A pesca nei menu

menu con strafalcioni
di Raffaella Catalano

Da anni ho la mania di spulciare i menu di bar e ristoranti a caccia di errori, refusi, curiosità. Lo trovo sempre molto divertente.
Qualche sera fa mi sono imbattuta nella carta di bevande e gelati della Pasticceria San Domenico, nell’omonima piazza di Palermo. Copertina di stoffa rossa, caratteri d’oro, interno a fogli neri con fotografie a colori.
L’avrei voluto rubare quel menu. Non per l’aspetto estetico, pur ricco e rifinito (la realizzazione sarà certo costata un bel po’ al committente), ma per le meraviglie che ho trovato dentro.
Ecco qualche assaggio:
– “Menta”, la bevanda, è tradotto non con “mint”, ma con “lies” dal verbo “to lie”, mentire.  Quindi o è il pres. indic. del verbo, “lui/lei mente”, o è il sostantivo plurale “bugie”. Ossia: ordini da bere e ti servono frottole.
– “Tè alla pesca” diventa “The to the fishing”, che più o meno significa: “tè intento a pescare”. Nessuna traccia di “peach”, che è la pesca. Piuttosto t’immagini immersa nel bicchiere una canna da pesca con filo e amo al posto della solita cannuccia. Senza contare che “té” dovrebbe essere “tea”. “The”, di fatto, è l’articolo determinativo.
– “Tè al limone” si trasforma in “The to the lemon”, come se qualcuno avesse portato (“to the” = moto a luogo) un bicchiere di tè freddo a un limone in attesa di dissetarsi.
– Il gusto “arancia” del gelato è indicato come “arancio”, quindi come l’intera pianta. Va da sé che la traduzione di “arancia” sia “orange tree”, da cui “albero di arance”. Insomma, un cono con rami, frasche e frutti.
– “Schweppes tonica” è tradotto con “Schweppes Keynote”, cioè con “tonica” interpretato nel senso di “nota musicale dominante”. Serviranno una tastiera nel bicchiere al posto del più banale ombrellino di carta?
– “Fior di latte” è reso con “Fior of milk”. L’italiano, tronco e poetico “fior” a sostegno dell’inglese zoppicante?
– “Frutti di bosco” è tradotto in modo letterale con “Fruit of wood”.
– Il mirtillo è “bulbery” invece di “blueberry” o “bilberry”.
Quest’ultimo strafalcione, a fronte del resto, mi sembra quasi perdonabile. Ma non so cosa ne penseranno i turisti.

Ma sui dialetti la Lega non ha torto

L'illustrazione è di Gianni Allegra
L'illustrazione è di Gianni Allegra

di Roberto Puglisi

Se uno toglie il superfluo, il polemico, l’inutile, magari riconoscerà che l’idea leghista di insegnare il dialetto a scuola tanto malvagia non è. E non lo è perché l’identità regionale non deve essere per forza una pistola puntata contro l’unità nazionale. Capisco l’obiezione diabolica, ciò che dicono i vari Bossi e Calderoli si fa fatica a considerarlo un semplice contributo al dibattito accademico, fornito con sincero spirito di collaborazione. E questo perché è sempre meglio non fidarsi degli zecchini d’oro promessi dal gatto e dalla volpe. Ma se la cittadinanza è un elemento di civiltà sovranazionale, perché ognuno può diventare cittadino del mondo o di un luogo senza per forza l’obbligo della culla, l’appartenenza alla terra si iscrive a visceri e sentimenti diversi. Possiamo negarlo finché si vuole, il legame. Esiste comunque. E a far parte di una Nazione – senza che questo implichi per forza parate militari o discorsi al balcone – si impara da piccoli, mangiandone e bevendo i frutti della terra. Che insegnano la peculiarità di ogni discendenza (il dialetto) in un disegno (lingua) più grande. E’ un passaggio obbligato. Non possiamo dirci italiani, se non impariamo a dirci siciliani. Se non consideriamo che il locale e il generale non devono sfinirsi e  lottare per sempre, se di mezzo c’è il filtro dell’intelligenza. Perfino il Carroccio e la Coppola, il “Minga” e il “Cu è” possono andare a braccetto, fino ad amalgamarsi – senza sperdersi – nello stesso riflesso unitario.

Basta la parola

autich boutique

Una meravigliosa autich (o autique?) scovata a Palermo da Raffaella Catalano.

Confini

Un estratto dalla rubrica mensile su I love Sicilia:

A Ustica, in vacanza, ho vissuto in una casa che sta all’angolo tra via Calvario e via Confusione. A parte la sensazione di vivere una condizione toponomastica inquietante (per fortuna la via Calvario non incrocia un vicolo Golgota) mi è venuta la curiosità di andare a censire le altre strade dell’isola. Ho trovato così via Croce, via Corta (abbastanza corta), via Marina, via Cristoforo Colombo (in un’isola ci vuole) e l’immancabile via Umberto I. Non so se si sia mai riunita la commissione toponomastica del Comune, so per certo che l’indolenza è aggiuntata in seduta permanente. Ustica è un’isola in cui le strade hanno nomi qualunque a dispetto dei personaggi non qualunque che quelle strade hanno percorso. Antonio Gramsci, ad esempio, vi trascorse il confino: non ha una via. In compenso c’è via Confini (per lui e per tutti gli altri).

Topless anni cinquanta

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Sharon Stone su Paris Match.

Si vede molto?

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Su un pullman, in Toscana. Si è sparsa la voce che ho smesso di fumare.

Ne ho viste di cose

Il cazzeggio di due doppiatori (con annesso paradosso di audio mal sincronizzato).

Visto su Wolly’s weblog.

Pizzo spa

Rosa Maria Di Natale ha fatto una bella inchiesta per Rainews24. Si parla di racket delle estorsioni. Potete vederla qui.

Ha toccato!

Paolo Attivissimo ricostruisce il duello tra Tito Stagno e Ruggero Orlando per l’allunaggio dell’Apollo 11 di quarant’anni fa: Orlando passò per rimbambito, ma aveva ragione.

Spinoza nel fianco

Berlusconi: “Non sono un santo”. Ora comincia direttamente dalle smentite.

Da “Chiedimi se sono fenicie” di Spinoza.