Porto bella

Porto

Ero tentato di ammorbarvi di foto per raccontare la bellezza dirompente e graffiante di una città come Porto. Poi ho fatto il ragionamento più scontato: chi minchia sono io per recensire storia, tradizioni, cultura di un posto così unico nel mondo? E chiedendomelo ho trovato la risposta. L’unicità di un racconto è l’insieme di sensazioni di chi ci è dentro: quindi di quelle vi dico.
Nessuna presunzione di essere guida, del resto neanche io in generale so bene dove vado (forse manco mi interessa troppo), e anzi qui il Cammino è un raro momento di coscienza in tema di direzione, volontà, impegno a lungo termine. 

Porto è l’unica sosta programmata in questi 28 giorni di scarpinata ininterrotta. Una sosta non proprio comoda dal momento che dalle ultime rive del Douro, sul quale la città è adagiata, al centro c’è un dislivello che gli ottimisti chiamano scarpinata e la restante parte del mondo chiama scalata. Nulla ha comunque inficiato l’unico momento in cui una mattina mi sono svegliato (pur non avendo cantato “Bella ciao”), non ho consultato mappe, non ho ricomposto a bestemmie lo zaino, non mi sono strafatto di Vaselina: mi sono alzato, ho fatto colazione come una persona normale e mi sono concesso l’ebrezza di fare il turista. Mi sono detto: oggi riposo. Eppure dopo tre ore di giri ininterrotti mi sono reso conto di aver guardato l’orologio con l’ansia improvvisa di sapere quanto mancava alla destinazione. Ma è stato un attimo. Poi mi sono immerso nuovamente nei miei pensieri e nelle considerazioni di cui vi sto dicendo.

Vista da siciliano, Porto è più affascinante di Parigi, più graffiante di San Francisco, più ammaliante di Londra, più efficiente di Oslo. Perché gli occhi di un palermitano vedono in questa città il riflesso di mille occasioni mancate. In fondo noi meridionali di tutto il mondo siamo anche quel che ci è stato tolto. Siamo orfani di città imperfette che affascinano gli imperfetti: e gli imperfetti, che piaccia o no, sono la maggioranza della popolazione dello zoo umano.
Porto ostenta l’abbandono e la criminalità che non mi sono estranee, ma ha soprattutto un’altra faccia orgogliosamente diversa. Il tema dell’orgoglio è fondamentale per capire questo popolo. L’orgoglio portoghese non è l’orgoglio francese o quello italiano. Loro, i portoghesi, sono pacificati col passato: dopo aver esplorato (e conquistato) il mondo si sono ritirati su una striscia di terra nella quale vivono senza rompere i coglioni a nessuno. Accolgono ma non hanno la pretesa di darti lezioni (come invece facciamo noi, i francesi, i tedeschi, eccetera). Hanno un’attenzione per la qualità che noi ci sogniamo.
Stasera ceno in uno dei posti più incredibili in cui sia stato. Ho comunicato di essere vegetariano e mi hanno mandato un tale che è esperto di cucina vegetariana e che ovviamente ha saputo accoppiare il vino giusto ai miei piatti. Ho pagato poco più di che in un medio ristorante di Palermo dove avrei potuto trovare un cameriere svogliato e una cassiera che con una mano ti scodella il conto e con l’altra si masturba di social network sotto il bancone. Insomma ho pagato un conto a gente perfettamente consapevole di quel che ti sta chiedendo: che è un tema, dal momento che la consapevolezza è il buco nero di una parte (la più scarsa e diffusa) dell’offerta commerciale delle nostre lande.

In generale, come ho spiegato, qui non hanno il feticismo della pulizia. Una cartaccia in un vicolo può scappare, ma una piazza la mattina deve essere linda senza eccezioni. 
Qui si capisce che c’è un’idea di amministrazione pubblica (non so manco di che ispirazione politica sia e il fatto che non me lo chieda vuole dire che non è importante saperlo) che non cerca i giochi di prestigio ma solo un minimo di risultato. Di domenica tutto aperto, tutto sorvegliato, tutto spiegato in almeno due lingue (anche il più raccomandato dei bigliettai di bus, metro, musei parla l’inglese, sorride per contratto e sta al suo posto senza eccezioni).
Ecco perché, in soldoni, per un siciliano Porto non è solo bella. Ma è drammaticamente bella.

P.S.
Da domani oceano e pensieri conseguenti. Ameno spero.

15 – continua

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Il mattino può attendere

Espinho – Porto

C’è questo detto, contro il quale combatto da decenni, secondo il quale il mattino ha l’oro in bocca. Ora, a parte la citazione obbligata per quel capolavoro che è Shining, c’è un dato incontrovertibile che vi prego di prendere per buono (perché altrimenti il settore cazzi miei diventerebbe difficile da gestire pubblicamente): tutti i peggiori casini della mia esistenza sono avvenuti in un orario che ha tolto il prezioso cibo dalla boccuccia dell’incolpevole mattino.
Col sole ancora basso ho affrontato disastri professionali, sentimentali e familiari, ho dovuto inventarmi anticorpi che non avevo, dato che il mio fisico era abituato a lavorare sino a notte ma non a essere reattivo prima di una certa ora (che ci crediate o no i giornali, quando esistevano, si facevano di sera). 
Insomma per me il mattino al massimo può avere in bocca un espresso doppio e amaro, dopodiché può farsi una bella ripassata di letto. 
Tutto questo per dirvi che, come accennavo qualche giorno fa, i miei orari di partenza sono comodi, anzi “comodi” così nessuno può ironizzare: le virgolette, che personalmente detesto, sono il migliore modo per invocare il fraintendimento. 

Non frequento gli albergue, né i centri di accumulo di pellegrini esausti quindi sto molto ritirato rispetto agli altri camminanti. Ciò significa che non ho termini di paragone con le tabelle di marcia altrui. Però so per certo che la mattina parto per ultimo: mai prima delle 9. Dite: così ti becchi le ore più calde. Dico: ma se mi sono allenato per mesi e mesi a Palermo, in Sicilia, dove a maggio c’erano dieci gradi in più di stasera che bambolina devo vincere se mi butto dal letto due ore prima?
Cammino e basta. Usando le mie precauzioni (protezione solare totale), con scorte di acqua strategiche (perché l’acqua pesa), e inseguendo il miraggio del ghiacciolo perfetto nei bar che incontro lungo ogni tappa.
Quindi altro che oro in bocca – del resto vedete come finisce a Jack Torrance nel film di cui sopra ispirato dal genio di Stephen King – per quanto mi riguarda il mattino ha nella panza diversi caffè, un paio di cornetti, uno yogurt e un piatto di frutta. Poi se la sbriga lui. Io comunque mi metto in cammino. 

P.S.
Sono finalmente arrivato a Porto e domani è il primo giorno libero, anzi “libero” da turista. sono indeciso se farmi la città a piedi o per una volta cedere al lusso di bus, monopattini, metropolitana. Lusso o “lusso”?

14 – continua

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In passerella

São João da Madeira – Espinho

Ho già percorso oltre 360 chilometri, almeno questi sono quelli ufficiali poi ci sono quelli in più di cui vi ho detto varie volte: comunque sono oltre la metà del Cammino portoghese. Sono arrivato finalmente sull’oceano. Ci sono arrivato in anticipo rispetto all’itinerario ufficiale poiché ho cambiato una tappa: al posto di Grijò, un piccolo paese squallido dove non c’è quasi nulla a parte un bel convento che lascio in esclusiva ai pellegrini, ho deviato verso ovest e sono andato a Espinho, una divertente cittadina di surfisti e gaudenti attempati con una spiaggia di 17 chilometri dove è bello perdersi tra i bar e i ristoranti dell’infinito lungomare (ovviamente pulito e ben curato). Ci sono vari motivi di fascinazione per cui vale la pena di spendere qualche riga su questo posto. 

Primo, il mare: da qui inizia la parte più bella del Cammino portoghese, quella sulle passerelle di legno che per centinaia di chilometri mi porteranno in Spagna. Le passerelle offrono un vantaggio pratico, servono a non impelagarsi nella sabbia sebbene ci siano tratti che si possono percorrere a piedi nudi sulla battigia, e soprattutto uno ambientale perché sono una protezione delle dune, fondamentali per l’equilibrio ecologico di queste aree. 
Secondo: sto entrando nella Valle del fiume Douro, considerata la più importante zona vinicola del Portogallo, rinomata in tutto il mondo per i suoi vini forti e di gran carattere. E sapete che io sono abbastanza sensibile al fascino di una buona bottiglia (di rosso, of course). 

Come in ogni cammino mi sono dato, senza alcuna fatica, regole nette sulle comunicazioni. Che sono ridotte al minimo, tranne tipo la sera quando mi ricollego col mondo per scrivere questi diari, e che hanno come eccezioni mia madre e un gruppo ristretto di amici cari. Ciò serve fondamentalmente a proteggermi da un evento pernicioso per un giornalista, l’invadenza della cronaca. La mattina leggo i giornali dopodiché archivio ogni considerazione, anzi quasi la cestino, e mi dedico ad altri pensieri, indosso altre vesti, quelle del viaggiatore che annusa l’aria per conoscere ciò che altri sensi non consentono di esplorare, quelle dell’appassionato di musica che finalmente ha la colonna sonora per il film di quella fetta di mondo che sta attraversando lento pede. E’ per questo che stamattina ho salutato come un evento giubilare la telefonata – ne ho accettate sei o sette in tutto da quando sono in cammino – di un amico e giornalista che cazzeggiando mi ha chiesto cosa ne pensassi di alcune vicende dominanti in questo momento in Italia. La piacevole conversazione, possibile solo perché ero in pianura e a soli cinque chilometri dall’arrivo, mi ha dato la misura di quanto, per contrasto, sia fondamentale perdersi una volta tanto nella cronaca di se stessi. E ciò vale ovviamente non solo per i giornalisti, che pure sono tra quelli più a rischio alienazione. 
Imparare a dedicarsi a qualcosa di vicino allunga la vita delle cellule della soddisfazione. Non è facile, lo so. Ma basta provarci. Basta prendere un compasso e fare cerchi sempre più piccoli e in essi immergersi per scoprire che un cerchio piccolo non ha meno spunti, ma li ha più concentrati, più intensi.

13 – continua

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Il callo (e non si parla di piedi)

Albergaria-a-NovaSão João da Madeira

I momenti al ristorante (o in qualche posto in cui si ingurgita cibo prima di svenire per la fame) sono preziosi per tirare le somme di giornate di chilometri e sudore. Appena il mio nobile posteriore fa contatto con la sedia e i miei polpastrelli accarezzano un bicchiere di vino, entro in modalità sociale: accendo l’iPad, mi ricollego col mondo (anzi solo con quella parte che non mi dà disagio, e qui mettiamo un segnalibro per le prossime puntate) e scrivo queste note. E’chiaro che i miei resoconti sono spesso condizionati, se non addirittura ispirati, da ciò che accade in questi momenti di relax.
Per questo vi racconto due minime storie che mi hanno colpito sinora. Le storie di due calli.

La prima a Sernadelo dove ho cenato accanto a una coppia abbastanza giovane: abbastanza giovane rispetto a me quindi fate voi e tenetevi le vostre considerazioni.
Lei gli parlava divertita, lui annuiva sorridendo dietro lo schermo di un cellulare. Io ero dietro di lui e vedevo cosa stava guardando: immondizia di Tik Tok, calcio, Formula 1, filmati di cadute divertenti. Nulla di compromettente. Ma quel che mi ha impressionato è stata la serena perseveranza di lei che continuava a chiacchierare come se si stessero guardando in faccia, come se quel cellulare non esistesse: rideva, parlava, si divertiva insomma.
Ho fatto due considerazioni: o era talmente abituata a interagire in questo modo (da notare che lei non ha mai tirato fuori il suo smartphone) da averci fatto il callo, o si era ritrovata nella inconfessabile consapevolezza di un’alternativa mancante, quindi o così o niente (callo uno). Ci sarebbe una terza via che avrebbe a che fare con la mia visione trasversale ma è bene che me la tenga per me: non sempre tutto ciò che ci è inspiegabile ha una soluzione nelle nostre manie e\o perversioni.

La seconda stasera a São João da Madeira. Ci sono due ristoranti l’uno accanto all’altro e si capisce che non ci sono buoni rapporti tra i proprietari. Entrambi hanno tavoli all’esterno in una deliziosa e tranquilla isola pedonale. La guerra è sul terreno più sanguinoso che mi viene in mente in questo momento di relax: la musica.
Si fanno guerra con la musica diffusa all’esterno.
Ognuno ha la sua colonna sonora. Sospetto che le compilation, come si chiamavano una volta, siano stilate con intento apertamente bellicoso. In questo momento uno spara “Gloria” e l’altro “Lady Marmalade” (comunque canzoni dignitose).
La parte impressionante è quella che riguarda i clienti. Non so voi, ma io rischio di impazzire se due persone mi parlano in contemporanea, figuriamoci se mi si sparano due brani musicali nello stesso momento.
Aggiornamento live, scopro adesso che di fronte c’è una chiesa con campane amplificate che ovviamente ha il diritto di fare la sua parte: quindi la situazione è Tozzi nel canale destro, Labelle nel sinistro, campane al centro. Mi guardo intorno. Tutti cenano e chiacchierano come se niente fosse. L’orgia di suoni tramortisce solo me e questo è un pensiero da mettere nel caricatore per i prossimi giorni.
Perché solo io sono a disagio?
Perché il mondo riesce a godere di una promiscuità multitasking?
Giro a voi i dubbi, con una domanda in più.
Vi è capitato di chiedervi se siete voi ad aver sviluppato un’ipersensibilità o se è il contesto che vi circonda che ha fatto il callo? (callo due)
Intanto indosso i miei auricolari, mi sparo un Prince e porto questo post al suo approdo (vale come un callo tre?).

P.S.
Mentre scrivevo questo post mi è venuta un’immagine in testa. E non era una delle mille foto scattate durante il mio cammino, ma inopinatamente quella di un film che ho adorato: “Il senso della vita” dei Monty Python.
Sarà un pernicioso effetto collaterale del callo.

12 – continua

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Il signor Fernando

Sernadelo – Águeda
Águeda – Albergaria-a-Nova

Stamattina la tappa era abbastanza leggera quindi me la sono presa comoda. Ero ad Águeda, una cittadina poco nota lungo il Cammino portoghese che non ha monumenti indimenticabili ma che, ho scoperto, infonde la serenità delle piccole cose di buon gusto. Prima di affrontare la mia dose giornaliera di chilometri ho fatto un giro, seguendo la scia di ombrelli colorati che decorano alcune sue vie suggestive e mi sono informato. Ogni estate in questo posto si svolge uno dei più importanti festival artistici del Portogallo, l’AgitÁgeda. La punta di diamante delle manifestazioni è l’Umbrella Sky Project, un’idea che poi è stata copiata da molte città del mondo. 

Era presto per la mia tabella di marcia (parleremo dei miei orari anarchici perché so che è tema caldo tra chi fa la mia stessa esperienza) e ho deciso di investire il mio tempo nella maniera meno consueta per un camminatore seriale e compulsivo. Mi sono seduto su una panchina e ho lanciato un brano a caso della mia playlist “Passi felici” – la trovate sul mio account di Apple Music. Mentre ascoltavo questa canzone mi sono guardato intorno con l’inusuale filtro della semplicità: del resto ero lì, solo, con uno zaino che racchiudeva la mia vita, avevo tutto quello che serve (riserva d’acqua, pancia piena, scarpe ben allacciate, pensieri sguinzagliati). Sul lungofiume in cui mi trovavo c’erano decine di ragazzini, accompagnati da maestre o chessò impiegate comunali, che si divertivano e sudavano nel parco giochi lindo e perfettamente funzionante. Un papà con passeggino faceva giocare il suo cane con una palla, mostrando di amministrare con gioia i suoi affetti a due, quattro zampe/ruote. Intorno tutto abbastanza pulito, ma di un pulito, come dire?, non clamoroso. Che se ci pensate bene, per noi abituati al lerciume di ordinanza è impressionante. Perché è facile lasciarsi incantare dalla pulizia svizzera o altoatesina, per fare due esempi banali, ma trovare una efficienza discreta laddove magari una cicca o qualche bottiglia fa capolino – il mio caso portoghese – è di maggiore effetto. Perché ti fa capire che una città accettabilmente pulita, seppur coi suoi limiti e le sue eccezioni, ti libera dall’illusione della fantascienza.
Mi pare un concetto basilare che tira in ballo la responsabilità comune. Sino a quando non capiremo che le sorti di una comunità non sono soltanto nelle mani dei nostri amministratori, ma soprattutto nelle nostre, nel nostro senso civico, nella quota di responsabilità che dobbiamo brandire non appena varchiamo la soglia di casa, non avremo speranza alcuna.
Ok, fine del pippone. Ogni tanto mi faccio prendere da fremiti che interferiscono con una strisciante andropausa civile (non si può stare in trincea per sempre, le retroguardie in fondo possono essere posti in cui è bello svernare, e non sono in Cammino per caso…).

Comunque, a proposito di prendersela comoda. A fine cammino oggi, a dispetto delle good vibrations della partenza, approdai in una specie di hotel poco al di sotto del rango di topaia: ci ho messo cinque minuti per entrare nell’antro a me assegnato, scacciare una decina di mosche e insetti vari, individuare un pelo sul cuscino, incuriosirmi per una macchia sull’asciugamani (sarà bruciatura di sigaretta o residuo organico?), mandare affanculo il capo-topaia e chiamare un taxi.
“Dove andiamo?”, ha chiesto il signor Fernando, orgoglioso di portare un nome italiano.
“Vada a Nord che tra poco le dico”.
Nel giro di pochi chilometri (come scorrono veloci quando si è su ruote, minchia!) ho trovato al volo un fantastico hotel abbastanza distante dal Cammino: una grave violazione nella mia ortodossia dato che non mi allontano mai – tantopiù in taxi! – dal percorso. Trovato rimedio all’emergenza, trovato rimedio al rimedio dell’emergenza. In due modi.
Il primo. Domani mattina il signor Fernando mi viene a riprendere e mi riallinea all’itinerario.
Il secondo me lo sono dimenticato mentre entravo nella Jacuzzi.

11 – continua

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Figli di una saponetta minore (di Marsiglia)

Coimbra – Sernadelo

Da Rabaçal il Cammino portoghese risente di una certa urbanizzazione, il che inevitabilmente mette a dura prova la resistenza psicologica forgiata nelle lande deserte. Ma è il prezzo da pagare per arrivare alla Senda Litoral cioè a quei quasi duecento chilometri lungo l’oceano che sono (almeno per me) la grande attrattiva di questo Cammino. A proposito di chilometri, sinora ne ho percorsi 275 quindi sono a oltre un terzo del percorso. Ma sappiamo che la distanza è solo uno dei fattori da considerare, ben più importante è il dislivello, o la temperatura che negli ultimi giorni è un problema: ad esempio stamattina ho deciso di sacrificare un po’ della mia scorta d’acqua per rinfrescare la nuca infuocata e non è decisione da prendere alla leggera quando il sole picchia e non c’è fonte a portata di gambe. Comunque al di là dell’ordinaria amministrazione, come lo è il caldo d’estate per chi, invece di starsene in panciolle su una spiaggia, scarpina per mulattiere che manco i muli cagano di striscio, l’unico problema fisico è al momento quello dello sfregamento degli spallacci dello zaino che mi dà fastidio alle spalle (alla faccia della vaselina). 

Vabbè, sin qui la cronaca.

Andiamo al noto settore cazzi miei che tanto vi entusiasma. Perché, va detto, noi raccontatori e\o giornalisti ci illudiamo di imbastire storie di fantasia, oppure ci illudiamo di catturarvi con le nostre cronache fedeli ai fatti (rigorosamente separati dalle opinioni), ma alla fine quel che fa groove è l’inciampo nel tinello, il capello sul cuscino, la cena sbagliata. Non ci vuole arte divinatoria né grande visione strategica: basta leggere i commenti.
Quindi il sapone di Marsiglia
Con la dotazione di abbigliamento che mi ritrovo, la mia stessa esistenza in vita odorosamente civile e sociale dipende da un pezzo di sapone col quale ogni giorno lavo le mie cose. Ogni santo giorno, che sia stanco o sfinito, la prima cosa che faccio appena conquistata la sicurezza della tappa (cioè una stanza da letto con bagno annesso, anzi viceversa) è fare il bucato. Calzini, maglietta, mutande, bandana. Se tempo e spazio lo consentono, i pantaloncini (che sono pesanti e seccanti da trattare). 
E qui scatta il piano strategico.
Siccome il vero problema è l’asciugatura devo identificare un ambiente idoneo per raggiungere il miglior risultato nel minor tempo. Minchia, avete mai considerato che un paio di calzini da running asciuga più difficilmente di una maglietta? E che la strizzatura è una disciplina tra lo yoga e l’origami? 
Quindi cerco di creare il microclima ideale isolando la biancheria in bagno in modo che l’aria condizionata della quale mi drogo non infici la stagionatura degli indumenti (perché già dopo una settimana le magliette non si asciugano, stagionano tipo forma di Grana). Risultato 40 gradi in bagno, 20 in stanza da letto, roba che i meteorologi potrebbero studiare per capire gli squilibri ambientali in Italia e nel mondo. 

10 – continua

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Una Macarena alle spalle

RabaçalCoimbra

A Coimbra sono finito in uno di quei mega hotel “tuttocompreso” dove pascolano migliaia di turisti tra piscina, buffet, giochi aperitivo, macarene che arrivano a tradimento come una coltellata alle spalle, bambini urlanti, genitori depressi, salvagenti a forma di cigno e panze a forma di tamburo.
Ci sta. Dopo giorni di disagio surreale, quindi comunque romanzeschi, il ritorno a un briciolo di normalità ci sta. E la normalità è anche il gioco aperitivo. Il pericolo in questi casi è costituito da uno dei virus più insidiosi del nostro secolo, quello dell’entusiasmo immotivato.
Si tratta di quel sentimento che scocca come la macarena (coltellata): quando meno te lo aspetti. Tipo, uno grida “viva la pastaaa!” e tutti appresso “viva la pastaaa!”. Un altro prega a voce alta (sta accadendo adesso) e molti altri si accodano tipo coro : “We are the world”. E’ un po’ l’aria che si respira in molti luoghi di lavoro dove uno, spesso il meno qualificato, spaccia una cazzata, che gli è venuta così in virtù del suo mestiere di “abbastanza cretino”, per un’idea, e tutti intorno (anche i meno cretini e spesso quelli che non lo sono affatto) applaudono: bravissimo! Non è sindrome di Fantozzi, quella era arte pura. Questa è ordinarietà fatta regola. E l’entusiasmo immotivato è il motore di gran parte della vita sociale che conosciamo. Coi risultati che conosciamo.
Se ci pensate è il segreto glorioso del gioco aperitivo, l’unica attività in cui ci si finge cretini con l’orgoglio di esserlo davvero.

Io la macarena non l’ho ballata, ma ci ho sorriso su (sorriso, non riso). Perché l’entusiasmo immotivato ha una storia che va presa con le pinze, dal momento che non siamo tutti Elkann o De Gregorio: i lumpen hanno diritto al loro spazio vitale, che spesso invade quello degli altri è vero, ma non è usando lo sdegno che ci si differenzia. In molti casi è molto utile osservare, brandire la fantasia, giocare (giocare sempre), galleggiare. Scrutare il Carosello che ti gira intorno e pensare che se non ci fosse, tu non saresti quello che sei: non è questione di sentirsi migliori (mai), ma di rivendicarsi diversi. Perché magari sei uno che il gioco aperitivo l’ha fatto molte volte in gioventù, anche nel ruolo di chi lo governa (!!!). Uno che non disdegna vacanze “normali”, ma che fin quando le forze glielo consentiranno imboccherà un sentiero scosceso. Uno che ci ha provato a imbastire una vita familiare almeno in senso numerico (1+1=?) ma poi ha smesso perché in certi casi la matematica non è solo opinione ma magari è un sentimento.
Insomma oggi volevo parlarvi di tutt’altro, as usual, ma finii per rimestare nei cazzi miei. 
Domani, se sopravvivo al caldo e ai saliscendi, magari mi rifaccio. Ho un pezzo di sapone di Marsiglia di cui vorrei dirvi… 

9 – continua

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A dieci euro di distanza

Tomar – Alvaiàzere
Alvaiàzere – Rabaçal

Scrivo da un paesino di cui non conosco il nome. Mi ci ha portato un tassista pressoché ottantenne, che parla solo portoghese e che sospetto sia anche un po’ sordo. La sordità l’ho presunta dai dialoghi per telefono in viva voce con amici o parenti o colleghi che urlavano per ottenere risposta mentre lui infilava una curva dopo l’altra. Quando mi è venuto a prendere nell’eremo che mi ospita stasera, gli ho spiegato a gesti che volevo mangiare e lui sorridendo ha ingranato la marcia. Sempre sorridendo mi ha depositato in un ristorante a 10 euro di distanza, nel quale sto scrivendo queste note tra i fumi di carne arrostita e quelli dell’alcol dato che il vino locale più leggero ha come gradazione 14,5.

Ieri avevo cenato in un loculo di Alvaiàzere gestito dal tale che era anche il tenutario della stamberga che mi ospitava. Anche lì i fumi della carne mi avevano stordito. Ecco perché avevo deciso la sorte di una delle tre magliette “da sera”, cioè quelle non “da camminata”: avrei dovuto lavarla perché indossandola mi sentivo uno stinco di maiale, ma avevo scelto la soluzione che mi dava più serenità, buttarla. 
La notte era stata complicata dato che il tenutario aveva deciso di far parcheggiare un camion frigo proprio sotto la mia stanza, in corrispondenza di una presa di corrente per alimentare l’impianto di refrigerazione. Risultato: un ronzio vibrante basso implacabile che si attacca direttamente al sistema nervoso, tipo presa usb. Per otto ore consecutive.
Per la prima colazione, il tenutario, che non fornisce questi inutili servizi, mi aveva liquidato nel suo portoghese più svogliato con una frase tipo “cento metri e trovi un bar”. Il bar ovviamente era chiuso e Alvaiàzere non è Londra quindi se trovi un bar chiuso e sei a piedi alle 8 di mattina, e ti aspettano 32 chilometri, e hai dormito col camion come comodino, cominci ad allarmarti. Se il buongiorno si vede dal mattino, che il mattino abbia almeno modo di esserci, e che cazzo!
La fortuna mi è venuta incontro sotto forma di signora a passeggio col cane che vedendomi rincoglionito, smarrito, coi passi stentati, faccia rinsecchita tipo salma di tre giorni, ha deliberatamente scelto di darmi aiuto. Un atto di carità. C’è un altro bar a un chilometro di distanza, mi ha rivelato come un quarto segreto di Fatima (che tra l’altro è qua dietro).

Ora, nel ristorante della località sconosciuta, approfittando della cortina di fumo che si è diradata, perché stanno ricaricando le teglie, mi accorgo che c’è pure una festa di compleanno di qualcuno che fa 49 anni (così testimoniano i palloncini gonfiati a mia insaputa nella nebbia). Bevo un altro bicchiere di questo “tinto” ammazzacristiani e confido nella fortuna (sulla madonna di Fatima meglio di no, che l’ho evitata nel mio Cammino e magari la cosa rappresenta una pregiudiziale): ho concordato col tassista che a una certa ora mi avrebbe dovuto prelevare da questo posto nel nulla per riportarmi al mio posto nel nulla, un mulino riadattato ad abitazione in un non luogo che persino Google Map si rifiuta di indicare. “Concordato” è una mia licenza descrittiva. Io ho mimato “qui”, “dopo”, “alle 9”, “poi dormire”. Lui ha sorriso e se n’è andato. Secondo me crede che gli ho dato la buonanotte.

P.S.
E’ appena arrivato il festeggiato, il neo quarantanovenne, ed è scoppiato un “tanti auguri a te” in portoghese che credo sia meno sbrigativo del nostro. Si capisce che era una sorpresa. Lui si è commosso scoprendo che tutto il ristorante era lì per lui. L’unico estraneo ero io.

P.P.S.
La foto è quella del posto nel nulla nel quale trascorro la notte. Perché anche il nulla ha il suo fascino.

8 – continua

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Attenzione, caduta alibi

Golegã – Tomar

Se è vero che della prima impressione non ci si fida è anche vero che, se fosse inchiostro, la prima impressione sarebbe indelebile. Ci pensavo scarpinando in questi giorni di estrema e beata solitudine (tra ieri e oggi ho incrociato solo due persone e per meno di cinque minuti, il tempo di allungare il passo e blindarmi nella mia teca di passi e respiri). 
Essendo un diffidente per natura e non riuscendo a liberarmi dalla trappola dei pregiudizi, tratto con molta attenzione la prima impressione. Anche per il suo carattere di unicità: se è prima ci sarà un motivo.
Il bello dei Cammini in solitaria è che ci si può concedere la più anarchica delle libertà, quella di pensare come e quanto cazzo ti pare. Tipo, quando sei incasinato in città, magari al lavoro ti prende una fregola psicologica o ti viene in mente una cosa che vorresti disossare, esaminare sino al dna, smontare e rimontare. Ma dici: ok, appena ho tempo ci penso. E invece non ci pensi, e sai che neanche se scaverai il tempo nella roccia avrai voglia di affrontare realmente quella cosa.

Nel Cammino cadono gli alibi. E vi assicuro che non è una seduta di analisi o una sessione di compiti per le vacanze, ma una sensazione di libertà che non ti assolve, non ti premia, ma ti dà quel minimo di fiducia nella tua fallacia. Ti dice che se agli errori non sempre si può riparare, almeno si può metterli a frutto e cercare di farli diventare occasioni (togliendo l’iniziativa ai Baci Perugina). Che il pensiero leggero con selfie vista aperitivo non funziona come antidoto a pensieri che non sei riuscito a dipanare manco con l’aperitivo. Che non sempre la prima impressione è il trailer del film che ci apprestiamo a vedere, ma che comunque il trailer va visto (e soprattutto va realizzato bene).
Insomma negli ennesimi 30 chilometri ventosi tra Golega e Tomar ho messo in fila alcune prime impressioni basilari sul Portogallo e i portoghesi. Le scrivo in poche righe perché era il concetto che mi premeva raccontare non il succo delle elucubrazioni. Che però elenco per dar prova che ho fatto i compiti per le vacanze.

I portoghesi sono ex potenti che hanno mantenuto la dignità e la consapevolezza di una nazione che è tesoro di cultura diffusa, condivisa. Credo che siano un caso pressoché unico.
Non gradiscono che gli si parli spagnolo. Meglio l’inglese o addirittura l’italiano.
Hanno l’orgoglio di non mettere mai in tavola sale e pepe perché ritengono che il loro modo di condire i cibi sia quello giusto, l’unico.
Fanno un vino ottimo a prezzi onesti. Noi siciliani abbiamo solo da imparare sul rapporto qualità-prezzo. E non solo sul vino. 

7 – continua

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Vaselina e pannocchie

Santarém – Golegã

Ho sempre diffidato delle scorciatoie. Però stamattina, nel rincoglionimento tra caldo e fatica, per una volta ci ho fatto un pensierino. La mappa mi suggeriva un itinerario che mi avrebbe fatto risparmiare un chilometro. Sì lo so, dite: e che sarà mai un chilometro? Se lo dite è perché siete sdraiati al sole o spalmati su un letto fresco, perché se foste al posto mio, coi chilometri che pesano sulle mie spalle più delle tasse che ho da rateizzare nei prossimi mesi, direste: minchia, un chilometro!
Il problema è che mi trovavo immerso in una sterminata piantagione di mais e che già sul sentiero tracciato mi muovevo tipo Jack Nicholson nel labirinto di Shining. Solo che invece del ghiaccio c’era il granoturco. Insomma la notizia non è che ho mancato clamorosamente il sentierino da furbo, ma che per cercarlo ci ho messo un altro chilometro, tra avanti, indietro, prova quel viottolo, aggira quella parete di pannocchie, entra nel fango, esci dal fango (il granturco ha bisogno di acqua, minchia!), cerca qualcuno che ti dia un parere, constata che non c’è anima viva nel giro di dieci chilometri (se il mais soffrisse di solitudine ci sarebbero tutti gli estremi per una carestia). Ovviamente la scorciatoia non si trovò mai.

Di occasioni mancate è fatta la vita, lo sappiamo. Ma negli anni ho imparato che è fatta soprattutto di luoghi cannati. Una volta, nel Cammino del Nord, mancai in toto un paese nel quale dovevo dormire. Non lo trovai mai e l’argomento diventò negli anni una specie di meme con la mia agente di viaggio, quella alla quale affido tutte le mie fisime verso aprile quando scelgo un posto in cui andare a spargere le mie gocce di sudore.
E a proposito di sudore, tenendo la barra della narrazione a dritta per evitare dettagli maleodoranti, mi incarico dell’elogio di una cosa che è solitamente relegata alle mere questioni farmaceutiche o a quelle più pungenti dell’ironia.
La Vaselina.
I miei Cammini (e non solo i miei) sono basati su tre certezze (tipo le tasse, la morte e il silenzio di Badalamenti): le scarpe, lo zaino e la Vaselina. Di scarpe e zaino vi ho detto. Di Vaselina vi confesso che ho qualche remora a parlarne. Perché nessuno ha gioia a oliarsi se non è un bodybuilder o una melanzana, ma forte è la tentazione di spiegarne i vantaggi. Evitare lo sfregamento è, del resto, anche una buona regola di vita sociale.
Il problema semmai è poi lavarla via tutta quella Vaselina, che attira polvere, inguaina la pelle, entra nei vestiti e ti rende un animale sguisciante che cerca solo il suo destino: che sia farina e olio bollente o scrub e bagnoschiuma è un dettaglio ininfluente nella infinita narrazione dei pori dell’universo.

6 – continua

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