La lunga notte…

Di nottate elettorali è fatta la vita di un giornalista. Modestamente le ho affrontate sin dagli anni ’80 e ho attraversato tutte le difficoltà tecniche possibili. Dalla fotocomposizione all’impaginazione digitale, dalle telescriventi alle agenzie online, dai dimafonisti alle chat di internet, dalla carta al web, non c’è notte elettorale che sia semplice: perché per assioma se uno spoglio è semplice o stai sognando o sei nel Donbass.

Coi colleghi che al contrario di me ancora oggi resistono in trincea, abbiamo rievocato spesso quelle notti in cui un corrispondente si dava latitante (famoso il caso di uno che approfittò dell’alibi elettorale per andarsene con l’amante) e tutto si fermava, o abbiamo rivissuto l’incubo delle elezioni nel Messinese dove con 108 comuni, alcuni di pochissime anime, era praticamente impossibile avere i definitivi entro l’ora stabilita e a volte entro le ore che seguivano. A tutto ciò si aggiunga la grottesca esigenza delle aziende editoriali di anticipare sempre più l’orario di chiusura e quindi il crescente ricorso, da parte nostra, ai salti mortali per mandare in edicola una versione almeno plausibile di ciò che era accaduto e stava ancora accadendo.

All’alba del suo pensionamento un anziano caporedattore del giornale in cui lavoravo, ripescando le collezioni, scoprì addirittura che in questa foga di anticipare, anticipare, anticipare, di alcune tornate elettorali non avevamo mai pubblicato i risultati definitivi.
Ancora oggi con alcuni colleghi di cui sopra abbiamo una sorta di parola d’ordine che facciamo circolare via whatsapp a ogni elezione. È una frase: “La lunga notte…”. E rievoca, appunto, una notte che nella nostra memoria si arricchisce col tempo – sapete, i vecchi quando non ricordano, inventano – di particolari fantasiosi.

Elezioni del 1996. Avevamo mandato Enrico del Mercato, allora cronista parlamentare del Giornale di Sicilia, a fare un reportage nel quartier generale della Rete e lui, in assenza di un briciolo di dati che non fossero quelli scarni dell’affluenza, aveva temporeggiato sino all’ultimo per cercare di mettere più sostanza possibile in quelle cento righe di pezzo. Solo che era tardi. Anzi tardissimo. Fumavamo nervosamente intorno a lui, mentre scriveva una frase che avrebbe dovuto imboccare la fine agognata dell’articolo, ma lui stava ancora lì a scegliere le parole, a cercare un’arguta metafora.
Aveva appena digitato “la lunga notte…” quando il caporedattore Nonuccio Anselmo mi scansò di peso, letteralmente vista la stazza, tolse la tastiera dalle mani di Enrico e scrisse: “…finisce qui”.
Poi schiacciò i comandi “control – assegna” e la lunga notte, almeno per quel pezzo, finì davvero lì. Per poi entrare nella nostra minima leggenda di giornalisti sopravvissuti e non rassegnati.

Ancora oggi una notte elettorale non si evita, si scampa.

Le cose vanno sempre peggio?

L’altro giorno una persona che ha lavorato con me in vari progetti artistici mi ha chiesto: non hai anche tu la sensazione che le cose vadano sempre peggio?
E io, che lo pensavo da tempo, ho risposto ovviamente di sì.
Ora, sono sicuro che se faccio questa domanda a ciascuno di voi otterrò una maggioranza di risposte positive. Ma prima serve un’altra domanda: esiste un’oggettività, una sorta di livello attendibile, che certifichi che effettivamente le cose vanno peggio?
E soprattutto l’errore può avere un sua visione romantica?
Ognuno risponda valutando i cazzi suoi. Romanticamente, of course.

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Gery Palazzotto
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Le cose vanno sempre peggio?
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Breaking Saul

In “Better Call Saul” la coppia Peter Gould e Vince Gilligan sfiora il capolavoro. La serie è una meraviglia di scrittura, recitazione, fotografia, regia. Nulla è lasciato al caso nella semina degli indizi, neanche la scarna sigla che evolve episodio dopo episodio in un esito che mai è scontato.

Tutto è perfetto: la migliore moglie è la migliore moglie, il miglior nemico è il miglior nemico, il miglior traditore è il miglior traditore. E i migliori personaggi sono quelli che si mescolano tra loro in una geniale (ma davvero geniale) congerie di situazioni. E diventano quindi altro, altri: tutti.

In “Better Call Saul” nessuno è quel che sembra, nemmeno quel nessuno messo lì per recitare il suo niente. Non ci si può fidare (e felicemente) di un veterinario, di un guardiano di parcheggi, di un venditore di polli, di un fratello, di un socio, di un cliente.

I sentimenti sono esplorati con un garbo per me senza precedenti. La fallacità dell’amore – di qualunque amore si tratti, fraterno, coniugale, eccetera – non ha mai quella teatralità falsa che ci/mi dà fastidio nelle trasposizioni cinematografiche o teatrali. In “Better Call Saul” la finzione è una vetrina, ben addobbata sin dai primi fotogrammi del primo episodio della prima stagione.

Il resto è una narrazione di livello eccezionale, con un’escalation che purtroppo pecca gravemente proprio in vista del traguardo quando il dazio da pagare al prequel “Breaking Bad” diventa invasivo e massacra la tensione accumulata per sessanta e passa puntate.

Per questo, e solo per questo, Peter Gould e Vince Gilligan sfiorano il capolavoro assoluto. La loro scansione del tempo – avanti e indietro, bianco e nero e colore – sarebbe stata perfetta e diabolicamente inquietante se non ci fosse stata un’altra serie dinanzi alla quale inchinarsi, come una processione davanti alla casa di un boss, come un omaggio dovuto e non sentito.

Per questo – e lo scrivo con saggia rabbia – “Better Call Saul” è un capolavoro. Ma non il capolavoro.

In caso di furto di emozioni

Siete felici e arriva lui. Siete pronti a una nuova avventura e arriva lui. Siete depressi e arriva lui. Siete addolorati e arriva lui. Sempre lui, il ladro di emozioni: colui il quale vi deruba dell’entusiasmo con la sua paccottiglia di mezze intenzioni o vi supera a destra persino nel disagio, nel disastro personale, con un surrogato di sofferenza da ostentare.

E poi Calvino a 37 anni dalla sua scomparsa: una mancanza che ci riguarda tutti, soprattutto alla luce delle sue azzeccatissime previsioni sul futuro del linguaggio e della conoscenza. Cerchiamo di ribadire la grandezza di un intellettuale che ha saputo prevedere il fango che sarebbe nato dalla polvere.

Tutto questo in un podcast, modestamente il mio: le cazzate sono una cosa seria.   

P.S.
Grazie a Gabriella Guarnera per la sua voce.

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Gery Palazzotto
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Non porgere l’altra guancia

No, non vi parlerò a tempo scaduto dell’affaire Totti Blasi discettando sulla classe dei protagonisti, sulla valenza della notizia, sul ruolo dei giornali. Mi piace invece entrare nel merito della questione, mettere i piedi nella minestra, provare a discutere del succo di tutta la vicenda: il tradimento, ma tenendo lontani i protagonisti.
Il tradimento è la più antica delle arti belliche, offensive, e il primo motore di arti nobili come la letteratura, il teatro, il cinema, la musica, la danza, la pittura e via componendo. Senza di esso non avremmo Macbeth e Leopardi, Ammaniti e Dante, Mozart e Cremonini, Troia (la città, l’altra è scontata) e Dio.
Non avremmo la prima mela e l’ultima cena.
Tutto questo nella seconda puntata del podcast “Le cazzate sono una cosa seria”.

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Gery Palazzotto
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Rami secchi

Ho sempre avuto un problema coi rami secchi. La mia propensione a tagliarli quando ancora avevano un che di verde e l’esitazione a bruciarli quando erano ormai decrepiti, hanno fatto sì che questi benedetti rami secchi dalle mie parti non abbiano mai fatto, nei tempi giusti, la fine che meritavano. Perché questo tipo di repulisti ha un valore se effettuato nel momento giusto: insomma se è importante sgombrare la vita dai pesi inutili, lo è ancora di più farlo quando si deve fare, non un minuto prima né un minuto dopo. Occhio, usualmente tendiamo a tirare fuori l’argomento per questioni di amore, quando invece gli ambiti più complessi e degni della massima attenzione sono altri: amicizia, lavoro, rapporti sociali. È lì che bisogna fare un giretto di ronda in più.

A parte le ragioni di ingombro, i rami secchi hanno una pericolosità insita, nascosta. Molti sembrano ancora solidi, in grado di reggere. Invece sono trappole: cedono di schianto facendoci precipitare nel vuoto della fiducia malriposta. E poi sono fuorvianti. Ci inducono a prendere sentieri ciechi: di chi è la colpa della loro trasformazione da solidi tronchi in fragili pezzi di legno? Perché è avvenuta? E quando è cominciata?
Tutte domande pressoché inutili giacché l’urgenza del ramo secco è nella sua essenza di non essenza. Sta lì, dove non deve più stare perché oltretutto è pericoloso nella stagione del fuoco. E di incendi prevenibili è fatta la nostra vita.

Cazzate e antidoti, un podcast

Come annunciato, il tenutario di questo blog ha messo su un podcast. Tutto gratis, e questo è contro i miei principi: ma vabbè, se una community sana e curiosa cresce è già una bella ricompensa.
Comunque su un tema già dibattuto oggi c’è un’altra via di discussione. Faticosa per chi la deve organizzare (tipo il sottoscritto), semplice per chi ne può usufruire.

Un podcast è scaricabile, dilazionabile. Lo potete ascoltare a rate, quando volete: mentre cucinate, correte, siete in auto, avete le mani impegnate e lo sguardo altrove. Soprattutto un podcast toglie ogni alibi ai superficiali: non ha controindicazioni, limitazioni di fruizione. Bello, no?
Comunque non devo vendervi niente. L’intento è solo quello di condividere idee, spunti e molti dubbi: se ci facessimo più domande avremmo molte più risposte, è una certezza.

Siate clementi per queste prime puntate. Sono un tecnologico teorico, mica un tecnico o uno smanettone. Quindi un grazie preventivo vi suoni pure come un “per favore non infierite” o, se siete miei amici, come un “non mi scassate la minchia”, almeno adesso.

Buon ascolto.

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Gery Palazzotto
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La politica, l’informazione e la merda

Avvertenza per il lettore: questo articolo contiene alcune parolacce pur volendo stigmatizzare la volgarità disinvolta nella politica e nell’avanspettacolo a essa collegato.

Da un paio di giorni il candidato alla presidenza della Regione siciliana Cateno De Luca è il reuccio incontrastato del web per via di un attacco a un giornalista che, a suo dire, sarebbe strumento di un complotto ai suoi danni ordito da poteri forti. Cioè un complotto messo su da un giornale talmente potente che, va detto, si ritrova da anni con le pezze al culo e che non ha nemmeno saputo difendere adeguatamente le sue tesi (e il suo cronista) nello specifico: quattro righe oggi e pezzo ritirato dal web (vabbè, ognuno sa come farsi male senza chiedere l’aiuto da casa).
Per dire che questa storia ha De Luca al centro di un vortice di volgarità inaccettabili, ma ha anche un adeguato corredo di errori compiuti dalla stampa siciliana.

Se vi dico che c’è differenza tra la politica e la merda la cosa può apparire scontata. Messi da parte i luoghi comuni che addossano ai politici tutti i mali del mondo, persino quelli atmosferici, ci dobbiamo però arrendere dinanzi alla constatazione che, a conti fatti, a una buona parte della politica questa differenza conviene non marcarla.
Perché è il cliente che chiede il prodotto: e se il prodotto è di scarsa qualità (quindi costa poco) ma rende tantissimo nessuno ha voglia di cambiare. È l’uso che fa legge. Anzi gregge.

Abbiamo più volte affrontato nel corso degli anni questo tema e abbiamo anche sperato in un improvviso rinsavimento della classe politica, ma dai “5 Stelle” in poi questo appiattimento sul fondo del barile si è talmente mescolato alla melma del residuo da non distinguere più l’idea dal rutto, il progetto dall’incubo, la strada maestra da quella per l’inferno.
Cateno De Luca mostra con orgoglio le cicatrici del suo essersi fatto da solo a forza di spallate, colpi di teatro, ingiurie, graffi e sputi al potere. E in questa pantomima costruisce un personaggio che non le manda a dire, che spedisce affanculo chi non la pensa come lui, che dice quello che pensa (dire quello che si pensa è la cosa più facile del mondo, la vera prova di maturità è l’opposto, filtrare, progettare, ponderare, ma su Facebook non fa engagement). Basta poco per capire che questi non sono valori in politica. Non lo sono proprio per l’essenza della politica stessa e del rispetto delle istituzioni.
Il bello/brutto sarebbe che se mai De Luca fosse eletto dovrebbe comportarsi in modo opposto, affrontare una nemesi epocale. Rispettando chi non la pensa come lui. Filtrando le intemperanze personali per garantire quella cosa che si chiama democrazia. Garantendo personalmente per ogni minoranza: culturale, politica, sociale, geografica, economica. Governando per il Pipitone di turno insomma.
Perché sarebbe questo il suo compito più difficile e importante: ma forse dovevo scriverlo in maiuscolo per essere ben compreso.  
Sbraitare va bene e frutta sui social dove ci si trastulla con migliaia di adepti di cui alcuni pericolosamente fuori controllo. Tuttavia quando si deve decidere del destino di sei milioni di siciliani non basta un bicchierino di amaro e via andare: “Pipitone pezzo di merda; cesso di personaggio; ti cavo gli occhi; so con chi vai a cena, con chi fai le vacanze”.
Oggi c’è Pipitone, domani c’è qualcun altro che non gli piace.

La stampa siciliana gli ha apparecchiato la tavola. Lo dico da giornalista, da precario a quasi sessant’anni che non ha mai preso un cazzo di sussidio e mai vorrà prenderlo (non sono ricco di famiglia purtroppo), da professionista fuori da ogni giro di interesse più o meno trasversale.

Il Giornale di Sicilia, nello specifico, ha le sue colpe. Che si trascinano da quarant’anni in una serie incredibile di errori, di sottovalutazioni, di connivenze, di porcherie verticistiche mai espiate. È stato il giornale del garantismo peloso per eccellenza, della lettera della signora Patrizia contro Falcone che disturbava con la sua scorta, delle interviste in ginocchio, del potere oltraggioso sul controllo delle notizie, di Giovanni Pepi e della sua angusta visione del mondo elevata a sistema sociale. Ma – questo De Luca lo dimentica o non lo sa nemmeno – è stato anche il giornale di Mario Francese, di una redazione orgogliosa che pur di pubblicare le notizie le nascondeva al condirettore Pepi (proprio così!), di un manipolo di resistenti che oggi lavora con lo stipendio quasi dimezzato.
Il GdS è solo uno dei pilastri franati sui quali si è inscenato questo disastro. Il panorama desolante dei siti nati dalla bolla internettiana del 2010 (o giù di lì) andrebbe recensito non tanto con l’ottica del giornalismo, ma con quella del buon gusto. Tra marchette senza ritegno e sfilata di dilettanti allo sbaraglio, la differenza tra servizio e servizietto è pericolosamente vicina (e mi costa dirlo) alla visione deluchiana del giornalismo. Ma di questo, lo prometto, parleremo un’altra volta.     
Anche alla luce di tutto ciò Cateno De Luca ci ha messo anni a costruire un personaggio ad hoc per i social, con eccessi ben calibrati e ottima capacità di inventiva. Ha cantato, si è spogliato, ha urlato, ringhiato, blandito le folle affamate di urla, ringhi, violenza verbale.
Si è però distratto da un tema fondamentale, che probabilmente si confessa ma non ha il coraggio di affrontare, oggi a frana in corso.
Il suo elettorato.
Lo ha forgiato a sua misura e non è un bene: basta leggere i commenti sui social che il noto candidato brandisce come un fucile col colpo in canna. Sono tutti appesi alle sue parole, anzi alle sue minacce. È tutto un fiorire di incitamenti a fare la rivoluzione, a vendicare un popolo oppresso. Oppresso dal nulla di una violenza cieca senza la quale nulla, in quell’universo, può esistere.
Mi piacerebbe essere smentito, ma oggi come oggi il (dis)valore di uno come Cateno De Luca sta nell’aggressione, nell’offesa, nello storpiare il cognome dell’avversario (un’antica “tradizione” siciliana a partire da Totò Riina che additava “Caselle” e “Violanti” ai suoi followers ante litteram). Non è incapace di dibattere civilmente piuttosto, realisticamente, sa che non gli conviene. Perché senza la carne cruda del massacro verbale tra i denti è digiuno di argomenti.
E il suo desco purtroppo è affollato.      

P.S.
Ho seguito la diretta del suo comizio ieri a Mascali. Guardatela e provate a trovare un briciolo di programma. Niente. Solo offese e basta.

Siamo zaino

Siamo zaino e portatori di zaino. Viviamo per caricarne uno e svuotarne un altro. Lo teniamo in spalla ma ci siamo anche dentro. Perché uno zaino è casa, e una casa è vita.
Chi ha mai viaggiato con uno zaino con dentro tutto tranne che le mura e il letto di casa, conosce il livello di amore e odio che si instaura con un manufatto del genere. Parliamo di una cosa che ti metti in spalla come una croce, che ti trascini come un peccato originale, che proteggi come un tabernacolo.
Per la maggior parte di quelli della mia generazione lo zaino è protesta, controcultura, passato che non ritorna. Per quelli che sono venuti dopo è perlopiù un attrezzo desueto, quasi da barboni o comunque una cosa poco pratica, poco igienica, da tenere nel ripostiglio.
Per me invece – e per un manipolo di altri viaggiatori di ogni latitudine generazionale – lo zaino è un raro esempio di simbolo che diventa catalizzatore: libertà è la parola che mi viene, e non so se a voi ne viene una migliore (minchia, meglio di “libertà” cosa c’è nella vita?).
Ora che la mia porzione di Francigena è terminata ho chiare alcune cose.
Innanzitutto che la mia esperienza con questo cammino italiano è conclusa. La Francigena è un itinerario di persone più che di luoghi, è bistrattata da chi si occupa di turismo e cultura, ed è bellissima malgrado tutto. Ha passaggi di traffico pericolosissimi, ha Comuni che se ne fottono delle sue potenzialità, ha tappe dove non c’è nulla da mangiare e da bere in agosto mica a dicembre. Ma ha soprattutto un patrimonio umano pazzesco, tanti piccoli centri arroccati in posti impossibili, un campionario di ospitalità ineguagliabile, un assortimento di storie, sacrifici, scommesse che diventano tesoro non appena varcano la soglia del ritegno familiare, della discrezione paesana. Io mi sono immerso, per delicata volontà dei miei interlocutori, in storie memorabili. Ho camminato nel buio della notte senza luna senza mai aver paura di perdermi e ho goduto di una pizza nel posto più improbabile per una pizza, ho costeggiato ettari di terra coltivata a pomodori e ne ho mangiato il giusto per rimanere al di sotto della quota umana possibile, ho trovato chi voleva ascoltare le mie storie in una piazza improvvisata (che gioia, che emozione!) e chi invece voleva raccontarmi le sue all’ombra di un castagno, ho scalato con fatica l’ignoto e mi sono confessato con sincerità con ignoti (più difficile la seconda).
Poi con la mia amica Sarah (la trovate qui) abbiamo imbastito, nei rari momenti di connessione social, un parallelismo di Cammini: io sulla Francigena, lei sul Cammino Portoghese. E lì ho stravolto la mia bibbia sociale applicata a queste cose. Lei che è molto cattolica, e altrettanto femmina, va in chiesa con la naturalezza con cui va dal parrucchiere. Che, se ci pensate, è un bel messaggio: non è mai troppo tardi per una bella messa in piega dell’anima. “Perché ‘sta storia che la pellegrina deve essere pulciosa deve finire…” dice, e lì ci sarebbe da ricostruire tutta un’iconografia del sentire comune soprattutto della sinistra italiana, con ampia licenza di metafora.
Nella conclusione del mio cammino oggi ho affrontato una salita tremenda – quasi sette chilometri di scalata, più che salita – e da qualche migliaio di chilometri lei ha confermato a proposito dei suoi dislivelli: “Ho visto più bestemmiatori su queste salite che allo stadio” ha scritto dal Portogallo. Conoscendola, so che dio non smentirebbe e, magari, convocherebbe il suo CDA in sessione estiva.
Di questo cammino mi resta, a parte la felicità di tutti queste centinaia di chilometri (manco li ho contati), la consapevolezza che col sapone di Marsiglia ho lavato tutto e di tutto, tranne che i denti. Che siamo abituati a detestare le zanzare solo perché non conosciamo il potere demoniaco delle formiche e soprattutto delle mosche. Che con certe temperature nell’estate padana (ed era il caso di fargliela fare a Bossi e Salvini ‘sta Padania a patto che col caldo restassero tutti confinati nella loro bella repubblica indipendente/rovente), ti stupisci di scegliere se l’ultimo goccio della borraccia deve andare sulla testa rovente o nella gola arsa. Che, se provi a usare Google Maps cedendo alla pigrizia tecnologica anziché fidarti delle mappe su carta, nella maggior parte delle volte finirai in un sentiero cieco, meritatamente sperduto.
Insomma ridiamo, scherziamo, rubiamo tramonti a posti che abbiamo visto di striscio, citiamo autori che mai abbiamo letto, ci impadroniamo di musiche che non conosciamo, usiamo “Easy” dei Commodores per le storie di amore senza sapere che la canzone parla di un amore di cui l’autore si è finalmente liberato, e via condividendo. Alla maggior parte di noi di queste cose non gliene frega niente.

Ecco perché alla fine di questa cronaca – che è sì telematica ma soprattutto umana, ergo analogica – mi piace pensare che siamo zaino e portatori di esso. Perché il giorno in cui ci sarà il liberi tutti, senza zaino non si salverà nessuno.

10-fine

Le precedenti puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Tipo suocera

Sono alla penultima tappa della mia Francigena e mi godo la Lunigiana, un gioiello incastonato tra Toscana e Liguria. Soprattutto gioisco per la disponibilità dei suoi abitanti. Le tappe del Cammino qui sono abbastanza faticose perché si sale e si scende (ovviamente i miei approdi sono sempre nel punto più alto, manco a dirlo). Sullo sfondo ci sono le Apuane a ricordarti che in fatto di salite potrebbe sempre andare peggio, mentre intorno a te sfilano castagneti e viti e i sentieri sono spesso pieni di rovi (ho gambe e caviglie tigrate tipo fuseaux della Santanché di altri tempi). Alla fine della camminata – arrivo con la bava agli angoli della bocca in stile Arnaldo Forlani al processo Cusani – c’è però sempre una piacevole sorpresa. Il “sempre” è una mia relativizzazione poiché è bello cedere ogni tanto all’illusione che ciò che è per te possa essere felicemente per tutti: lo dico a quelli più pignoli (leggasi attenti) con il ditino alzato per via della mia crociata contro il sempre e il mai.  

È accaduto nelle due tappe di Filetto e Aulla. Nella prima, all’agriturismo Il Montale ho provato il relax di un biolago, una piccola distesa d’acqua dove tutto sembra finalmente stare al suo posto, e la gentilezza dei coniugi che gestiscono la struttura.

Nella seconda, all’agriturismo La Selva da dove scrivo adesso, sono reduce da una cena indimenticabile nel cuore della campagna: una persona ha cucinato solo per me e si è persino accollata la scocciatura di chiacchierare. Va detto che io sto zitto per tutta la giornata dato che cammino da solo e penso, e ascolto musica, e fingo di risolvere problemi, e scrivo sulla mia agenda (prezioso regalo di Vera Werber-Ahrens), e ripenso, e guardo dove metto i piedi, e faccio promesse che non manterrò, e rido da solo, e ogni tanto mi commuovo, e cerco di non passare per pazzo le pochissime volte che incrocio anima viva. Quindi, alla fine ma non sempre, quando trovo gente simpatica e interessante, parlo. Anzi peggio: faccio domande, tipo suocera.

Qui in Lunigiana sono in Toscana ma loro non sono toscani. Manco lo parlano il toscano. Sono mezzi liguri e mezzi emiliani, anche nella cucina. A conferma del fatto che la geografia è un confine che nulla ha a che fare con la cultura di un popolo: e noi siciliani ne sappiamo qualcosa.

Sono stato fortunato, a parte la parentesi di quel postaccio a Pontremoli (Podere Magaiana, prendete nota per scegliere dove non andare mai), perché ho incontrato talenti che mi hanno stupito: ieri ero in un posto in cui si coltiva lo zafferano e mi hanno raccontato dei fiori che si raccolgono all’alba e si aprono uno per uno per estrarre il prezioso pistillo (chiedo scusa se non sono preciso): la notte ho sognato di rotolarmi in un’orgia di risotto.

Oggi mi hanno spiegato la magia della cucina povera di un territorio ricco di materie prime: panigacci, testaroli, farina di castagne e focaccette. Stanotte se dovesse capitarmi di dover scegliere l’orgia nella quale immergermi opterei per qualcosa di davvero frizzante: Alka Effer?

10-continua

Le altre puntate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.