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Ci sono discorsi difficili da imbastire senza inquinarli di personalismo. Perché uno dei servizi migliori che chi vive e campa di parole può fare è, secondo me, cercare di restituire a chi legge concetti universali. “Restituire” è la parola giusta giacché  i concetti sono un bene comune e se qualcuno se ne trova privo è segno che qualcosa non ha funzionato nel meccanismo di distribuzione.

Prendete il concetto di gratitudine.

Un concetto antico, che fa parte dell’ortodossia religiosa (di oriente e occidente), eppure sempre attuale, oggetto di mille discussioni. Nelle alleanze politiche, nei rapporti sentimentali, nelle strategie lavorative, persino nella socialità distratta, la gratitudine è un relè di relazioni, un perno intorno al quale ruota il sistema di causa-effetto che condiziona le nostre esistenze.
Ci sono mantra in stile Confucio che ci intimano di non fare del bene se non abbiamo la forza di sopportare l’ingratitudine, ma al contempo siamo fatti di carne e sangue e la riconoscenza è comunque benzina per il motore delle sane relazioni sociali.
Sta tutta qui la moderna saggezza di questi tempi che nulla hanno di saggio. Nel saper stravolgere le parabole, nello sconquassare i luoghi comuni, nello stracciare i pregiudizi religiosi per rassegnarci: il migliore premio per chi fa qualcosa di buono per gli altri è sapersi regalare la preparazione al voltafaccia finale.

Ho imparato – perdonatemi l’accenno di personalismo di cui al primo rigo – che si presta solo ciò che si è in grado di perdere. Una volta un ex amico mi chiese dei soldi e glieli diedi. Me li chiese di nuovo e glieli diedi ancora. Quando gli domandai com’era finita lui sparì senza vergogna, nonostante un’amicizia trentennale. L’ho (intra)visto in giro per feste e festini, so che quei soldi li ha impiegati al peggio e in cuor mio mi dispiace non tanto perché non me li ha restituiti (ho capito che è un truffatore inside), ma perché non se li è goduti. Con l’età che avanza, tendo a perdonare sempre più chi si dimentica del bene ricevuto e sempre meno chi fa finta di dimenticarsi del male fatto.
Ora non vi voglio lanciare il messaggio di amore e pace (concetti nobilissimi, ma noiosissimi se non ben incorniciati in un santino), però di ingratitudine mi sono nutrito e sarei sazio se solo il menù non mi proponesse ogni giorno una pietanza nuova, sciapa e brutta persino a descriverla.
Generalmente lo stolto si scaglia sempre contro chi lo ha creato: accade nella storia, nell’arte e nelle nostre conventicole.

I miei migliori ex amici sono personaggi finiti in quell’ombra che erano riusciti provvisoriamente a evitare, sono ombrelloni dismessi in un eterno inverno o, peggio, sono armi di sputo rivolte verso il cielo che non si curano della sorte della loro faccia. Peccato, alcuni avrebbero meritato una fine migliore se solo fossero stati capati di immaginarla. Perché l’ingratitudine è soprattutto un peccato di scarsa immaginazione. Senza l’immaginazione la vita non ha sogni: nulla si può fare se prima non lo abbiamo immaginato.
Ma loro ovviamente non lo sanno.

Pubblicato da

Gery Palazzotto

Palermo. Classe 1963. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

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