I grandi cercano una morte grande?

Ultraman si pone delle domande e dà delle risposte. “I grandi cercano una morte grande? E la morte è ancora più grande se è violenta? Alla prima domanda non so rispondere, penso di non avere sufficiente coraggio per entrare in quest’ottica. Alla seconda domanda rispondo decisamente di sì”.
Tere allarga il raggio della sua provocazione. “Trovo che tale atteggiamento sia comparabile alla scelta di partner con le medesime caratteristiche caratteriali che ognuno di noi fa: chi incappa nei tossici o alcoolizzati, chi nei depressi o, viceversa, chi finisce col prediligere i leader, le figure carismatiche. E’ la concretizzazione del vecchio detto secondo cui ognuno è artefice del proprio destino. Lì dove la fortuna o la sfiga hanno poco gioco, ci ritagliamo dei ruoli: vittime o carnefici, vincitori o vinti. E’ una teoria che sto sperimentando personalmente ribaltando i miei atteggiamenti abituali e, udite udite: FUNZIONA DAVVERO COSI’!!! Io mi sto divertendo (ma, confesso, ci sto anche marciando) a studiare le reazioni altrui come fossero topi in un laboratorio ed è semplicemente spaventoso verificare come, anche le persone più intelligenti, siano facilmente manovrabili, praticamente prevedibili in maniera vergognosamente elementare”.
Secondo Mela 68 “la morte è la fine per tutti. Persino di un’intelligenza superiore. Non c’è modo di sopravvivere alla fama che si è inseguita per una vita se si cerca, in modo più o meno cosciente, la fine della sopravvivenza stessa”.

Targhe alterne

Le targhe alterne contro l’inquinamento sono un provvedimento diffuso in tutta Italia. Non ho un’idea precisa in merito: uso poco la macchina, non ho famiglia, ho un’autosufficienza pressoché rionale. Tony Gaudesi mi invia la sua riflessione sulla situazione di Palermo.

L’amministrazione Cammarata ha tirato fuori dal cappello a cilindro l’ennesima, illuminata, trovata: le targhe alterne.
Per salvaguardarci nel lungo termine i polmoni, il Palazzo ha deciso di spappolarci immediatamente il fegato e, forse, qualcos’altro.
Si dirà, i rilevamenti, l’inquinamento, le polveri sottili…
A prescindere che il passato ha già decretato il flop di un provvedimento del genere, penso che un minimo di elasticità e di immedesimazione verso chi gli paga (o meglio strapaga) lo stipendio sarebbe stato un atto dovuto per gli inquilini di palazzo delle Aquile. Una spruzzata di comprensione verso la plebe, prima di rivoltarne in un fiat la vita come vecchi calzini, credo avrebbe cambiato, come in pochi altri casi, sia la forma che la sostanza.
Penso ad una fascia mediana di black out nel coprifuoco giornaliero, per esempio dalle 13 alle 15, che avrebbe consentito di salvare capra, cavoli e, forse, coronarie.
E invece niente. La decisione è passata in un baleno sopra la testa dei cittadini, in un tira e molla tra industriali, commercianti e consorterie varie. E chissenefrega dei nuclei familiari di quattro, cinque persone (bebè compresi) con destinazioni sparigliate nella zona rossa. Chissenefrega delle mamme che, nemmeno calandosi nei panni di superman, riusciranno nell’impresa di parcheggiare il bambino al nido, il fratello di un paio di anni più grande alle Elementari tre chilometri più avanti, l’altra figlia alla Media della zona opposta, prima di arrestarsi, lingua ciondoloni, davanti alla porta dell’ufficio. Con tre bus diversi all’attivo, novecento, mille metri di scarpinata, magari sotto l’acqua, passeggino sottobraccio, due ore di sonno sacrificate alla Ragion di Stato… E una sincope in arrivo al gran galoppo.
E tutto questo mentre l’auto resta parcheggiata sotto casa, a dispetto dell’abbonamento-pizzo per le zone blu (il cui prezzo, a questo punto, e a rigor di logica, dovrebbe essere quantomeno dimezzato).
Probabilmente al Palazzo avranno, in modo lungimirante, anche pensato ai correttivi: “Basterà – si sarà detto nelle illuminate discussioni pre-delibera – una seconda auto”. Già, con il corredo di una seconda assicurazione, un secondo bollo, una seconda quota garage.
“E, ovviamente – avranno sottolineato, sogghignando, al Comune – con un secondo abbonamento per le zone blu”.
Cosi che a salvare capra e cavoli sarà stato solo il Comune: dimostrerà di aver fatto di tutto per tutelare la salute pubblica e al contempo strapperà qualche euro in più ai supertatassati cittadini.
In attesa dell’imminente raddoppio dell’addizionale Irpef e dopo il salasso della tassa sull’immondizia, cittadino-Pantalone, come sempre, silenziosamente abbozza. Ma fino a quando?

Tony Gaudesi

Giudica chi legge

Caro Gery, da operatrice del settore editoriale, ti scrivo per ringraziarti del dibattito sulla bastonatissima narrativa palermitana che stai ospitando. Come “allevatrice” di scrittori, sento di dover rendere giustizia, in questo blog, a tutti i talenti freschi che la nostra città ha prodotto in questi ultimi anni, che non liquiderei – come certi soloni fanno – gettandoli nel pentolone degli “scialbi imitatori” di questo o di quell’altro maestro della letteratura o come insulsi produttori di una “narrativucola” che non ha, né avrà mai, nulla da dire. E mi preme anche parlare di chi, con i suoi romanzi, ha contribuito alla crescita della casa editrice per la quale lavoro, Dario Flaccovio. Casa editrice che è spesso oggetto degli strali di chi vive con la puzza sotto il naso. Non mi va che all’editore e ai suoi autori si dia stagionalmente un pubblico calcio nel sedere, spesso senza possibilità di replica né motivazioni espresse con chiarezza. E’ accaduto anche pochi giorni fa, su Repubblica. Cosa che mi ha costretta a scrivere una lettera di precisazione al giornale (di contro molto attento ai nostri saggi su Palermo e sulla Sicilia, ma spesso snob nei confronti della narrativa e dei giovani scrittori che proponiamo). Né sono io l’unica a ritenere ingiusto bollare i nostri scrittori esordienti ed emergenti come robaccia. C’è tanta stampa qualificata che ne parla bene, e in certi casi anche in termini entusiastici. Ci sono premi letterari nazionali che ne hanno riconosciuto il valore. Ci sono paesi europei ed extraeuropei che li hanno amati e voluti in libreria, e adesso si godono i frutti di una scelta lungimirante. Ci sono colossi dell’editoria che li hanno notati e arruolati nella loro squadra. C’è stata la Presidenza del Consiglio dei Ministri che nel 2005 ha assegnato a Dario Flaccovio il premio della Cultura. E tutto questo grazie a te, Gery, a Salvo Toscano, a Valentina Gebbia, a Giacomo Cacciatore e a tutti gli altri.
Con la casa editrice abbiamo lanciato scrittori che sono cresciuti, che ora hanno anche cinque o sei traduzioni all’estero, e contribuiscono a portare oltre confine la nostra narrativa offrendo un’interpretazione nuova e soprattutto attuale di questa terra. Questi esordienti o emergenti hanno regalato a Dario Flaccovio, e anche a me che li seleziono, la soddisfazione di finire ogni anno, spesso con più di un autore e con libri di diverso genere (dal giallo, al noir, dal romanzo ironico alla letteratura di viaggio), nelle semifinali, in finale o sul podio di vari premi. Di poter sfoggiare sulle nostre copertine “strilli” importanti, tratti dalle recensioni del Corriere della Sera o de La Stampa, solo per citare due testate. Mi sembra, quindi, che sia la storia recente a parlare per loro. Questi giovani autori – che non saranno i nuovi Sciascia e Pirandello, né forse vogliono esserlo, ma hanno comunque talento e personalità – non meritano il coro di detrattori che ormai si leva a scadenze fisse, ma non hanno nemmeno bisogno di difensori. Si difendono da sé, con quello che scrivono, con la passione che ci mettono, con i sacrifici che fanno, con i risultati che ottengono. A chi li vuol far passare tutti per merce di scarto chiedo solo di conoscerli, di leggerli. E magari, dopo averli letti, di avere l’umiltà di ammettere che almeno in qualche caso si è sbagliato a dirne male.

Colpevoli di noir

Quando si esprimono opinioni in forza di un ragionamento o di proprie intime convinzioni, si è soliti usare toni pacati non avendo altri scopi verso i propri interlocutori, se non quello di dire ciò che si pensa. I toni trasudanti livore e disprezzo utilizzati dallo scrittore Vincenzo Consolo suggeriscono invece altre chiavi di lettura. Bisognerebbe chiedersi: da cosa nasce l’accanimento di Consolo emigrato a Milano da quarant’anni verso i suoi colleghi siciliani contemporanei? Ad ognuno la propria risposta.
Per quanto mi riguarda, l’avevo già ascoltato quattro anni fa alla Fiera del libro di Torino ed anche allora aveva tirato fuori la solita solfa e un’idea me la sono fatta. Io credo che uno scrittore dovrebbe parlare attraverso i suoi libri, altrimenti diventa qualcos’altro. Personalmente ho letto Consolo, ma lui cosa ha letto di chi critica?
In Sicilia oggi esistono fior di scrittori e di scrittrici, ognuno si esprime col genere che gli è più congeniale. Il noir come ogni altra forma di letteratura ha una sua specificità, e pazienza se a Consolo non piace. Ce ne faremo una ragione, come autori e come lettori di noir. Voglio comunque sottolineare che se anche una sua pupilla come Silvana La Spina ha pubblicato “Uno sbirro femmina” (Mondadori, semifinalista al Premio Scerbanenco, il più importante del genere in Italia), ci saranno delle ragioni. E non credo siano unicamente quelle sbandierate con tanta sicumera e tanto astio da Consolo. Uno scrittore deve avere una visione ampia del mondo che lo circonda. Molti lo hanno capito e i lettori li seguono sia in Italia che all’estero.

Il maestro americano

Ho sempre pensato che scrivere sia un atto di libertà. Un’impellenza che, miracolosamente, coinvolge la sfera dell’intimo e ha ripercussioni su quella del sociale; una pratica adulta che mette in moto l’istinto bambino e il pensiero maturo, che chiama a raccolta le stratificazioni dell’esperienza eppure cede alle lusinghe dell’ignoto, mescolando azzardo e controllo, incoscienza e presa di coscienza. Antinomie che convergono e cooperano nel medesimo atto: la creazione di una storia. Attribuisco quindi all’azione di scrivere la levità del gioco tra fanciulli: senza pretese e tuttavia denso di significati, spesso incurante di scelte preconcette o di regole che non siano quelle interne al gioco stesso, necessarie alla condivisione con quanti più vogliono parteciparvi. Non sono del tutto in buona fede, dicendo questo, lo ammetto. A oggi, mi reputo un discreto ignorante, orfano della lettura di numerosissimi classici in una scuola che ha fatto del proprio meglio per sottrarmi allo studio appassionato della storia, della filosofia, della poesia. Quello che so, spesso l’ho catturato per caso, con lo stesso spirito del gioco: da onnivoro, in strada, nelle sale cinematografiche, dal solco di un disco, da un fraseggio di musica, sui giornali e sui saggi, pescando qua e là, aprendo la Divina Commedia o l’Iliade con gli occhi chiusi e il dito puntato a casaccio, gustando una strofa, una suggestione, sempre con il tremore del contadino che si affida ai segni, ai solchi, al volo delle rondini. Non sto facendo dell’ignoranza un alibi e del disimpegno una bandiera, ma solo una difesa a braccia aperte. Scrivo con quello che ho e, se la giornata gira, quello che ho mi basta a movimentare il gioco. Ho cominciato a pubblicare nel 1994, ed ero più povero e meno cauto di oggi. Avevo finito l’università, e cercavo di esorcizzare un fantasma. Anzi tre. Primo: volevo diventare uno scrittore vero. Secondo: nei dintorni non vedevo il luogo adatto e canonico per l’impresa, ovvero mitici caffè, circoli letterari, un Baudelaire affamato di novità che decidesse di darmi la sospirata patente di “Scrittorevero”. Terzo: speravo di scrivere qui. Qui, in Sicilia. La terra di Pirandello, Lampedusa, Sciascia. Tremavo.
Mi venne in aiuto un americano. Un personaggio che si era più o meno ritrovato ad affrontare fantasmi simili ai miei e forse di tanti altri miei coetanei. L’americano, da ex studente e anonimo insegnante, voleva diventare uno scrittore vero (cioè pubblicato). Ma nei dintorni non vedeva altro che bar, fattorie e scuole metodiste e, peggio ancora, pretendeva di scrivere lì. Lì, in America. La terra di Poe, Faulkner, Hemingway. Lo scenario era: paralisi o tracotanza, insomma. Lo scrittore americano aveva scelto la tracotanza. Scrivere era molto più facile che convincersi se davvero ne valesse la pena, se fosse “lecito” provarci. Era una questione di coraggio, di incoscienza e di motivazione. Era un gioco libero e serio, che non doveva rendere conto a padri fondatori. Questo a qualsiasi latitudine della terra.
Lo scrittore di cui parlo si chiama Stephen King e, al di là di quello che si possa pensare dei suoi libri, della sua “americanitudine” e dei suoi milioni, mi tese una mano invisibile ma concreta. Mi mise in mano le chiavi del regno e i trucchi di un gioco universale. La battuta giusta davanti alle porte chiuse e ai sofisti. Mi svezzò nella lettura di altri autori, più complessi, più vicini all’Europa e persino alla Sicilia. Mi diede un esempio che non è mai arrivato da qui, dalla mia città.
Eppure non ho fatto altro che scrivere di lei, da allora, grazie alla spinta di un maestro lontano, che non conoscerò mai.

Lo sfogo di una editor

Affrontiamo una questione seria, la questione linguistica. Non bisogna avere una laurea per parlare e scrivere in modo corretto. Esprimersi in un italiano accettabile è segno di civiltà, di amor proprio, di buona creanza. Le coloriture dialettali, le licenze e le invenzioni sono belle e divertenti se spontanee o se ben orchestrate. Mi sembra utile pubblicare lo sfogo di una illustre editor.

Caro Gery,
ti sottopongo una questione per proporti, se e quando ti andrà, di affrontarla nel tuo blog. Dato che, come sai, lavoro per una casa editrice e mi occupo (almeno nelle intenzioni) di buona scrittura, non posso più sopportare di sentire utilizzare sempre più spesso l’avverbio “dove” – che, come tutti dovremmo sapere, significa “in quale luogo” – a sproposito in qualsiasi tipo di frase. Accade in tv, ma anche in giro. Qualche esempio: “Quello è un uomo dove ci si può fidare”; “giugno è stato un mese dove mi sono divertito molto”; “le tre del pomeriggio è un orario dove sono abbastanza libero”; “il pomodoro è un ortaggio dove lo puoi cucinare come vuoi”. E via bestemmiando. Non uso a caso il verbo bestemmiare. Certe costruzioni ardite (giusto per non dire bestiali) mi sembrano proprio un insulto alla lingua italiana, orale e scritta (sì, perché c’è anche chi queste cose le scrive). Non mi risulta che un uomo, il mese di giugno, le tre del pomeriggio o il pomodoro siano dei luoghi. Quel “dove”, allora, che ci sta a fare? Immagino che il disastro sia partito dalla tv, visto che proprio negli studi televisivi questo benedetto “dove” si usa nella maniera più funambolica e scorretta. Di certo so soltanto che – facci caso – ha cancellato ogni “che”, “in cui”, “nel quale”, “con la quale”, e via dicendo. La lingua, si sa, cambia e, cambiando, a volte cresce, si adegua alla realtà, talvolta diventa più funzionale. Ma se è questa del “dove” a tutto spiano la presunta evoluzione più recente, io voglio senz’altro combatterla.

Raffaella Catalano

Palermo e basta

Giacomo Cacciatore è uno scrittore testardo. Si ostina – lui che è di origini calabresi – ad ambientare le sue storie in una Palermo scomoda e per nulla folkloristica. Il suo ultimo romanzo, Figlio di Vetro (Einaudi), parla di mafia scavalcando moralismi e lezioncine di etica. Cacciatore è anche un polemista tanto impetuoso quanto riservato. Io, che sono suo amico, ne raccolgo quotidianamente gli stimoli e gli sfoghi ricambiando come posso. Oggi ho ottenuto il permesso di pubblicare una sua riflessione, a mio giudizio preziosa.

Carissimo Gery,
ti confesso che la Palermo che leggo su alcuni siti web e giornali non mi piace. Giriamola come vogliamo, ma ’sto giovanilismo nostrale del tipo “cucì, compa’” (quando non entra in ballo di peggio, cioè il mastro della broscia o il poeta della panella) non mi diverte né mi induce alla riflessione. Secondo me questi trasudano da ogni riga quell’autocompiacimento (nel parlare bene così come nel parlare male di Palermo) che mi sembra mooolto provinciale. Mi pare di vedere i cumpari che si girano i pollici e fanno piriti ai tavolini del bar della piazza, impantanati nei classici discorsi di cafè su quanto facciamo schifo e però… “ce la possono sucare”. E allora mi chiedo: ma questa cazzo di città non si può abitare e basta? Perché bisogna sempre farne un soggetto-oggetto filosofico da quattro copechi, il tema portante di un sito con centinaia di post, il perno di intere bibliografie, come se non esistesse altro al di là di Villabate e di Capo Gallo? Non si può essere abitanti di Palermo senza per forza essere “palermitanazzi” e “palermitanare”? E poi, questa presunta “distintività” dei palermitani, che ci sboccia irrefrenabile a ogni pie’ sospinto, come l’herpes da stress, è davvero una cosa così provata e significativa agli occhi del mondo da andarne fieri, farne argomento di conversazione o lamentarsene di continuo? Anche i newyorkesi, dico io, sproloquieranno ogni tanto su cosa significa essere newyorkesi. Ma la maggior parte del tempo la passano a lavorare sodo, diventare pittori, scrittori, registi, tassisti, drag queen, elaboratori di sistemi informatici che cambiano il mondo e l’assetto dell’economia internazionale, suicidi o, male che vada, serial killer. Se Palermo fosse una vera metropoli, nel senso di “città madre” di idee, che contagia innovazioni originali e memorabili al resto del globo, allora capirei tutto questo annacamento. Capirei la voglia o la necessità di spiegare e spiegarsi “che cosa è Palermo in tutte le sue strabilianti sfaccettature”. Ma lo vogliamo capire che non ci caca nessuno? Che questa è sempre stata una città in cui la gente che conta viene, mangia, defeca, si asciuga il culo, prende la nave e l’aereo e manco tira l’acqua? Che l’unica cosa che riusciamo a produrre ed esportare sono le scatolette di caponata e quattro bottiglie di vino? Che le persone che hanno avuto e hanno ancora qualcosa da dire e di cui far parlare, qui, si contano sulla punta delle dita? Che questo guardarsi di continuo l’ombelico e lo ziniero è la tomba delle potenzialità, dei talenti, della necessaria umiltà per crescere e produrre come si deve?
Lo stesso si potrà dire dei napoletani, per carità. Ma l’essere apparentati (fin dai tempi del regno delle due Sicilie, probabilmente) nella mentalità del “povero e superbo”, non mi sembra una gran consolazione. Non lo era prima, non lo è adesso.
Con universale amicizia,
Giacomo Cacciatore.
Italiano. Domiciliato in una città che si chiama Palermo. E basta.