Da buon divoratore di serie televisive sono riuscito a fare un’auto diagnosi del mio essere utente, una via di mezzo tra un’analisi di coscienza e semplice peso del gusto. Innanzitutto la quantità: sono un bulimico di sensazioni e mi iscrivo alla fazione di quelli che amano il binge watching, cioè la visione consecutiva di più episodi di una serie (anche se la maniera classica di programmare uscite settimanali sembra resistere). Non ho seguito Dallas – allora mi rifiutavo di vedere qualsiasi cosa fosse a puntate – ma ne ho lette di ogni di tipo sulla famosa volta in cui spararono a J.R. e la serie si fermò per otto mesi: col senno di oggi non avrei resistito alla provocazione e forse, per protesta, non avrei più guardato Dallas.
I personaggi contano. Anche per quantità. Le serie migliori che ho visto ne hanno pochi e fortissimi. Linee narrative chiare, intrecci di purezza stilistica, niente pasticci con mezze figure messe lì per complicare le cose. Friends: sei amici, dieci stagioni. Desperate Houswiwes: quattro casalinghe, otto stagioni. 24: un agente, dieci stagioni. Breaking Bad (indicata tra le migliori serie di tutti i tempi): due complici, cinque stagioni. Stranger Things: cinque bambini, tre stagioni (la quarta in arrivo).
Certo, ci sono numerose eccezioni – Lost, Fargo e The Man in the High Castle svettano – in cui il groviglio di personaggi e soprattutto la loro collocazione temporale hanno un ruolo fondamentale nel meccanismo di fascinazione televisiva. Ma lì entra in gioco un altro fattore, quello decisivo: la magia semplice di una trama complessa. Chi scrive sa che far confusione è il modo migliore per diluire incertezze e attrarre menti distratte. La stagione finale del Trono di spade è un esempio perfetto di questa somma di imperfezioni: combattimenti a go-go, effetti speciali e morti distratte per chiudere una partita tirata troppo per le lunghe.
Per capire cosa è la magia semplice di una trama complessa basta leggere un qualsiasi libro di Agatha Christie (qui un mio minimo podcast), poi virare su Stephen King e le sue serie come Castle Rock e Mr Mercedes. Dato un fatto (un misterioso prigioniero sepolto vivo in una stanza segreta di un penitenziario o un serial killer che colpisce anche se morto cerebralmente) King riesce a puntellare la storia di personaggi talmente forti da far dimenticare ogni forma di plausibilità: se in un film normale un morto che resuscita può far sorridere, in un prodotto di King getta nel terrore e/o accende la passione. Il gioco sta tutto lì, nel saper usare il bastone e la carota con il lettore/spettatore. Ti spiazzo con un cliffhanger che ti toglie il sonno, ma subito dopo ti rassicuro con una battuta che il tuo personaggio preferito dice come se fossi tu a pronunciarla, perché tu sei lui e nessun altro lo è più di te (l’identificazione nel personaggio è in un film la mossa vincente dell’autore, nel senso che se riesce, può scrivere qualunque cosa, tu sarai lì a seguirlo a bocca aperta).
Insomma da buon divoratore di serie televisive seguo la mia indole di lettore (sono uno che legge per scelta di notte, ma di questo parleremo un’altra volta): seguo il vizio, do retta alle mie insofferenze e godo dei miei pregiudizi.