dimenticarsi del male fatto.
Ora non vi voglio lanciare il messaggio di amore e pace (concetti nobilissimi, ma noiosissimi se non ben incorniciati in un santino), però di ingratitudine mi sono nutrito e sarei sazio se solo il menù non mi proponesse ogni giorno una pietanza nuova, sciapa e brutta persino a descriverla.
Generalmente lo stolto si scaglia sempre contro chi lo ha creato: accade nella storia, nell’arte e nelle nostre conventicole.

I miei migliori ex amici sono personaggi finiti in quell’ombra che erano riusciti provvisoriamente a evitare, sono ombrelloni dismessi in un eterno inverno o, peggio, sono armi di sputo rivolte verso il cielo che non si curano della sorte della loro faccia. Peccato, alcuni avrebbero meritato una fine migliore se solo fossero stati capati di immaginarla. Perché l’ingratitudine è soprattutto un peccato di scarsa immaginazione. Senza l’immaginazione la vita non ha sogni: nulla si può fare se prima non lo abbiamo immaginato.
Ma loro ovviamente non lo sanno.

Non è un paese per single

A proposito dei single per scelta e dei single per necessità. A proposito delle discriminazioni nei confronti di chi non mette su famiglia e delle consolazioni fasulle per chi decide di sfasciarla. A proposito delle proposte di matrimonio pubbliche e dei due di picche legittimi. Buon ascolto.

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Gery Palazzotto
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Non è un paese per single
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Per chi suona Eddie Van Halen?

Per chi sta suonando ora Eddie Van Halen? Domanda oziosa. Eppure me lo chiedevo stasera mentre rientravo a casa ascoltando, a volume adeguato, “Main Street”, una delle canzoni meno memorabili dei Van Halen. Probabilmente è una cosa che succede sempre più di frequente con l’età che avanza, o è questione di influssi astrali, oppure ancora è semplicemente indole trasversale. Ma a me capita sempre più spesso di interrogarmi su ciò che potrebbe accadere là dove non sappiamo se davvero qualcosa accada. Prevalentemente roba di defunti quindi.

Giuro, non penso quasi mai alla morte. Ma ai morti sì. Del resto come faremmo senza i morti? O meglio, senza la gioia di quel che ci hanno lasciato.

Io a Oscar Wilde farei passare egoisticamente altre mille pene dell’inferno pur di avere un secondo De Profundis. O affonderei dieci Endurance per avere ancora il brivido di impersonare il capitano Shackleton che conta i suoi uomini dopo due anni di tribolazioni inaudite e scoprire che sono tutti vivi, grazie a me. O riascolterei mille volte la tragica avventura di Walter Bonatti sul K2 per ribadire che non si muore mai invano se in ballo c’è la più importante delle nostre missioni, quella di dimostrare che non si vive invano appunto.
Insomma chiedendomi che minchia sta facendo Eddie Van Halen adesso, lì nell’alto dei cieli con adeguata amplificazione I suppose, mi sono ricordato da dove originava questa domanda.
Dalla mia complicata visione dell’aldilà.

Premesso che non sono ancora – almeno lo spero – in età di rendiconti affrettati, è giusto che dichiari la mia provenienza incolpevole: sono cresciuto dai preti.
È un capitolo complesso della mia infanzia perché mi sono trovato, per scelte ovviamente non mie, a essere convogliato in una scuola di gesuiti nella quale stavo malissimo e dalla quale sono venuto fuori a tentoni. Dopo è stato tutto più semplice, ma durante è stato un casino.
In ogni caso – poi magari ne parliamo un’altra volta – in tutti quegli anni di scuola cattolica-bene-imbalsamata ci fu un solo avvenimento che mi colpì positivamente. Anzi che mi stravolse.

Era un pomeriggio di inverno, nel 1977.

Il mio insegnante di religione si chiamava Giovanni Pintacuda, ed era il fratello ignoto di Ennio un prete che di lì a un decennio sarebbe diventato un pilastro della società civile antimafia e della cosiddetta Primavera di Palermo.
Io a scuola non andavo bene. Facevo il chitarrista rock, scrivevo canzoni al limite dell’orribile, avevo ottimi voti nei temi d’italiano nonostante certi professori che 45 anni dopo hanno il coraggio di seguirmi sui social (probabilmente perché oggi come ieri non capiscono un cazzo di quello che scrivo), organizzavo cose teatrali, inseguivo le femmine, non mi drogavo e galleggiavo in quella realtà che mi era stata imposta (in buona fede) dalla mia borghesissima famiglia borghese.
In quel pomeriggio padre Giovanni Pintacuda mi aveva convocato per parlarmi. Io mi ero presentato, capelli lunghi e maglione alla coscia, annoiato a dovere: immaginavo la solita ramanzina. Tra l’altro mia madre aveva scoperto proprio pochi giorni prima che avevo marinato la scuola, falsificando le giustificazioni, tipo per due settimane di seguito… Quindi immaginate il clima.
Nel viale alberato dell’Istituto Gonzaga di Palermo padre Giovanni Pintacuda mi venne incontro e mi prese sottobraccio.
Lui era piccolo di statura e io, che non ero un gigante, lo sovrastavo di almeno una decina di centimetri di pura adolescenza post puberale.
Facemmo due passi e lui dal nulla disse: “Gery, parliamo di donne”.
Poteva dirmi qualunque cosa, tipo che cazzo combini, o che cosa ci fai qui, o fai finta di niente e parliamo in playback.
Invece disse proprio quella frase.
“Gery, parliamo di donne”. Un prete colto e un adolescente pulcioso.
Fu un flash. Una sventola. Un pugno e un abbraccio.
Una svolta.
Nessuno mi aveva mai parlato così. Anzi, nessuno mi aveva mai svegliato così.
Quel pomeriggio padre Giovanni mi porse il primo dei mattoncini di Lego coi quali edificare il mio castello. Mi insegnò a guardare dritto per capire cosa sta ai lati e cosa mettere al fuoco anche se non sta al centro, mi diede la prima lezione di vista periferica insomma. Come Messi.
Ci raccontammo cose che rimarranno sempre tra noi e che del resto non sarebbero interessanti per nessuno.
Però ci fu un concetto che allora presi sottogamba e che invece col tempo imparai ad apprezzare sino addirittura a farne un mantra (invecchiando ci rincoglioniamo di cose note, un tempo sottovalutate, fingendo stupore tipo scimmie primordiali davanti al Meteorite): la vita non è come il cinema, tra il primo e il secondo tempo quello che conta è l’intervallo.

Ecco, nell’intervallo io mi sono chiesto cosa accade quando la proiezione è finita.
Per chi lavorano gli artisti a sala chiusa.
Che pubblico ha il privilegio di godersi uno spettacolo che non va più in scena.
E da lì ho trovato la risposta alla domanda di stasera: per chi sta suonando ora Eddie Van Halen?
Magari l’avete trovata anche voi. Anche se non avete avuto il privilegio di aver conosciuto padre Giovanni Pintacuda.              

Gli spaventati del presepe

Non parliamo dei risultati elettorali. O meglio ne parliamo ma da un’altra angolazione. Cercando di spiegare come siamo arrivati a oggi. Niente politica, promesso. È una storia che mi è venuta in mente ieri, leggendo alcuni post su Facebook dove c’erano molte persone che si meravigliavano del fatto che tutta questa destra nelle loro timeline non l’avevano vista e che sospettavano che magari molti avessero votato di nascosto Meloni per poi far finta di nulla, fischiettando su Facebook.

È una storia che la dice lunga su quanto non sappiamo dei mezzi che usiamo, su quanto ci illudiamo di padroneggiare e su quanto dovremmo investire in conoscenza, studio e buona creanza, prima di meravigliarci per il poco di cui non c’è proprio nulla da meravigliarsi. Buon ascolto.

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Gery Palazzotto
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La lunga notte…

Di nottate elettorali è fatta la vita di un giornalista. Modestamente le ho affrontate sin dagli anni ’80 e ho attraversato tutte le difficoltà tecniche possibili. Dalla fotocomposizione all’impaginazione digitale, dalle telescriventi alle agenzie online, dai dimafonisti alle chat di internet, dalla carta al web, non c’è notte elettorale che sia semplice: perché per assioma se uno spoglio è semplice o stai sognando o sei nel Donbass.

Coi colleghi che al contrario di me ancora oggi resistono in trincea, abbiamo rievocato spesso quelle notti in cui un corrispondente si dava latitante (famoso il caso di uno che approfittò dell’alibi elettorale per andarsene con l’amante) e tutto si fermava, o abbiamo rivissuto l’incubo delle elezioni nel Messinese dove con 108 comuni, alcuni di pochissime anime, era praticamente impossibile avere i definitivi entro l’ora stabilita e a volte entro le ore che seguivano. A tutto ciò si aggiunga la grottesca esigenza delle aziende editoriali di anticipare sempre più l’orario di chiusura e quindi il crescente ricorso, da parte nostra, ai salti mortali per mandare in edicola una versione almeno plausibile di ciò che era accaduto e stava ancora accadendo.

All’alba del suo pensionamento un anziano caporedattore del giornale in cui lavoravo, ripescando le collezioni, scoprì addirittura che in questa foga di anticipare, anticipare, anticipare, di alcune tornate elettorali non avevamo mai pubblicato i risultati definitivi.
Ancora oggi con alcuni colleghi di cui sopra abbiamo una sorta di parola d’ordine che facciamo circolare via whatsapp a ogni elezione. È una frase: “La lunga notte…”. E rievoca, appunto, una notte che nella nostra memoria si arricchisce col tempo – sapete, i vecchi quando non ricordano, inventano – di particolari fantasiosi.

Elezioni del 1996. Avevamo mandato Enrico del Mercato, allora cronista parlamentare del Giornale di Sicilia, a fare un reportage nel quartier generale della Rete e lui, in assenza di un briciolo di dati che non fossero quelli scarni dell’affluenza, aveva temporeggiato sino all’ultimo per cercare di mettere più sostanza possibile in quelle cento righe di pezzo. Solo che era tardi. Anzi tardissimo. Fumavamo nervosamente intorno a lui, mentre scriveva una frase che avrebbe dovuto imboccare la fine agognata dell’articolo, ma lui stava ancora lì a scegliere le parole, a cercare un’arguta metafora.
Aveva appena digitato “la lunga notte…” quando il caporedattore Nonuccio Anselmo mi scansò di peso, letteralmente vista la stazza, tolse la tastiera dalle mani di Enrico e scrisse: “…finisce qui”.
Poi schiacciò i comandi “control – assegna” e la lunga notte, almeno per quel pezzo, finì davvero lì. Per poi entrare nella nostra minima leggenda di giornalisti sopravvissuti e non rassegnati.

Ancora oggi una notte elettorale non si evita, si scampa.

Le cose vanno sempre peggio?

L’altro giorno una persona che ha lavorato con me in vari progetti artistici mi ha chiesto: non hai anche tu la sensazione che le cose vadano sempre peggio?
E io, che lo pensavo da tempo, ho risposto ovviamente di sì.
Ora, sono sicuro che se faccio questa domanda a ciascuno di voi otterrò una maggioranza di risposte positive. Ma prima serve un’altra domanda: esiste un’oggettività, una sorta di livello attendibile, che certifichi che effettivamente le cose vanno peggio?
E soprattutto l’errore può avere un sua visione romantica?
Ognuno risponda valutando i cazzi suoi. Romanticamente, of course.

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Gery Palazzotto
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Breaking Saul

In “Better Call Saul” la coppia Peter Gould e Vince Gilligan sfiora il capolavoro. La serie è una meraviglia di scrittura, recitazione, fotografia, regia. Nulla è lasciato al caso nella semina degli indizi, neanche la scarna sigla che evolve episodio dopo episodio in un esito che mai è scontato.

Tutto è perfetto: la migliore moglie è la migliore moglie, il miglior nemico è il miglior nemico, il miglior traditore è il miglior traditore. E i migliori personaggi sono quelli che si mescolano tra loro in una geniale (ma davvero geniale) congerie di situazioni. E diventano quindi altro, altri: tutti.

In “Better Call Saul” nessuno è quel che sembra, nemmeno quel nessuno messo lì per recitare il suo niente. Non ci si può fidare (e felicemente) di un veterinario, di un guardiano di parcheggi, di un venditore di polli, di un fratello, di un socio, di un cliente.

I sentimenti sono esplorati con un garbo per me senza precedenti. La fallacità dell’amore – di qualunque amore si tratti, fraterno, coniugale, eccetera – non ha mai quella teatralità falsa che ci/mi dà fastidio nelle trasposizioni cinematografiche o teatrali. In “Better Call Saul” la finzione è una vetrina, ben addobbata sin dai primi fotogrammi del primo episodio della prima stagione.

Il resto è una narrazione di livello eccezionale, con un’escalation che purtroppo pecca gravemente proprio in vista del traguardo quando il dazio da pagare al prequel “Breaking Bad” diventa invasivo e massacra la tensione accumulata per sessanta e passa puntate.

Per questo, e solo per questo, Peter Gould e Vince Gilligan sfiorano il capolavoro assoluto. La loro scansione del tempo – avanti e indietro, bianco e nero e colore – sarebbe stata perfetta e diabolicamente inquietante se non ci fosse stata un’altra serie dinanzi alla quale inchinarsi, come una processione davanti alla casa di un boss, come un omaggio dovuto e non sentito.

Per questo – e lo scrivo con saggia rabbia – “Better Call Saul” è un capolavoro. Ma non il capolavoro.

In caso di furto di emozioni

Siete felici e arriva lui. Siete pronti a una nuova avventura e arriva lui. Siete depressi e arriva lui. Siete addolorati e arriva lui. Sempre lui, il ladro di emozioni: colui il quale vi deruba dell’entusiasmo con la sua paccottiglia di mezze intenzioni o vi supera a destra persino nel disagio, nel disastro personale, con un surrogato di sofferenza da ostentare.

E poi Calvino a 37 anni dalla sua scomparsa: una mancanza che ci riguarda tutti, soprattutto alla luce delle sue azzeccatissime previsioni sul futuro del linguaggio e della conoscenza. Cerchiamo di ribadire la grandezza di un intellettuale che ha saputo prevedere il fango che sarebbe nato dalla polvere.

Tutto questo in un podcast, modestamente il mio: le cazzate sono una cosa seria.   

P.S.
Grazie a Gabriella Guarnera per la sua voce.

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