Mozziamo quel ditino

In Italia nel mondo della cultura e dello spettacolo c’è una cosa di cui tutti parlano e su cui pochi si interrogano fattivamente. Ed è il sistema di sopravvivenza da opporre alla dittatura della pandemia. Su queste pagine e altrove ho già detto la mia in proposito. Ma ora è venuto il momento che vi racconti, per mia minima esperienza, cosa vedo o sbircio dal mio abbaino tecnico.

Partiamo da una similitudine non peregrina. Se in Italia si fosse investito nell’istruzione come sarebbe stato giusto fare, e come è stato fatto altrove in Europa e nel mondo, oggi il dibattito sulla riapertura delle scuole sarebbe ben diverso, per contenuti e per toni. Vale la pena di ricordare che l’Italia è ultima in Europa per spesa nell’istruzione in rapporto alla spesa pubblica: il che già spiega la considerazione che i vari governi – tutti, di destra, sinistra, cretinocratici e pseudo-illuminati – hanno per l’istruzione.

Fine della parentesi, che servirebbe comunque anche se parlassimo di qualunque altra cosa, perché un Paese che mortifica l’istruzione è un Paese che non è degno di aver una parola in più rispetto alla bocciofila “Amici dello zio” di Vattelapesca.

Il problema dei problemi in questo momento di chiusura forzata è sempre il rapporto con lo streaming e col web, inutile girarci intorno. Se state leggendo questo post sapete che chi scrive è fonte coinvolta quindi non aspettatevi un approccio problematico alla questione: secondo me, lo streaming fatto con tutti i crismi e usato con buona creanza (e fantasia) è la salvezza. Punto. Il problema è l’effetto che provoca in un ambiente che sino all’altroieri ha vissuto in un’oasi ovattata, tra velluti e belletti, tra miti e privilegi. È chiaro che io parlo in modo molto generico perché vivendo in un grande teatro d’opera so bene che, anche ai tempi d’oro, la vita non era rose e fiori per tutti: il binomio sudore-lavoro vale per chiunque metta impegno e buona volontà, nei teatri come nelle fabbriche.

E allora procediamo per massimi sistemi, ma senza nasconderci dietro il mignolino  alzato.

Le esigenze televisive che costringono le masse artistiche a sobbarcarsi un lavoro nuovo – non più pesante, non meno importante, semplicemente “nuovo” – comportano necessariamente un cambiamento nel rapporto con il pubblico (e del pubblico in particolare parleremo tra breve) e soprattutto la caduta di alcune certezze. Innanzitutto serve una maggiore flessibilità. Se prima per spostare la sedia di un professore d’orchestra ci voleva una decisione che investiva una catena di comando di almeno una mezza dozzina di persone (senza mettere nel conto ovviamente gli artisti coinvolti), oggi se un leggio impalla una telecamera si deve provvedere e basta, senza bizantinismi o timori di lesa maestà. E non è un procedimento automatico, eh. Oggi non è più prevalente il modus, non pesa più la consuetudine di qualcosa che è com’è perché è e basta, ma la legge di un prodotto che deve essere competitivo, quanto più perfetto possibile, e in linea con la tradizione (che non va mai messa da parte, neanche nei momenti in cui si è tentati di scegliere una scorciatoia “salvavita”).

E poi c’è il nuovo pubblico. Ripeto nuovo pubblico. Che è la vera novità di una vera politica culturale al passo coi tempi disperati in cui viviamo. Per decenni – e mi tengo stretto con l’approssimazione – l’unico pubblico che davvero importava a chi imbastiva programmi artistici di ogni genere e grado era quello televisivo, un pubblico passivo ma determinante grazie a quel meccanismo perverso che si chiama Auditel. Oggi per la cultura dell’anno 2021 il pubblico è la cosa più preziosa che possa esistere perché esso stesso, e finalmente, decreta la certificazione dell’esistenza in vita dei teatri. È il pubblico di Netflix che può essere lo stesso di quello del Teatro Massimo di Palermo o di qualunque altro teatro. Non è più un pubblico (tiepidamente) abituato, o (piacevolmente) in ostaggio, o in qualche modo garantito da una consuetudine. No, è un pubblico totalmente da conquistare. È il nuovo pubblico che proviene da altri lidi culturali, che conosce il mezzo ma non ha idea del contenuto (concetto cruciale, consentitemi), che soprattutto se ne frega delle antiche prospettive. Sbuffa se non capisce, ti sbeffeggia se cerchi di prenderlo ruffianamente per il verso buono, ti molla se non riesci a trattenerlo. Tutto in un attimo, in un clic. Non c’è niente da fare, non c’è via d’uscita. Si è in ballo e si balla: è l’emergenza, bellezza.

È questo il nostro nuovo padrone. Il pubblico liquido che nulla sapeva dell’opera e che adesso si incanta davanti a due ore di concerto come rapito da una sensazione inebriante e sconosciuta. Il pubblico del web che ci tiene a farti sapere che c’è, esiste, da ogni continente, e che ha il gusto di mandare la foto che lo ritrae davanti al computer mentre assiste in diretta a uno spettacolo che si volge a sette fusi orari di distanza. Il pubblico che ti regala complimenti gratis e che sceglie di accompagnarli a una donazione volontaria per sostenere un teatro che magari non visiterà mai  per motivi geografici o perché chissà, ha i cazzi suoi. Un pubblico intransigente che non conosce la netiquette dei circoli damascati e fischia forte, fortissimo, se lo spettacolo non gli piace ma che chiede spiegazioni per iscritto e magari uno gliele dà e si instaura un nuovo rapporto, inaudito tra scena e platea.

Un nuovo pubblico che c’è e del quale la vecchia cultura non può fare a meno e che adesso non può ignorare. Finalmente (dico io).              

Serie tv, vizi e pregiudizi

Da buon divoratore di serie televisive sono riuscito a fare un’auto diagnosi del mio essere utente, una via di mezzo tra un’analisi di coscienza e semplice peso del gusto. Innanzitutto la quantità: sono un bulimico di sensazioni e mi iscrivo alla fazione di quelli che amano il binge watching, cioè la visione consecutiva di più episodi di una serie (anche se la maniera classica di programmare uscite settimanali sembra resistere). Non ho seguito Dallas – allora mi rifiutavo di vedere qualsiasi cosa fosse a puntate – ma ne ho lette di ogni di tipo sulla famosa volta in cui spararono a J.R. e la serie si fermò per otto mesi: col senno di oggi non avrei resistito alla provocazione e forse, per protesta, non avrei più guardato Dallas.    

I personaggi contano. Anche per quantità. Le serie migliori che ho visto ne hanno pochi e fortissimi. Linee narrative chiare, intrecci di purezza stilistica, niente pasticci con mezze figure messe lì per complicare le cose. Friends: sei amici, dieci stagioni. Desperate Houswiwes: quattro casalinghe, otto stagioni. 24: un agente, dieci stagioni. Breaking Bad (indicata tra le migliori serie di tutti i tempi): due complici, cinque stagioni. Stranger Things: cinque bambini, tre stagioni (la quarta in arrivo).  

Certo, ci sono numerose eccezioni – Lost, Fargo e The Man in the High Castle svettano – in cui il groviglio di personaggi e soprattutto la loro collocazione temporale hanno un ruolo fondamentale nel meccanismo di fascinazione televisiva. Ma lì entra in gioco un altro fattore, quello decisivo: la magia semplice di una trama complessa. Chi scrive sa che far confusione è il modo migliore per diluire incertezze e attrarre menti distratte. La stagione finale del Trono di spade è un esempio perfetto di questa somma di imperfezioni: combattimenti a go-go, effetti speciali e morti distratte per chiudere una partita tirata troppo per le lunghe.

Per capire cosa è la magia semplice di una trama complessa basta leggere un qualsiasi libro di Agatha Christie (qui un mio minimo podcast), poi virare su Stephen King e le sue serie come Castle Rock e Mr Mercedes. Dato un fatto (un misterioso prigioniero sepolto vivo in una stanza segreta di un penitenziario o un serial killer che colpisce anche se morto cerebralmente) King riesce a puntellare la storia di personaggi talmente forti da far dimenticare ogni forma di plausibilità: se in un film normale un morto che resuscita può far sorridere, in un prodotto di King getta nel terrore e/o accende la passione. Il gioco sta tutto lì, nel saper usare il bastone e la carota con il lettore/spettatore. Ti spiazzo con un cliffhanger che ti toglie il sonno, ma subito dopo ti rassicuro con una battuta che il tuo personaggio preferito dice come se fossi tu a pronunciarla, perché tu sei lui e nessun altro lo è più di te (l’identificazione nel personaggio è in un film la mossa vincente dell’autore, nel senso che se riesce, può scrivere qualunque cosa, tu sarai lì a seguirlo a bocca aperta).

Insomma da buon divoratore di serie televisive seguo la mia indole di lettore (sono uno che legge per scelta di notte, ma di questo parleremo un’altra volta): seguo il vizio, do retta alle mie insofferenze e godo dei miei pregiudizi.

La vita è una crostata

C’è una metafora che uso spesso, con me stesso e raramente con gli altri giacché io mi parlo molto soprattutto quando sono sereno, per indicare la cura che si dovrebbe mettere nel fare le cose. Che siano lavoro, svago, occasione o routine. È la metafora della pasta frolla. Io, da modesto appassionato di cucina, la mia la faccio così:

280 grammi di farina 00
170 grammi di burro
135 grammi di zucchero
3 tuorli
1 uovo intero
Scorza di limone grattugiata

È una ricetta che ho perfezionato nel tempo, più di vent’anni, togliendo e mettendo, preferendo una pasta friabile a una più solida, cedendo al gusto di un prodotto languidamente cedevole rispetto all’austerità di uno lievitato. E qui siamo al primo accenno di metafora: le cose si fanno col tempo e si modificano nel tempo; non c’è mai un solo modo per farle.
Poi il cuore del ragionamento.
La pasta frolla è facile da far male, come le cose che si fanno tanto per farle. Ci vuole la scienza della pasticceria, dove i grammi contano, e ci vuole l’ispirazione del momento, dove il tocco soffuso di un pensiero cambia un destino.
La pasta frolla, quella che mi piace, quella che faccio io, quella non industriale, quella non cementificata in teglie di alluminio, è scomoda. Se la tratti male ti si ritorce contro, se la assecondi non sarà mai accondiscendente. Ma alla fine, solo alla fine, ti darà la gioia del risultato.
La vita in fondo è una crostata. E provatemi il contrario.    

Il coefficiente soffritto

Amo cucinare. Eppure non mangio carne e pesce (tranne il “pesce non a forma di pesce” ma con tante di quelle eccezioni che riguardano più la psichiatria che la culinaria). Mentre gran parte degli uomini impazzisce per i motori e per il calcio, io sbavo per pentole antiaderenti e coltelli giapponesi. Il mio account Amazon gronda di oli aromatici, creme al tartufo, formaggi di fossa, farine, vini, paste, impastatrici, grattugie elettroniche e altri attrezzi di godimento. Ho una mamma che mi ha instillato la sensibilità cruciale di intuire a naso, o meglio a palato, dove ci va l’aglio, dove la cipolla e dove ci vanno tutt’e due: lei è una cuoca naturale, anni e anni di intuito applicato a soffritti e fornelli. Io invece sconto la pena del mio Doc con una eccessiva precisione dei tagli e delle cotture, una sorta di sterile effettismo che cozza con la fantasia e il brio dell’improvvisatore. Perché, diciamolo, sino a qualche anno fa non improvvisavo nulla tra i fornelli, ma oggi in vista di una anzianità cucinocentrica – causa virus, causa lavoro, causa cazzi miei – sono riuscito a liberarmi dal giogo della regola fissa. È accaduto per caso, del resto tutte le rivoluzioni accadono per caso: un vaso che trabocca, un proiettile più o meno vagante, un alzarsi col piede sbagliato. Molte volte ho pensato ai grandi stravolgimenti della storia come a conseguenze di piccoli fatti insignificanti. Lo statista che ha digerito male e che cambia i destini di un popolo dopo una notte insonne di gastrite. Il dittatore che sfoga la frustrazione di un amplesso fallimentare in un atto di guerra. Il ribelle che s’inventa la riscossa dopo aver subito l’ennesima umiliazione per il suo conto in banca. Il populista che muove il suo movimento dopo una cazziata domestica.
Affidarsi alla casualità non è mai una resa, ma una umana razionalizzazione.
Così è accaduto a me. Nella mia modestissima rivoluzione in cucina.
Un giorno mi sono ritrovato a corto di un paio di ingredienti cruciali che vedevano la convergenza di manuali come il sommo Artusi e l’immortale Cucchiaio di argento. E anziché cambiare rotta, ergo cambiare menu, ho scelto la via più complicata per un ossessivo compulsivo consapevole e non rassegnato: rompere gli schemi, uscire dal rito.
Così guardato l’orizzonte e ho cominciato a nuotare in mare aperto.
Passo dopo passo, anzi piatto dopo piatto, ho assaporato un nuovo gusto, quello dell’ispirazione. Ho osato accostamenti per me impensabili (odio l’agrodolce, ma il dolce più il salato non è per forza agrodolce); ho centellinato i lieviti; ho studiato senza pregiudizi la magica interazione tra uova farina e burro; ho bevuto vino rosso col pesce; ho perfezionato la mia ricetta di pasta frolla (la fornisco in privato solo su richiesta motivata); ho scoperto il riso; ho santificato l’unione tra finocchio e salsa di senape; e ho riabilitato il pomodoro crudo.
Sono uno che cucina a orecchio però sono uno che cucina sempre: quando sono allegro, o triste, o rilassato, o incasinato. Non c’è mai un motivo per non mettersi ai fornelli. In alcuni periodi difficili della mia vita, la cucina (come la musica) mi ha salvato la vita. Da solo o in compagnia, un soffritto è sempre stato l’inizio di un nuovo inizio. E un buon soffritto è la base.
Del resto nella vita, con gran dispendio di metafora, ci sono primi e secondi che si annunciavano sontuosi e che poi la storia ha certificato come insignificanti. E semplici pietanze nate come contorni che invece risulteranno indimenticabili.
Potenza del soffritto?

Teatri chiusi, istruzioni per l’uso

Quando nel 2015 sono arrivato al Teatro Massimo di Palermo la situazione era molto diversa da oggi. Dentro e fuori. Dentro, c’erano una cultura analogica e granitica, i computer e il digitale erano usati a malapena per spedire qualche mail, lo spettacolo era tutto sul palcoscenico. Fuori, c’era un mondo disordinatamente ordinario fatto di spettatori paganti, di contatti, di relazioni, di progetti a scadenze fisse.

L’innovazione tecnologica è arrivata come spesso arrivano queste cose, per scelta di pochissimi, in una semi clandestinità da intrusi, con contorno di abbondante sospetto da parte di tutti gli altri, a parte i pochissimi di cui sopra. La decisione più dirompente, e importante, fu quella di mandare in diretta web in forma gratuita tutte le prime delle nostre opere.

Da lì iniziò un cambiamento lento che, non senza scossoni, ostacoli non proprio artificiali e alzate di spalle più o meno metaforiche, ha portato il Teatro Massimo in una nuova dimensione. Questa è la parte sulla quale sorvolo (ne ho scritto più volte sui giornali, qui qui e qui trovate qualcosa). In poche parole l’obiettivo era quello di dimostrare che un utilizzo corretto del web non sottrae nulla al nostro sistema di relazioni e anzi porta alla creazione o al consolidamento di occasioni preziose per tentare nuove narrazioni. Il concetto fondamentale che vi chiedo di tenere a mente è quello di “economia di posizione”: cioè una forma di tesaurizzazione non in forma immediatamente economica,  bensì strategica, logistica, lungimirante. Essere dove gli altri non sono ancora è una forma di ricchezza che non è scalfita da svalutazioni o inflazione.

Il libretto delle istruzioni.

Ma erano ancora altri tempi. Un altro tempo in cui gli spettatori erano quelli che vedevamo fisicamente, che incrociavamo nel foyer, che salutavamo personalmente (ah, le strette di mano, gli abbracci…), dei quali conoscevamo gusti e pregiudizi. Un altro tempo in cui bastavano tre telecamere e un collegamento volante per stupire senza troppa raffinatezza. Un altro tempo in cui il libretto delle istruzioni era ancora dentro il teatro e riguardava esclusivamente il teatro, perché era lì e solo lì che si celebrava l’antico rito dell’arte. Ed era lì e solo lì che lo spettatore trovava modi e ragione per assaporare la sequenza di emozioni che lo spettacolo doveva suscitare. Il prodigio si ripeteva a ogni replica con la sacralità del gesto di accomodarsi, con la pazienza di non muoversi troppo, con la saggezza di lasciarsi stupire dal fascino del classico (cioè qualcosa che conosciamo a memoria ma che non ci stanchiamo di considerare sorpresa).
Poi venne il virus e cambiarono gli scenari.
Il pubblico divenne liquido, anzi impalpabile. Perse il suo potere contrattuale di critica, almeno nel senso noto come diritto di utente pagante. E soprattutto divenne immenso come la potenzialità di un incontro al buio, di un’entità recensibile. Non sapevamo più nulla di chi ci guardava: altro che gusti e pregiudizi.
Questo è un passaggio fondamentale del ragionamento quindi permettetemi di essere pedante, in fondo è il mio orticello.  
Era cambiato drammaticamente il libretto delle istruzioni. Perché le istruzioni non erano più solamente teatro e nel teatro.  
Siamo a oggi. La lingua è un’altra lingua: è la lingua dei social, dei media sopravvissuti, delle serie tv, dei nuovi neologismi accettati dall’Accademia della Crusca. Si può scegliere di capire o meno, ma opporsi per principio significa arretrare. E arretrare in tempi di guerra significa perdere, scomparire.

Il passato non serve più?

“Chi è ciascuno di noi se non una combinatoria di esperienze, di informazioni, di letture, di immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili”.
Nelle “Lezioni americane” Italo Calvino dà le sue (preziose) indicazioni sull’arte e sul futuro, sul mondo della letteratura e su quello delle relazioni sociali. Siccome non si invecchia per caso, mi piace proporvi un brandello dei suoi ragionamenti per spiegare un altro passaggio fondamentale della mia modesta trattazione: il fatto che il futuro avanza inesorabile non vuol dire che il passato non serva più a nulla. 
Il futuro e il passato sono i temi che più ci sconvolgono in questo momento, ammettiamolo. Anzi ci sconvolge il loro contatto brusco. Mai prima d’ora il nostro passato è stato diverso dal nostro presente, figuriamoci il futuro.
E allora mi sporco le mani e scrivo le tentazioni che dobbiamo evitare:
L’innovazione tecnologica rompe i privilegi di una casta e apre alla vera democrazia;
La spettacolarizzazione di un evento lo rende indimenticabile;
I nuovi fruitori sono i nuovi padroni, una versione moderna de “il cliente ha sempre ragione”.

Leggerezza e rapidità.

Odio i numeri, a scuola ero sempre rimandato in matematica, ma mi arrendo a una tardiva evidenza: i numeri servono.
In Italia ci sono più dispositivi smart che abitanti. E gli italiani trascorrono online circa sei ore al giorno, pressoché in linea con il trend mondiale. Di queste sei ore, tre vengono catturate da smart tv o piattaforme di streaming (le smart tv ovviamente hanno la parte maggiore).
Ciò significa che il pubblico e le poltrone ci sono.
Ora serve lo spettacolo.
Quando, molti anni fa, mi occupai di transizione dalla carta al web per un grande gruppo editoriale italiano diedi una sola avvertenza al mio team: evitare che il nuovo, urgente, istinto al laicismo internettiano divorasse la sacralità della carta nel nome di un nuovo estemporaneo dio. Ancora oggi è un mio mantra, sulla scorta di ciò che scrivevo sopra: il fatto che il futuro avanza inesorabile non vuol dire che il passato non serva più a nulla.
È una questione di codici, per quel che posso capire. Basta azzeccare quelli giusti, come la combinazione di una cassaforte o il pin di un cellulare.
Ci sono solo due parole da pesare bene, tra i miliardi di sbuffi, ghirigori e sproloqui, che il web ci impone: leggerezza e rapidità.
Vi dicono niente? Eh, siamo di nuovo a Calvino. Che era sì uomo di un altro secolo, ma che non era un fesso.
In tempi eccezionali è facile fare due cose sbagliate: tirare i remi in barca e andare a caccia alla cieca di qualcuno da imitare. Nel nostro specifico, vivacchiare sfruttando la corrente e scimmiottare chi ha più talenti e risorse di noi.
E invece la nostra peculiarità sta nell’essere liberi di saper sbagliare da soli.
Come? Facendo quello che abbiamo fatto con sapiente incertezza, muovendoci con saggia paura nel terreno della novità più oscura.
Il crepuscolo dei sogni” è l’esempio (guardatelo se non l’avete visto). Un’opera pensata senza reti di protezione per un mondo sconosciuto, forte delle sue insicurezze, blindata nella sua apertura estrema alle più libere letture. Sul fronte della moderna comunicazione “Il crepuscolo” è un esempio da manuale perché, nella sua più ridondante classicità (e nel suo rimpianto per essa), celebra il qui e adesso senza il ditino alzato, senza la pretesa di dare la lezioncina.
È leggera e rapida. Come regole imposteci da questa era impongono.
Ma nel contempo è classica, è attuale, è precisa. Infatti sorprende a ogni visualizzazione e continua, ogni giorno ad avere spettatori.
Ma il “Crepuscolo” è una eccezione. Molti spettacoli pensati e realizzati per il web ricordano i temini della scuola scritti bene, ma senz’anima. Perché hanno un difetto che riguarda il famoso libretto delle istruzioni: sono cose fatte per i pochi che masticano di opera. E non è la spiegazione che manca, ma l’anima.
Due puntualizzazioni a proposito del “pochi” e della “spiegazione”.         
Tra chi non ha dimestichezza col mondo digitale c’è un problema coi numeri. Allora chiariamo: un migliaio di persone che risultano sul web non sono un teatro pieno, sono un migliaio di passanti, perlopiù distratti, che passano dalle parti del nostro palcoscenico.
Quanto alla spiegazione c’è un equivoco di fondo che può essere sciolto con la differenza che passa tra il mondo reale e quello digitale. Molte spiegazioni che alleghiamo ai nostri video o ai nostri spettacoli in streaming saziano più la nostra visione imperfetta di un mondo che non tocchiamo con mano, che la reale necessità di chiarezza. Le spiegazioni online hanno tempi e modi molto differenti dalle “messe cantate” in presenza, quegli antichi riti in cui il direttore o il regista o chi per loro si presenta dinanzi a un pubblico ossequioso ed elargisce un paio di chiarimenti/esemplificazioni/giustificazioni. Il pubblico online è diverso: non è lì che ti aspetta,  è distratto da mille cose, non paga, non è obbligato dalle circostanze a starti a sentire e soprattutto può passare da lì per caso.
Ricordiamoci di questi passaggi quando riteniamo di risolvere tutto con un paio decisioni che in realtà sanano i conti con la nostra coscienza.

Infine il futuro.

Se siete arrivati sin qui vuol dire che dovrò complimentarmi personalmente.
Cosa ci diciamo per il futuro?
Riprendiamo i concetti chiave.
Il nostro libretto delle istruzioni deve guardare al mondo. Fare l’opera solo per chi conosce l’opera è un atto di onanismo imperdonabile in questi frangenti di chiusura fisica e apertura virtuale. Gli altri, i non-spettatori non-paganti, non sono più i barbari ma sono genti da attrarre. Parlano un’altra lingua, ok. Ma l’arte ha un obbligo preciso in tal senso, per troppo tempo disatteso: inventare nuovi linguaggi per chi a quei linguaggi deve ancora arrivare.
Leggerezza e rapidità devono entrare nel nostro vocabolario di conversione, di traduzione. Perché in questo momento, a parte innovare (che è una fatica pazzesca), noi stiamo traducendo. Stiamo traslando antichi codici in nuovi ambiti e per farlo corriamo il rischio di essere oziosi, autoreferenziali.  Dobbiamo agire a 360 gradi quando pensiamo a programmare per i teatri: ritmo e durata dello spettacolo sono i primi nodi da sciogliere.

Insomma.

Insomma penso che molto abbiamo fatto e che molto possiamo fare: dobbiamo imparare a distinguere tra i confini e l’invenzione di un confine. Spesso siamo noi che ragioniamo applicando vecchi registri a nuove narrazioni. E il motivo è sempre quella piccola insistente tentazione che oscilla tra l’abitudine e la convenienza. Quando qualcosa cambia, la prima tentazione è quella di alzare una Grande Muraglia per difendere ciò che abbiamo dentro. Ma quando ci accorgiamo che il nostro eroismo domestico è solo mero spirito di autoconservazione, allora dobbiamo cambiare idea. Senza esitazione, magari insieme per darci coraggio.
E muoverci davvero per vie che superino la mutazione.    

Chiacchiere da radio

Ho avuto il privilegio di parlare di me in una bella trasmissione radiofonica andata in onda su Rai Radio1. Ci troverete un po’ di chiacchiere su ciò che volevo essere e su ciò che sono diventato, sulla mia musica, i miei errori, le cose che ho scritto, le mie illusioni e le mie piccole soddisfazioni. Tutto ciò grazie alla delicatezza di Eliana Escheri che ha saputo lasciarmi libero di parlare senza concedermi di straparlare.

Il podcast lo trovate qui.

Speranze

Basta
Idioti
Dell’
Egoismo
Negazionista

Cento di questi giorni

È sera. La playlist in sottofondo mi regala “What a fool believes” dei Doobie Brothers, un pezzo che mi piace ma non mi entusiasma come tutta la musica dei Doobies. Sorseggio un Rosso di Montalcino e addento un panino alle olive nell’attesa della cena che, per motivi di lavoro, non arriverà prima delle 22- 22,30: ci sono abituato, come ogni giornalista della mia età che ha lavorato, per oltre vent’anni, per un prodotto di carta che si confezionava di notte.
Trascorro scribacchiando le ore che mi separano dal compleanno numero 58. E quest’anno non è un compleanno come gli altri (faccio finta di ignorare che è ontologico che il compleanno sia sempre qualcosa di diverso dato che scandisce il cambiamento per antonomasia). Sì, quest’anno è davvero diverso.
Provengo da una galassia temporale nella quale tutte le certezze sono state frullate, ma non amalgamate: eh sì, c’è un mondo nuovo del quale devo esplorare gli angoli, dopo averne conosciuto solo gli spigoli. Devo fare i conti con una assenza fondamentale e con una emergenza ordinaria, del resto questa epoca Codiv non potrebbe essere anche inquadrata con un ossimoro?
C’è soprattutto la voglia di smettere di misurare il tempo e di godersi un momento che, se non fosse per i tempi, sarebbe bellissimo. Un momento in cui le idee fluiscono alla perfezione, in cui tutto sembra al posto giusto, anche quel libro sbilenco sulla libreria che fa sbiellare la mente di un doc come il sottoscritto, in cui finalmente i conti tornano (tutti: lavorativi, logici, matematici, sociali, eccetera). Poi però ti accorgi che davvero una vita non basta: hai così poco tempo e così tante scemenze da rintuzzare, così tanti errori da rimpiangere, così tanti nuovi affetti da onorare e così tanti traditori da mandare affanculo. Quando, diversi anni fa, ebbi l’ardire di sposarmi, una persona mandò un regalo con un biglietto di involontaria genialità (e sull’involontarietà non ho dubbi): “Cento di questi giorni”. Altro che gaffe, un genio! Involontario e profetico. Era come se avesse dipinto il mio futuro, augurandomi nuove emozioni, nuovi scenari, nuovi rimedi, nuovi rifugi.
E ci azzeccò (ma come ogni genio involontario non lo saprà mai).
Ecco, a poche ore da questo scomodo compleanno a questo penso. A godermi un momento in cui non avrò il tempo per godermela, ma sarò comunque preso da qualcosa di vero, vivo e acceso. Una volta, sempre a proposito di compleanni, scrissi qui una storia che aveva a che fare con gli spazzolini. Oggi sono più propenso a usare gli spazzoloni.

È sera. La playlist finalmente mi regala Thieves in the temple  di Herbie Hancock. E tutto si riallaccia: l’età che avanza, le scelte, la fortuna, i pericoli scampati e le scommesse.
È ora (tarda) di cena. Domani sarà il caso di ripescare quel biglietto di involontaria genialità. O forse di godersela finalmente senza il ronzio di sottofondo.  

L’uomo del sorriso

La sua forza era la leggerezza. Persino nel suo ultimo articolo, quello dell’addio che ancora oggi non si riesce a leggere senza una vagonata di fazzolettini, una risata va e viene tra le parole che pesano come i macigni del per sempre (e noi sappiamo che l’unico per sempre che ci viene dato di tastare con mano è quello dell’estrema assenza).
Eppure Francesco Foresta era un uomo di grande concretezza e di vaporosa razionalità. Al punto da scavare, tra noi sopravvissuti alla sua arte giornalistica, un prima e un dopo di lui.
Del dopo non c’è voglia di discutere: se un dopo è un dopo doloroso, meglio relegarlo all’ordinario terreno dei rimpianti, non serve tirarlo fuori nei momenti speciali come questo, quando la memoria si illude di farci sorridere delle tragedie.
Del prima, di quel prima invece è bello tirar fuori le vecchie foto dal cassetto e accarezzarle senza cedere alla nostalgia: ascoltarle, lasciare che narrino… narrino di lui, di Francesco, la cui confidenza con la tecnologia era limitata al tasto di accensione di un computer. Funzioni basilari: apri file, chiudi file, copia, elimina… Eppure il suo genio non si lasciò imbrigliare: ci mise qualche anno a capire come funzionava il web, sul quale pure aveva avuto molte riserve in principio, poi partorì l’idea cruciale. “Live Sicilia”, il primo vero portale di informazione online in Sicilia pensato con un’ottica moderna, spiazzò tutti. C’erano dentro tutta la sua prorompenza giornalistica e la sua lungimiranza professionale che già qualche anno prima avevano figliato “I love Sicilia”. C’erano soprattutto la sua abilità nel saper scegliere le forze migliori per raggiungere un obiettivo, la sua divertita umiltà nel saper chiedere aiuto quando si muoveva in terreni nuovi. Era un vero capitano, Francesco Foresta: un fuoriclasse che aveva il fiuto del gol, ma che sapeva anche lasciare la palla al compagno per l’ultimo tocco a porta vuota.

Fu così che s’inventò il giornale on demand, la sua trovata più geniale. Capovolgendo il rapporto classico quasi conseguenziale tra lettore e notizia, studiò un foglio che si stampava solo quando il flusso della notizia era tale da farsi largo da solo tra i lettori: sfruttando la forza di certi avvenimenti, mise su una macchina editoriale che si azionava solo quando poteva fare una tiratura memorabile. Era un giornale che arrivava in edicola quasi a tradimento, ma con una solidità di argomenti tale da andare esaurito in poche ore.
Ci volevano abilità e fortuna per certe avventure. E se la prima era garantita da un fiuto professionale incredibile, la seconda andava assecondata in qualche modo. Non era nato con la camicia, Francesco, ma quando la indossava gli stava benissimo (se la metafora può in qualche modo aiutare): la sua fortuna era che della fortuna gli importava pochissimo, come chiunque viva del qui e adesso, ma quando gli passava davanti sapeva come afferrarla senza scottarsi.
E poi le risate, quelle risate che non lo hanno mai abbandonato neanche nei tempi in cui c’era poco da ridere. Rideva per festeggiare, per canzonare, per incitare (gli altri ancora prima che se stesso). Rideva convinto – e a ragione – che il mondo avrebbe riso con lui anche senza capire il perché: perché la musica delle sue risate era la colonna sonora di interminabili giornate di lavoro quando i giornali si facevano di notte e, soprattutto, esistevano ancora. Rideva per esorcizzare la paura che, giunto ormai alla fine, gli rendeva la vita impossibile: ma vaglielo a dire alla paura che nulla è impossibile per uno che non si lascia disinnescare il sorriso neanche dal più subdolo dei mali. Rideva per vivere e sopravvivere, convinto che solo chi piange resta davvero solo. A che servono quindi le lacrime se non a scavare una distanza dagli altri, sembrava chiedersi.

Oggi, a sei anni di distanza da quell’ultimo sorriso, c’è un mondo completamente diverso da quello che i suoi occhi terreni scrutarono. Ma siamo nel dopo, in quel famoso dopo doloroso di cui non c’è voglia di discutere. C’è un pensiero che ricacciamo indietro a forza, ma che emerge galleggiando nel mare di incertezze di questo nostro presente senza emozioni tattili, senza abbracci che non siano metafore, senza la gioia del superfluo e la consolazione del contatto.
Chissà come avrebbe raccontato l’era della tristezza, l’uomo del sorriso.

In caso di minchiata

Siccome vedo che le minchiate sui social tornano sempre tipo maree nelle notti di luna piena, mi pregio di fornirvi un breviario (breve, manco a dirlo) su come argomentare in situazioni in cui anziché un mouse, vorreste una mazza da baseball a portata di mano.

Gli immigrati vivono alle nostre spalle.
I dati più recenti ci dicono che con i migranti l’Italia guadagna ogni anno 500 milioni: tra Irpef e imposte dirette lo Stato incassa 26,6 miliardi l’anno mentre per l’immigrazione le spese sono di 26,1.

Amazon uccide il commercio.
Invece di boicottare Amazon bisognerebbe chiedersi perché il 76 per cento delle piccole e medie imprese commerciali italiane non ha un sito di commercio online (studio politecnico di Torino).

Col Covid viviamo come carcerati.
I carcerati, quelli veri, se la passano peggio di tutti: e nella pena da scontare non sono previste la tortura e l’umiliazione. Nel mondo le persone chiuse in carcere sono quasi 10 milioni e ottocentomila (e mancano i dati di paesi come la Somalia e la Corea del Nord, mentre quelli della Cina sono buttati lì alla maniera… cinese). Secondo il World Prison Brief il numero totale è superiore agli undici milioni. Il paese con più carcerati in rapporto alla popolazione sono gli Stati Uniti: 665 ogni centomila abitanti. L’Italia è al 154° posto con 90 detenuti ogni centomila abitanti. Nel novembre scorso nel nostro paese c’erano 53.563 detenuti contro 47.187 posti disponibili. Ecco, adesso ipotizzate un distanziamento dietro le sbarre, poi fate un sospiro.

Con questi telefonini dove andremo a finire…
Dal 2007 al 2013 il mercato degli smartphone è cresciuto a dismisura. Poi nel 2017, per la prima volta, le vendite mondiali sono diminuite rispetto all’anno precedente: 1.466 milioni contro 1.470 milioni dell’anno precedente. Nel 2010 erano 305 milioni.

Palermo è uno dei Sud del mondo.
Facile da pensare, impossibile da dimostrare. Basti pensare che la latitudine di Palermo è pressoché uguale a quella di Washington e di Samarcanda. E anche con la longitudine ci sono sorprese, dato che Palermo è ad est di Udine.