Cose di insana passione musicale

Sapete della mia sfrenata passione per Donald Fagen e per gli Steely Dan. È (anche) per questo e (anche) perché di musica ultimamente abbiamo parlato poco che mi permetto di iniziare una serie di suggerimenti d’ascolto su questi due geni della musica contemporanea (più Fagen di Becker, a mio modesto parere). Comincio con questa Home at Last (dall’album Aja): sentite quanto jazz, quanta eleganza… E, pensate un po’, siamo nel 1977.

 

Just the two of us

Ingredienti per rendere divertente una serata monotona.
Un iPod o un qualunque lettore digitale di musica: oddio, va bene anche il walkman se ne tenete un cimelio funzionante.
Un paio di scarpe comode.
Un luogo da esplorare: vanno bene anche un lungomare o un quartiere della vostra città, oppure una zona che conoscete benissimo (e capirete perché).
Una persona amata (con conseguente altro paio di scarpe comode).

Procedimento.
Inserite due paia di auricolari nel lettore. Non usate due iPod diversi perché il bello sta nell’ascoltare la stessa musica, contemporaneamente. Scegliete la playlist giusta e cominciate a camminare. Lasciatevi trasportare dalla musica, ballate se volete, chiudetevi al mondo e apritevi alla vostra visione del mondo. Scoprirete che anche una strada che credevate di conoscere bene – quella che fate per andare al lavoro o fare la spesa – può essere meravigliosa. Vi accorgerete che col beat giusto il tempo si ferma. Consumerete chilometri senza accorgervene e, tornati a casa, vi sentirete più leggeri. Andrete a nanna con la felice, e rara, consapevolezza che i veri chili di troppo non stanno nel girovita, ma nella testa.

Addio al nostro alfabeto musicale

Ci si abitua alle assenze, non ci si abitua mai alle voragini. Perché un’assenza è metafisica, una voragine è fisica. Quella di Prince è una voragine per noi affamati di rock, per noi ex giovani sopravvissuti agli anni Settanta, per noi mediocri strimpellatori in cerca di un genio da imitare.
Prince era in grado di sconvolgere tutto l’universo musicale conosciuto. Toglieva eco ed effetti laddove una teoria di delay copriva le nefandezze di un cattivo esecutore, cambiava nome quando il suo era troppo famoso, riempiva di note il vuoto di mille esistenze che, come la sua, venivano dal nulla senza aspirare ad altro che non fosse poco più del nulla.
Ci ho pensato per qualche ora, come se dovessi elaborare un lutto personale. Ed effettivamente non di lutto personale si tratta, ma generazionale. Nell’epoca in cui una generazione ha perso pilastri come David Bowie, Maurice White e (per l’Italia) Pino Daniele, c’è poco da sperare: quando un artista passa dalle cronache alla storia è il momento di fermarsi e respirare. Come quando arrivi a cinquemila metri di altitudine e guardi quel che c’è sopra pensando a quel che hai sotto: null’altro da fare, solo tesaurizzare l’esperienza, che sia ossigeno, musica o nostalgia compressa non importa. Devi respirare e basta.
Respiro.
Ok.
Prince era l’alfabeto di chi aveva due orecchie collegate a un centro del desiderio. Poteva non piacere, perché certe sue performances erano davvero urenti. Ma non importava: a nessuno piace la consecutio temporum, ma tutti sanno a che serve. E Prince serviva. A sognare una pioggia viola senza chiedersi nulla sul colore pernicioso. A chiedersi quando le colombe piangono. A implorare un bacio come un’ossessione violenta.
Non so quanti vi racconteranno della vita spericolata del genio di Minneapolis, non immagino quanti saranno i link con la sua fama di simbolo (bi)sessuale, né mi interessano i dettagli di una morte misteriosa come la sua vita privata.
So soltanto che Prince l’ho inseguito per il mondo, che l’ho raggiunto in un remoto bosco della Danimarca: e lì l’ho trovato meravigliosamente snob (non eseguì neanche uno dei suoi cavalli di battaglia). Che l’ho apprezzato anche per le sue trovate più commerciali (perché lo stile non è acqua).
Che mi mancherà come il caffè la mattina, quando hai gli occhi ancora chiusi e ti rifugi in una certezza antica, un riff in la maggiore, una frase nota in una bocca impastata, una voce amabilmente stridula, la chitarra che urla, buongiorno mondo ma che cazzo di buongiorno ti meriti se è sempre lo stesso mondo di merda? Buongiorno lo stesso. E buonanotte Prince Roger Nelson, un nome paradossalmente lungo per uno che a un certo punto ha scelto di far passare l’apocalisse sul suo stesso elemento anagrafico, con un’ambiguità ostentata come la maschera di Pulcinella.
Buonanotte all’uomo che rinnegò se stesso per darsi una libertà maggiore, quella di superare i confini di una popolarità che rischiava di omologarlo anziché esaltarlo.
Buonanotte al macho di un metro e cinquantotto centimetri, sul quale nessuno ha mai avuto il coraggio di ironizzare.
Buonanotte e vaffanculo, maledizione
Chi ci darà il risveglio domani?

Studia matematica, ma comprati un violino

C’è una canzone di Eugenio Finardi, datata 1977, che è il vero manifesto della buona scuola, quella degli studenti motivati, delle inclinazioni assecondate, dell’apertura mentale. Io la conosco a memoria perché in quegli anni ero un liceale complicato e irrequieto. La ascoltai sino a inciderla nell’anima.
E oggi, pur da adulto complicato e irrequieto, la mia anima ringrazia.

 

And the winner is… Disco Inferno

disco inferno

L’altra sera mi è capitato di fare una cosa che non facevo da secoli. Ballare. L’occasione è stata utile non solo per far ridere gli astanti con le mie movenze da tecno-bradipo, ma per riportare alla memoria vecchie musiche (ma non musiche vecchie).
Per ragioni anagrafiche sono molto legato alla discomusic, al soul e al funky. Però la mia personale top ten di brani dance è quanto di più popular ci possa essere.

10) I was made for loving you – Kiss

9) I feel love – Donna Summer

8) High steppin’ hip dressin’ fella – Love Unlimited

7) Music and lights – Imagination

6) Billie Jean – Michael Jackson

5) Le freak – Chic

4) Ladies night – Kool and the gang

3) You should be dancing –Bee Gees

2) Boogie wonderland – Earth Wind & Fire

1) Disco Inferno – The Trammps

Quasi meglio dell’originale (e commovente)

Ieri mi sono imbattuto per caso in questa memorabile versione di Stairway To Heaven. Ci sono gli anziani Led Zeppelin commossi, c’è il figlio di John Bonham alla batteria, c’è un coro che spunta a sorpresa e c’è una magia che rende questa cover preziosa come l’originale. Se non avete mai visto questo video (qui c’è tutta la storia), prendetevi cinque minuti, mettetevi una cuffia e sparatevi la musica a palla. Disposti a tutto, anche a ritrovarvi con gli occhi lucidi.

Artigianato (musicale) di pregio

I Pomplamoose fanno i migliori video finto-artigianali del web.

 

100 anni di rock in meno di un minuto


Cliccate sull’immagine per vedere il grafico interattivo (via Concert Hotels).

Quel che ascolti, vedi

I Pomplamoose, non nuovi da queste parti, sono un duo californiano che fa dei video da manuale: ciò che ascolti, vedi. Sono una specie di tutorial per chi magari è digiuno di arrangiamenti e vuole capire come si struttura, in modo semplice, un brano. Prendete ad esempio questa cover dei Wham!, sembra un manuale di Paul Kent.

 

Dimmi chi erano i Focke Wulf

2014-03-25 12.27.28

Nuova testimonianza di pervicace esistenza di un antico manufatto cruciale per il tenutario di questo blog.

Grazie a Lucio Savagnone.